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Ripartire dal cuore: anche nella pratica legale.

Oggi parliamo di sofferenza, ascolto, compassione e fede.

Cosa c’entrano con la pratica legale? In realtà, sono temi fondamentali per chiunque svolga una delle professioni di cura, nel cui novero rientra certamente anche quella forense.

Nel mio lavoro di avvocato, e anche in quello, ulteriore, di mediatore familiare, la sofferenza mi scorre davvero davanti tutti i giorni, come un film, una pellicola che non finisce mai di essermi proiettata in faccia.

Anche pochi giorni fa, in un solo giorno di lavoro, ho fatto quattro appuntamenti, persone sempre più devastate negli affetti, nella vita, stremate, che non ne possono più da mesi, anni, ed io che le devo ascoltare fino in fondo, mettermi due orecchie da elefante, perché…

Perché oggi nessuno ha più amici, familiari, coniugi che lo ascoltano davvero, ma soprattutto perché è solo con l’ascolto prestato mantenendo il silenzio, senza dire nulla, senza interrompere, che posso iniziare a farle guarire, o comunque dare loro un principio di qualcosa, un inizio.

Non dico niente, mi limito ad ascoltare davvero finché loro non vedono una scheggia della loro stessa sofferenza brillare nei miei occhi, allora finalmente succede qualcosa e si può iniziare a pensare a quel che si può fare.

Generalmente, si crede che un avvocato debba essere un bravo oratore.

In realtà è vero in primo luogo tutto il contrario: un bravo avvocato deve essere, prima di qualsiasi altra cosa, un grande «ascoltatore».

L’avvocato, più che le famose palle, deve avere, insomma, due grandi orecchie.

È esattamente così che sono diventato a poco a poco, da generico credente qual ero, un cristiano sempre più convinto, anche se mai bigotto.

Se sento qualcuno smadonnare, mi metto magari ancora a ridere, perché in fondo aveva ragione Guareschi: in Emilia non si bestemmia affatto per ateismo, ma per far dispetto a Dio.

Ognuno ha i suoi difetti: chi ruba, rapina, violenta, scoccia, importuna, non vota, abbandona i cani; io sono molto credente, in un mondo che lo considera un errore sconveniente e per nulla simpatico, ma spero che mi vorrete accettare a corpo, con anche i pochi pregi che ho.

Si diventa ferventi, o comunque più ferventi di prima, nella fede toccando, tutti i santi giorni e più volte al giorno, lo sfacelo della nostra civiltà e il disagio profondo, lo smarrimento, l’assenza di lenitivi anche blandi al dolore in cui vivono quasi tutte le persone oggigiorno, e facendo entrare questi problemi in te.

Molte volte vorrei pregare per queste persone, e per lo sfacelo del mondo di cui sono segni, e ogni tanto lo faccio col pensiero, esattamente come si pone la mano sul capo di un morto per recitare un’Ave Maria, una cosa forse anche considerabile da molti oggigiorno come inutile ma che, per qualche misteriosa ragione, è l’unica che ti può dare conforto in quei momenti, in cui ti trovi di fronte all’ineluttabile, allo sfacelo profondo, l’unica che, tutto al contrario, senti che valga la pena di fare.

È così che, man mano, ho sentito sempre più di appartenere, sia pure nella mia miseria e infinita piccolezza, a Dio, in un mondo ormai pressoché completamente dominato dal maligno (1Gv 5,19), maligno di cui le persone sono povere vittime, spesso innocenti, colpevoli solo di aver creduto ad una delle sue solite ma riverniciate bugie, riportate dappertutto e ripetute ossessivamente – quella con cui mi trovo più spesso ad avere a che fare io è «Cambia coniuge! Sarà meglio non tanto per te, quanto e soprattutto per i tuoi figli. Enjoy!».

Quello che penso quotidianamente, al più tardi alla sera, dopo aver visto tutto il giorno i frutti marci della modernità, è che non sia, non possa proprio, essere questo il modo di vivere, perché questo modo di vivere non può che condurci all’infelicità, la nostra, ma soprattutto ancora quella dei nostri figli.

In un noto saggio di Risè si riporta una constatazione che può sembrare banale, ma che tale non è, secondo cui noi Italiani abbiamo scoperto, tra gli anni 50 e 60, che la ricchezza non era affatto meno problematica da gestire della povertà.

È verissimo.

Oggi, nelle nostre vite, lavoriamo, cioè dedichiamo il nostro tempo e la nostra attenzione – che sono acqua e fertilizzante – al mondo della materia, delle cose materiali, a quello dell’intelligenza della mente, che è servile, tramite gli studi, al benessere del corpo, tramite lo sport, ma chi è rimasto a lavorare sul proprio cuore?

Non so se la fede possa essere una risposta per tutti, magari è più probabile che ognuno debba trovare la propria strada, ma di sicuro non si può continuare a vivere così, come bestie, come poveri idioti che, partiti con la convinzione di seguire il loro cuore, in realtà lo stanno completamente tradendo, stanno tradendo il vero cuore dell’uomo, e poi non lo trovano, anzi lo perdono completamente, insieme a loro stessi.

Quindi la tua strada cercatela, lavora su te stesso, sul tuo cuore e la tua compassione per ogni essere vivente, a partire da te stesso, e, soprattutto, stai attento ai falsi idoli, che sono oggi numerosissimi e dappertutto.

Noi non siamo esseri tendenti naturalmente al bene, se seguiamo solo i nostri istinti otteniamo soddisfazioni momentanee, che però a lungo termine ci conducono alla rovina. Le scritture dicono chiaramente che non è il pane che nutre l’anima dell’uomo: si tratta di una verità universale, valida per tutti gli uomini, come una legge di natura. La nostra anima non vive di soddisfazioni materiali, beni, istinti.

Abbiamo, tutto al contrario, bisogno di significato, e quasi sempre il significato lo otteniamo solo (lo dico ancora una volta da cattolico, voi traducetelo in quel che preferite) con una croce da portare, perché è solo la sofferenza, oggi generalmente rifuggita come una cosa deprecabile e opportunamente evitabile con una pastiglia e un ciclo di sedute da uno psicologo – consigliate anche a chi avrebbe solo bisogno di un abbraccio – a prescinderne dallo scopo, che comprova quanto crediamo davvero, in che cosa e soprattutto in chi.

E la felicità, nel cuore dell’uomo, si ottiene solo facendo la cosa giusta, non quello che ci andrebbe al momento.

Chiediamoci sempre cosa stiamo facendo e se davvero è la cosa giusta.

C’è una coscienza dentro di noi, la devastazione derivante dal fatto che la maggior parte delle persone oggigiorno la spegne o semplicemente non l’ascolta credo sia sotto gli occhi di tutti.

Rimettiamo il cuore al centro di tutto.

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Di Tiziano Solignani

L'uomo che sussurrava ai cavilli... Cassazionista, iscritto all'ordine di Modena dal 1997. Mediatore familiare. Counselor. Autore, tra l'altro, di «Guida alla separazione e al divorzio», «Come dirsi addio», «9 storie mai raccontate», «Io non avrò mai paura di te». Se volete migliorare le vostre vite, seguitelo su facebook, twitter e nei suoi gruppi. Se volete acquistare un'ora (o più) della sua attenzione sui vostri problemi, potete farlo da qui.

4 risposte su “Ripartire dal cuore: anche nella pratica legale.”

Collega concordo sul fatto che un buon avvocato debba saper ascoltare e non soltanto essere un bravo oratore.
Ascoltare veramente perché tanti arrivano distrutti nell’animo e vogliono prima di ogni altra cosa sentire parole di conforto.

Un buon traghettatore , avv Solignani, quasi psicoterapeuta perché quello che scrive è tutto vero. Nessuno ti ascolta per costruire ed uscire dal lutto di una separazione.

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