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anche Gandhi era un avvocato

Ripubblichiamo di seguito un interessantissimo articolo di Enzo Varricchio pubblicato sulla rivista Previdenza Forense 2/2009. Sapete, infatti, che il tema dell’etica dell’avvocato e della sua figura e immagine presso gli utenti ci sta particolarmente a cuore. Grazie al collega Pio Giorgio Di Leo per la segnalazione (ts). 

Gandhi e la via etica per l’Avvocatura. Il ricordo del Mahatma Gandhi è occasione per riproporre l’importanza per l’avvocatura dell’etica, che dovrebbe tornare protagonista del vivere sociale. La via dell’etica deve ridare agli avvocati un volto equo ed umano, oltre alla dignità e al prestigio necessari per i compiti loro affidati. Di Enzo Varricchio

Gandhi per gli avvocati

Che cosa ha a che vedere “la grande anima” con gli avvocati?? Più di quanto si possa immaginare: anche Mohandas Karamchand Gandhi (Porbandar 1869 – New Delhi 1948), prima di diventare il “Mahatma”, fu un avvocato. Studiò legge al collegio di Samaldas, affiliato all’Università di Ahmedabad. Proseguì gli studi giurisprudenziali all’University College di Londra dal 1888 al 1891. Compiuto il tirocinio nel Temple londinese e divenuto barrister, tornò in India, a Mumbai, ove intraprese l’esercizio della professione forense.
Un giorno, a Rajkot, mentre cercava di scagionare il fratello da un’ingiusta accusa, un funzionario britannico l’offese e lo scacciò, calpestando la sua dignità di avvocato. Cercò di opporsi, proponendo istanza ad un alto funzionario che, tuttavia, ebbe a spiegargli paternalisticamente l’amara “realtà” che i diritti restano mere enunciazioni teoriche per gli esseri reputati socialmente inferiori.
Non accettò mai quell’offesa, che riteneva fatta alla dignità umana in generale, piuttosto che alla sua in particolare, e decise di “non ricorrere più ai Tribunali per nessuna ragione personale”1.
Deluso dalla vita indiana, accettò
di trasferirsi nell’Unione Sudafricana, per trattare un complicato affare legale, per conto di una casa di commercio del Kathiawar.
Giunto a Durban, riuscì a comporre la controversia in modo brillante ma si trovò a subire una serie di angherie e soprusi da parte dei bianchi e, proprio mentre si accingeva a salire sul piroscafo per tornare in patria, cambiò idea, convinto che era suo dovere rimanere in Sudafrica per combattere la segregazione razziale.
Lì ebbe inizio la missione della sua vita: assistere e proteggere chi resta privo di alcun difensore, esposto all’altrui arbitrio, vittima di leggi ingiuste fatte ad uso e per l’abuso dei potenti.
Vi rimase ventuno anni, continuando il lavoro di consulente legale per una ditta indiana, fino a quando, nel 1904, abbandonò la professione legale, che gli rendeva circa seimila sterline l’anno, per dedicarsi interamente alla causa umanitaria. L’esperienza forense gli fu preziosa per difendere i diritti civili e contribuire, una volta tornato in patria, a conquistare per l’India l’indipendenza dagli inglesi.
Egli possedeva tutte le qualità che dovrebbe possedere un buon avvocato: onestà, cultura, competenza, coraggio e un’utopia di giustizia nella mente e nel cuore, da difendere a costo della propria vita.
L’esempio di avvocato illuminato, che la Grande Anima rappresenta, contiene l’auspicio di un nuovo umanesimo per l’ Avvocatura, mercè il riscatto di una categoria professionale oggi in profonda crisi di identità che, tuttavia, riveste un’importanza strategica per il sistema della giustizia terrena. Gandhi ha dimostrato che un uomo di legge deve essere disposto a lottare per l’affermazione dei fini umanitari che si pongono a ragione profonda della norma e che “bisogna avere il coraggio di dire no senza arroganza, senza violenza, senza presunzione, ma con assoluta, incondizionata, irremovibile fermezza ogni qualvolta ci sembri che sia in giuoco quell’ ordine morale in cui risiede la verità più profonda degli istituti sociali e politici che gli uomini, nei vari momenti della loro storia, si danno2”. Ebbene, l’attuale momento storico è uno di quelli in cui si pone in discussione proprio quell’ordine morale che giustifica le istituzioni che gli uomini si danno.
Gandhi, sulla falsariga dei giureconsulti latini, di Agostino d’Ippona, di Ugo Grozio, ci ha rammentato che ogni legge contiene un quid di ingiusto, che essa non è un dogma bensì l’extrema ratio, laddove i cittadini non siano in grado di autoregolamentare i reciproci diritti e doveri; che la norma giusta è fonte di libertà e non di costrizione; che essa deve essere certa, semplice e chiara, rapida nell’attuazione, e concretamente egalitaria.
Egli è un ideal tipo positivo per quanti esercitano la professione forense nell’ambito di un sistema giudiziario quale quello italiano, sempre più incapace di soddisfare le aspettative di giustizia dei cittadini, che imbriglia il ceto forense in una neghittosa rassegnazione, o lo seduce con appiccicose tresche affaristiche, o ne fa un animale da palcoscenico, incastrandolo in un ruolo che poco o punto ha a che vedere con la nobile arte3 di difendere un uomo, le sue libertà e i suoi diritti4.
È un difensore degli indifesi, che recupera la dimensione umanistica del diritto, l’avvocato al quale piace pensare, una figura ideale che non esiste, forse, ma che potrebbe divenire reale, laddove la categoria tutta si profondesse in uno sforzo per uscire dalle sabbie mobili in cui si è trascinata in lunghi anni di omologazione al potere politicoeconomico.
Il Satyagraha gandhiano, quale metodica?per la soluzione?delle controversie
L’ esempio gandhiano viene utilizzato come metafora e quale occasione per entrare nel dibattito sulla risoluzione degli annosi mali della Avvocatura.
Si è scelto, così, di utilizzare un modello umano fulgido e concreto per dimostrare quanto l’etica, nella definizione di scienza libera e aperta che ne accogliamo, non si limiti a elaborare astrazioni teoriche, vuote ipotesi che quasi mai rispecchiano la realtà quotidiana, destinate a risolversi in vano chiacchiericcio e buoni propositi, ma possa
svolgere un ruolo fondamentale per la soluzione di problemi grandi e piccoli di un’intera categoria professionale, contribuendo, al contempo, al miglioramento del servizio di giustizia per tutti i cittadini. Gandhi ha sperimentato con successo una metodica per la risoluzione dei conflitti5, detta in sanscrito Satyagraha (“forza della verità”), che riesce a coniugare etica e diritto e che ha molto da insegnare agli odierni legislatori e giurisperiti.
Semplificando, è una forma di arbitrato irreale, basato sull’idea di valutare sempre ogni controversia dal punto di vista di tutte le parti in lotta, attuando metodiche persuasive non violente, bensì mirate al raggiungimento di un principio etico condiviso da tutti i contendenti, in grado di consentirne l’accordo con reciproca soddisfazione.
Le parti, per tramite dei loro avvocati, si danno le regole della controversia, fissando inizialmente dei principi generali inderogabili su cui concordano, poi man mano sviluppando una normazione per principi più specifici. In questo modo i “contendenti” non inaspriscono il conflitto attraverso uno scontro diretto sulle rispettive posizioni ma spostano sul piano della dialettica il confronto sui relativi valori morali. Sicché prevalgono gli interessi eticamente forti, quali quelli della prole, minore e non, l’interesse alla conservazione del patrimonio pubblico e privato, la tutela del contraente debole, etc. Allo stesso modo, il Mahatma valutava le leggi per quanto ponderate rispetto agli interessi delle diverse classi sociali e fondate su principi di equità sostanziale, contrastandole, se ingiuste, a mezzo di una disobbedienza non violenta e costruttiva.
La prospettiva gandhiana è perfettamente in linea con gli scopi istituzionali dell’ Avvocatura.?L’ avvocato ha il fondamentale compito di costituire l’avamposto tecnico della difesa dei diritti, imprescindibile per l’attuazione dei fini della giustizia.
Ha, quindi, il dovere di interrogarsi continuamente sulla legittimità etica delle leggi e della propria condotta, valutando l’opportunità, la convenienza e l’adeguatezza di una lite rispetto agli obiettivi concreti che le parti si prefiggono di raggiungere, separandoli dalle mere astiosità o incomprensioni caratteriali.
È suo compito, altresì, prefigurare una transazione, negoziale o postgiudiziale che sia idonea a fissare un nuovo equilibrio, basato su principi nuovi, prima che su nuove regole, di tipo autenticamente “novativo”.
I “litiganti”, secondo Gandhi, devono immaginare soluzioni in grado di includere gli aspetti migliori delle due parti, incorporando la soluzione nella lotta stessa, dando vita ad un “gioco a somma maggiore di zero”, in cui entrambi i contendenti vincono.
Per farlo, per infilare le mani nel tessuto melmoso delle opposte ragioni e dei reciproci torti dispiegati nella contesa, l’ avvocato deve assumere una prospettiva bipolare, in grado di osservare la realtà con occhi equanimi, come un “giudice ante iudicium”, deve risolvere dilemmi etici, discernendo il possibile dall’ impossibile, il giusto dall’ ingiusto.
In quest’ottica, escogitando per il cliente le opportune soluzioni alle questioni etiche e proponendole sotto forme di risposta giuridica alle istanze della controparte, l’avvocato rappresenta allo stesso tempo un deterrente all’insorgenza dei conflitti e un potente antidoto alla loro permanenza ma, soprattutto, contribuisce a ridisegnare il sistema dei valori sociali, all’interno di uno schema dialettico di tipo hegeliano, finalizzato alla ricerca di una sintesi tra le tesi e le antitesi delle opposte fazioni. Naturalmente, per comprendere il fondamento e la portata di principi, valori, mezzi e fini di giustizia, necessita degli strumenti scientifici essenziali propri dell’etica.
La via etica?per l’Avvocatura?In molti campi del vivere sociale, l’etica è tornata protagonista6. Essa si definisce come la “scienza del fine cui la condotta degli uomini dev’ essere indirizzata e dei mezzi per raggiungere tale fine”; oppure, “scienza del movente dell’azione umana”7.?Non solo in ambito economico, politico, religioso, scientifico ma anche nella sfera del diritto e delle professioni legali la discussione sui principi dell’azione e sulle regole comportamentali è attualissima8, considerato che l’idea di una giustizia terrena, una delle grandi utopie etiche della storia, è allo stesso tempo il tema classico della tradizione filosofico-giuridica.?Si impone una rinnovata attenzione per l’assiologia e la comportamentologia professionale, con particolare riferimento all’etica forense e al substrato filosofico sotteso alle norme deontologiche.?La deontologia forense è una forma di etica applicata al mondo giuridico, come la business ethics o la bioetica lo sono rispettivamente al mondo degli affari e ai temi riguardanti gli esseri viventi. Essa è sì una disciplina giuridica, come asserisce il Danovi9 – e ha recentemente confermato la Su-
prema Corte10 –, ma resta pur sempre fondata su basi etico-filosofiche, dalle quali non si può e non si dovrebbe mai prescindere. Il Codice Deontologico, più volte modificato per adeguarlo ai mutamenti in atto, resta il baluardo eretto a presidiare i Minima Moralia dell’ Avvocatura.
Gli organismi forensi sono pienamente consapevoli della necessità di “una via etica per l’Avvocatura”, capace di ridare un volto equo ed umano agli avvocati, oltre che una dignità ed una statura professionale all’altezza dei compiti affidati; sono conferma di ciò gli aggiornamenti apportati al codice di autodisciplina, la scrupolosa sorveglianza degli Ordini, l’attenzione per il tirocinio e per la formazione continua, il tentativo di riforma delle modalità di accesso alla professione e degli esami di abilitazione, gli studi dottrinari e le pubblicazioni che si susseguono in materia. Tuttavia, qualunque principio morale finalizzato a tutelare la “dignità e il decoro professionale”, inserito o modificato nel codice deontologico, rischia di restare disatteso, eluso, oppure malvolentieri rispettato per il solo timore della sanzione, se si percepisce calato dall’alto e non viene discusso, partecipato e condiviso ai vari livelli della carriera professionale. Questo processo di “metabolizzazione etica” presuppone una conoscenza di massima degli assetti epistemologici fondamentali della speculazione filosofica in tutti gli iscritti agli ordini forensi. Purtroppo, nella grande maggioranza delle facoltà universitarie italiane di Giurisprudenza non sono istituiti insegnamenti di etica e deontologia, restando quello di filosofia del diritto l’unico corso di lezioni riconducibile al tema; né
esiste alcuna scuola forense che dedichi spazio alle discipline etico-filosofiche applicate al diritto. Eppure, sussiste una prova orale dedicata alla deontologia forense nell’ ambito degli esami di abilitazione all’ esercizio della professione, ed ora anche uno specifico obbligo formativo11, anche se non è chiaro da chi e come dovrebbero essere impartiti i rudimenti di quest’antica scienza che è l’etica, seppur precipitati tecnicamente negli scarni articoli del codice deontologico.
Sembrerebbe, così, che il momento topico della formazione etica dell’avvocato sia quello del tirocinio presso lo studio di un collega, il quale dovrebbe farsi carico di fornire spiegazioni ed esempi pragmatici a coloro che, prima che praticanti, sono da considerarsi allievi di una filosofia professionale, che è poi l’elemento caratterizzante di uno studio legale che si rispetti. Ciò avviene sempre e, soprattutto, chi forma il formatore?
La verità, per quanto scomoda da ammettere, è che per molti la deontologia forense rimane una sorta di precettistica professionale, priva di ogni collegamento con i criteri che presiedono alle scelte morali ad essa sottostanti.
È, dunque, necessario rivedere la Nostra preparazione dando maggior spazio alle questioni etiche, onde poter enucleare principi e fissare valori e obiettivi chiari, univoci, concludenti e condivisibili da tutti i Colleghi.

Note
1 M. K. GANDHI, The story of my experiment with truth, Ahmedabad, 1927, in Autobiografia, Milano, vol. I, pag. 306.?2 In G. Borsa, Gandhi, Milano 1983, pagg. 15-16.
3 Sull’argomento vedi, G. ALPA, La nobiltà della professione forense, Cacucci, Bari, 2004.
4 v. E. VARRICCHIO, L’avvocato senza qualità, in Realtà Forense, febbraio 2006, Bari, pag. 1.?5 Vedi M. JUERGENSMEYER, Ghandhi’s Way. A Handbook of Conflict Resolution, Berkeley-Los Angeles-London, 1984.
6 Vedi E. VARRICCHIO, Il ritorno di Astrea. Excursus archeomitologico sui rapporti tra etica e diritto, in Rassegna Forense, Riv. Trim. del Consiglio Naz. Forense, n. 2, ed Giuffré, Milano, 2004.
7 N. ABBAGNANO, Dizionario di filosofia, Utet, Torino, 1998.?La parola tà ethikà in greco antico è un aggettivo neutro plurale che deriva dal sostantivo èthos, col significato di modi di essere caratteristici del “luogo ove si dimora” e, traslatamente, di “tradizioni e costumi in uso in un determinato luogo”. In questo senso, definisce una qualità tipica di una categoria di comportamenti umani, ravvisata ex post sulla base dell’ esperienza. Codesta caratteristica prettamente fenomenica è accentuata nel vocabolo latino mos da cui si origina la parola “morale”: esso significava “volontà”, divenuta norma della condotta per effetto dell’ antico uso da parte dei maiores. La morale è
quella parte dell’etica che si occupa della teoria dei valori e della loro graduazione. I due termini di etica e morale vengono sovente adoperati sinonimicamente, il primo con una sfumatura di laicismo rispetto al secondo, talora riferito all’ ambito della pragmatica religiosa.
8 “L’ etica professionale dell’ avvocato può considerarsi estranea a questi temi? Certamente no. Il ruolo svolto dall’ avvocato e le scelte che esso compie nella difesa di interessi privati incidono, infatti, su interessi pubblici della generalità dei cittadini, quali il funzionamento della giurisdizione e la formazione del diritto vivente nella elaborazione della giurisprudenza, e caratterizzano una funzione di mediazione sociale che è utile e giusta se fondata su diritti e libertà che costituiscono il patrimonio riconosciuto di tutti gli uomini. È significativo che il Consiglio degli Ordini Forensi e delle law societies dell’ Unione Europea (C.C.B.E.) abbia di recente raccomandato agli avvocati consulenti delle imprese comportamenti diretti ad orientare scelte conformi a principi di responsabilità sociale in tema di diritti umani e sviluppo sostenibile.
Si schiudono così nuove frontiere anche nella deontologia professionale con le quali dovranno misurarsi gli studi in corso per la formazione di un nuovo Codice Deontologico Europeo. L’ avvocatura italiana dovrà dare un suo contributo a tale progetto ed auspichiamo che sia utile a questo fine la riflessione tra studiosi, ordini professionali e avvocati che la Commissione per le attività culturali del CNF ha promosso in questo incontro” (Dall’invito del Convegno di Roma 13 maggio 2005, Etica degli affari. Etica della professione, Consiglio Nazionale Forense).
9 R. DANOVI, Corso di ordinamento forense e deontologia, Ed. Giuffrè, Milano, 2003. 10 Cass. S.S.U.U. 20.12.2007, n. 26810, riportata in La Previdenza Forense n. 2/2008, pagg. 139 e ss.
Vedi anche articolo di R. Danovi, Sulla giuridicità delle regole deontologiche, in La Previdenza Forense n. 2/2008, pagg. 116 e ss.
11 Regolamento per la formazione continua, delibera del 13 luglio 2007 e successive del Consiglio Nazionale Forense, in www.consiglionazionale forense.it e in La previdenza Forense n. 2/2007, pag. 120.

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Di Tiziano Solignani

L'uomo che sussurrava ai cavilli... Cassazionista, iscritto all'ordine di Modena dal 1997. Mediatore familiare. Counselor. Autore, tra l'altro, di «Guida alla separazione e al divorzio», «Come dirsi addio», «9 storie mai raccontate», «Io non avrò mai paura di te». Se volete migliorare le vostre vite, seguitelo su facebook, twitter e nei suoi gruppi. Se volete acquistare un'ora (o più) della sua attenzione sui vostri problemi, potete farlo da qui.

6 risposte su “anche Gandhi era un avvocato”

A mio giudizio Gandhi può essere un simbolo di una

lotta contro una legge ingiusta o, in questo caso, di

una legge (la 54 sull'affidamento condiviso) giusta ma

applicata male.

La Satyagraha di Gandhi in questo può (o potrebbe)

essere usata da tutti i padri (in genere sono loro) a

cui sono negati i figli; una disobbedienza civile,

ovviamente non violenta, ma un principio fermo di non

cooperazione ad un sistema che, quotidianamente, nelle

aule dei tribunali, sancisce la morte legale di un

genitore.

Naturalmente non mi riferisco ai casi (numerosi) di

padri "uccel di bosco", che "morto un papa se ne fa un

altro" e convolano subito (e magari sono già convoluti)

a nuove convivenze, nuovi figli di secondo o terzo

letto, dimenticandosi di avere una moglie e dei figli

di primo letto da mantenere.

No, mi riferisco ai (numerosi anch'essi) padri che

vorrebbero un rapporto continuativo con i figli del

loro "primo" (e magari unico) letto. Che pagano

regolarmente, ma che a parte fornire di euro la ex non

hanno un rapporto equilibrato con i figli.

A tutti questi io suggerirei di unirsi per fare una

protesta non violenta di stile Gandhiano, e vorrei che

anche gli avvocati (cosa molto ipotetica!!) esortassero

i loro clienti [ovviamente non tutti i loro clienti, ma

solo quelli "meritevoli", ma qui andiamo troppo

lontano], non per spirito semplice di rivalsa (per far

andare avanti una causa con qualche udienza in più in

modo da guadagnare), ma per "amore di Giustizia" (in

senso appunto quasi metafisico) e suggerire loro di

continuare la lotta.

Io avrei dei suggerimenti da dare sui modi (sempre non

violenti ma fermi) di condurre avanti una lotta di

questo genere.

Ovviamente, però, e qui entriamo in un campo forse

"minato", questi metodi, per quanto "non violenti",

sono *illegali*.

La protesta di Gandhi è *illegale*, lui lo sa bene, da

quando comincia in Sud Africa a bruciare i pass degli

Indiani o a rifiutare di dare le proprie impronte

digitali.

La forza di Gandhi sta proprio in questo,

nell'infrangere una legge sapendo di essere nel giusto

e, in questa infrazione, però, far riconoscere la

"forza della verità", la Satyagraha, appunto.

Ovviamente nessun avvocato (?) suggerirebbe mai ad un

proprio Cliente, anche meritevole, di infrangere la

legge, anche per una questione di Giustizia.

Su un blog, no di certo 🙂

si`, dal "vostro" punto di vista e` uno sciopero bianco, come avvocati.

Come "padri" invece, e` uno sciopero vero e proprio. Ossia collaboriamo fino alla prima sentenza. Dalla prima udienza,

in cui, quasi sempre,

i bimbi sono "sequestrati" dalla madre ed il Giudice

conferma e legalizza il sequestro incomincia la non

collaborazione futura.

Del resto l'art 30 della costituzione parla chiaro:

"È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed

educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio."

non si puo` dare il diritto di istruire ed educare ad una

parte ed all'altra solo quello di mantenere.

E qualcuno mi deve spiegare come esercito il mio

dovere E dirtto di "istruire ed educare" con 2 fine

settimana al mese, se va bene.

per il "mantenere" basta l'IBAN della ex, lo sappiamo.

Questa e` la ragione della protesta, perche' c'e`

una Legge superiore (la Costituzione, ed anche il buon

senso che dice che un bimbo ha due genitori e non uno)

che viene infranta.

Spero di essermi spiegato

L'articolo è illuminante sul concetto ontoassiologico, eziologico della mediazione; la conciliazione forse è il nostro primo strumento, se noi avvocati non partiamo da questi presupposti non ci sarà vera cultura della pace, della non violenza…che dire…certo la norma introdotta è ben altra cosa da questi "lumi", bravo Enzo Varricchio!

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