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Riabilitazione penale: quali sono i termini per poterla proporre.

Nel 1992 ho avuto un decreto penale di condanna per L. 500.000 e nel 2009 un’altro per € 570,00.
In entrambi i casi ho avuto il beneficio della non menzione e nel secondo caso non è stata pronunciata alcuna recidiva.
Alcuni legali sostengono che debba attendere 8 anni dall’ultimo per richiedere la riabilitazione. Tuttavia in rete ho trovato informazioni da Tribunali di Sorveglianza che parlano di 8 anni solo nel caso di recidiva aggravata … e di pronuncia.

Per proporre la domanda di riabilitazione occorre che sia decorso un lasso di tempo di almeno 3 anni da quando la pena inflitta è stata eseguita. Ciò significa che, come in questo caso, se la condanna consiste nel pagamento di una somma di denaro, il termine decorre dall’avvenuto pagamento.

Il periodo si estende a 8 anni solo in caso di dichiarazione, durante il giudizio, di recidiva aggravata.

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Testamento digitale: è ora di affrontare il problema. 

Manoscritti e chiavi di cassette di sicurezza, nell’era digitale coesistono con investimenti gestiti online, blog e rapporti intessuti sui social network.

I diritti successori relativi all’identità digitale sono, attualmente, sorretti da un quadro giuridico di natura transnazionale, incerto e poco chiaro.

Sin dal 2007 i giuristi italiani vagliano l’opportunità di inserire il cosiddetto “patrimonio digitale” nell’asse ereditario del defunto, tuttavia il percorso da intraprendere non è esente da ostacoli.

In primo luogo, risulta problematico l’accertamento sul web della morte dell’internauta; i grandi colossi della Rete gestiscono tale questione facendo sottoscrivere condizioni generali di contratto che prevedono una presunzione di morte digitale (la quale non sempre coincide con il decesso reale della persona).

In secondo luogo, quando un soggetto scarica un brano musicale o un video dal jukebox di Apple, non diviene proprietario del contenuto, ma sfrutta semplicemente una licenza d’uso personale che non può essere ereditata.

Dunque, non esiste la garanzia che i beni digitali del de cuius arrivino ai destinatari dell’eredità.

Ad ogni modo, continuano i lavori verso la definizione di un sistema semplice, sicuro e certo, che consenta agli eredi di avere accesso agli account attivati in vita dal defunto, il tutto per un periodo di tempo limitato, ma sufficiente affinché i dati possano essere consultati, scaricati o cancellati.

La proposta è stata presentata dall’Associazione Italiana giovani notai (Asign) e prevede, inoltre, che i fornitori dei servizi conoscano con un certo tempismo l’avvenuto decesso di un loro iscritto, al fine di limitare la funzionalità dell’account disabilitando così, eventualmente, alcune funzioni.

In quest’ottica, i notai si propongono come soggetti terzi nei confronti sia delle aziende che dei cittadini, con il compito di verificare la legalità della procedura e garantire da un lato la privacy, dall’altro la riduzione delle contestazioni.

Resta comunque un problema aperto su cui c’è molto da lavorare. Tutelatevi, cercando di gestire il passaggio dei vostri asset digitali ai vostri familiari. 

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Malpractice medica: i termini di prescrizione e per la querela.

La sentenza 24 febbraio – 29 marzo 2016, n. 1270, della Suprema Corte, sez. IV penale, mette in luce le caratteristiche principali del reato di lesioni colpose provocate da responsabilità medica, ovverosia: il momento consumativo, la posizione di garanzia, il nesso causale, l’elemento psicologico, il dies a quo del termine prescrittivo e di proposizione della querela.

In via preliminare, la Cassazione, rileva che il reato di lesioni personali colpose, previsto all’art. 590 cod. pen., è un reato istantaneo che si consuma al momento dell’insorgenza della malattia prodotta dalle lesioni. Di conseguenza la durata e l’inguaribilità della malattia sono irrilevanti ai fini della individuazione del momento consumativo.

Tuttavia, nel caso in cui la condotta colposa che causa la malattia stessa persista successivamente l’insorgenza di questa, e ne cagioni un successivo aggravamento, il reato di lesioni colpose si consuma nel momento in cui si verifica l’ulteriore debilitazione.

Il soggetto che commette il reato è titolare di una posizione di garanzia, essendo in possesso della qualifica di medico. Si definisce garante, infatti, il soggetto chiamato alla gestione di uno specifico rischio e che, pertanto, è responsabile sotto il profilo eziologico nel caso in cui tenga condotte omissive in violazione agli obblighi connessi al suo ruolo. Si è altresì affermato che il principio di affidamento non può essere invocato da chi, in virtù della sua particolare posizione, ha l’obbligo di controllare e valutare l’operato altrui, se del caso intervenendo per porre rimedio agli errori commessi.

Il nesso causale che si instaura tra l’azione e il danno, viene ravvisato ogni qualvolta si accerti che – ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento – il danno non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.

Il medico risponde del danno a titolo di colpa, ovverosia per la violazione delle norme cautelari di condotta (specifiche e generiche) all’interno di un contesto in cui si poteva pienamente esigere un comportamento alternativo e corretto rispetto a quello tenuto.

Nel caso concreto sottoposto all’attenzione della Corte, nonostante la sussistenza di tutti gli elementi del reato sopra esposti, si è resa necessaria la dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione, giacché il termine prescrittivo inizia a decorrere dal momento di insorgenza della malattia, anche se non ancora stabilizzata in termini di irreversibilità o di impedimento permanente.

Nella sentenza si precisa che il dies a quo del termine prescrittivo non coincide con la decorrenza del termine per poter proporre querela. A parere della giurisprudenza penale, infatti, quest’ultimo inizia a decorrere, non già dal momento in cui la persona offesa ha avuto consapevolezza della patologia contratta, bensì da quello, eventualmente successivo, in cui la stessa è venuta a conoscenza della possibilità che sulla menzionata patologia abbiano influito errori diagnostici o terapeutici dei sanitari che l’hanno curata.

In conclusione, con il summenzionato provvedimento, la Corte di Cassazione ha inteso evidenziare gli elementi costitutivi del reato di lesioni colpose provocate da responsabilità medica ed il singolare contrasto relativo alla decorrenza del termine prescrittivo e del termine per la proposizione della querela, conseguenza dell’interpretazione del diritto in sede di applicazione.

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Facebook: finalmente costretto a dare i dati degli utenti.

Una novità molto importante per tutti coloro che rimangono vittima di profili e pagine gestite da persone che si nascondono dietro il loro anonimato. 

Il Garante della Protezione dei dati personali – con il provvedimento dell’11 febbraio 2016, n. 56 – ha infatti per la prima volta ordinato a Facebook Ireland Ltd di comunicare, in forma intelligibile, tutti i dati relativi agli account intestati all’utente interessato. Tale provvedimento rappresenta una svolta sul tema del trattamento dei dati personali sui social network, da sempre fonte di controversie.

La vicenda trae origine da un ricorso presentato all’Autorità Garante da un noto professionista, titolare di un profilo facebook, che lamentava l’esistenza di un falso account intestato alla propria persona, per mezzo del quale venivano inviati fotomontaggi e video artefatti gravemente lesivi del proprio onore e decoro.

L’interessato precisava di aver domandato a Facebook Ireland Ltd la rimozione di quanto sopra, con contestuale richiesta di accesso ai dati riguardanti il medesimo. Tuttavia, in risposta alle proprie istanze, il ricorrente veniva informato da facebook unicamente della possibilità di accedere ai dati personali usando il Tool Download e consultando il centro assistenza per maggiori informazioni.

Il Garante della Privacy, in relazione al caso di specie, ha preliminarmente accertato il diritto applicabile, osservando quanto segue.

Il servizio di trattamento dati viene svolto in Irlanda da Facebook Ireland Ltd. Con lo scopo di rendere economicamente redditizio tale servizio, sul territorio italiano opera un’organizzazione stabile denominata Facebook Italy s.r.l., che si occupa principalmente di vendita di spazi pubblicitari on-line e di marketing.

Questa connessione inestricabile tra le attività delle due organizzazioni, consente l’applicazione del diritto italiano, anche con riferimento al trattamento dei dati personali.

Ai sensi della normativa nazionale, il ricorrente è legittimato ad accedere a tutti i dati che lo riguardano, compresi quelli inseriti e condivisi nel social network Facebook dal falso account, trattandosi di informazioni, fotografie e contenuti che si riferiscono alla sua persona.

Di conseguenza, alla luce di tutto quanto sopra esposto, il Garante ha ordinato al social network di comunicare, in modo chiaro, al ricorrente tutti i dati che lo riguardano relativi ai profili Facebook aperti a suo nome; gli estremi identificativi del titolare e del responsabile, nonché i soggetti o le categorie di soggetti cui i dati sono stati comunicati o che possono venirne a conoscenza, entro e non oltre trenta giorni.

Inoltre è stato intimato alla società di non effettuare alcun ulteriore trattamento dei dati riferiti all’interessato, inseriti dal falso account, con conservazione di quelli finora trattati ai fini della eventuale acquisizione da parte dell’autorità giudiziaria.

In conclusione, da oggi, nel caso si ravvisi la presenza di un falso account sul social network derivante dal furto della propria identità, è possibile ottenere tutti i dati ad esso correlati rivolgendosi direttamente a Facebook Ireland Ltd, ai sensi della normativa italiana sulla privacy.

Invece, nel caso in cui gli illeciti siano perpetrati mediante un falso account intestato ad una persona inesistente o sconosciuta, l’ingegneria sociale rappresenta ancora una valida opzione al fine di identificare il colpevole.

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Tenuità del fatto e reato permanente: profili di compatibilità.

La Corte di Cassazione penale, sez. III, con la sentenza 50215/2015, ha chiarito che la configurazione di un reato permanente non esclude l’applicazione dell’istituto della particolare tenuità del fatto.

L’elemento chiave, al fine di valutare la compatibilità tra il reato permanente e la particolare tenuità, è rappresentato dalla permanenza, ovverosia dalla continuità della condotta antigiuridica.

Nel caso in cui la permanenza sia ancora in atto, la causa di non punibilità summenzionata risulta inapplicabile, in quanto un’offesa che si protrae nel tempo non può essere giudicata come tenue, ai sensi dell’ art. 131-bis e 133, comma 1, c.p.

Nell’ipotesi in cui la permanenza sia, invece, cessata – a condizioni esatte – può esserne consentita l’applicazione, dal momento che il reato permanente non è riconducibile all’alveo del comportamento abituale ostativo al riconoscimento del beneficio della particolare tenuità del fatto.

Occorre precisare che la sussistenza della tenuità dell’offesa sarà tanto più difficilmente rilevabile quando più tardi sarà cessata la permanenza.

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte, ha considerato come cessato il reato di abuso edilizio, in ragione dell’avvenuta eliminazione dell’opera abusiva e del ripristino dei luoghi; pertanto ha annullato la sentenza con rinvio al giudice di appello per la valutazione sull’applicabilità della causa di non punibilità per tenuità del fatto.

La Cassazione, con lo stesso provvedimento, ha risolto, inoltre, il problema del concorso tra la sopraggiunta prescrizione del reato e la presenza della causa di non punibilità.

La declaratoria di estinzione del reato per prescrizione prevale sull’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, per due ordini di ragioni: in primo luogo risultano differenti le conseguenze che scaturiscono dai due istituti; in secondo luogo, mentre il primo di essi estingue il reato, il secondo lascia inalterato l’illecito penale nella sua materialità storica e giuridica.

Nondimeno, se la prescrizione non si è ancora verificata e la Corte annulla la sentenza con rinvio al fine di verificare l’applicabilità della causa di non punibilità, allora nel giudizio di rinvio non può essere dichiarato prescritto il reato quando la causa estintiva sia sopravvenuta alla sentenza di annullamento parziale.

 

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L’ingiuria non è più reato, ma resta illecita: tutte le novità.

L’abrogazione della fattispecie penale.

Il D.lgs 15 gennaio 2016, n. 7 – entrato in vigore in data 6 febbraio 2016 –  ha sancito l’abrogazione della fattispecie penale di cui all’ art. 594 c.p., degradando il reato di ingiuria a mero illecito civile. Pertanto, oggi, colui che offende l’onore e il decoro di una persona presente (ovvero mediante comunicazione telegrafica, telefonica, telematica o con scritti, disegni, diretti alla persona offesa) non avrà conseguenze penali, ma potrà essere condannato, al termine di un procedimento civile, al risarcimento del danno a favore della vittima ed al pagamento di una sanzione pecuniaria devoluta alla Cassa delle Ammende.

La sanzione pecuniaria.

La sanzione pecuniaria viene applicata d’ufficio dal giudice nel caso in cui, al termine di un procedimento svoltosi nelle forme ordinarie stabilite dal codice di procedura civile, venga accolta la domanda di risarcimento proposta dalla vittima.

L’importo della sanzione pecuniaria varia da un minimo di euro 100 ad un massimo di 8.000, sulla base dei seguenti criteri:

  1. gravità della violazione;
  2. reiterazione dell’illecito;
  3. arricchimento del soggetto responsabile;
  4. opera svolta dall’agente per l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze dell’illecito;
  5. personalità dell’agente:
  6. condizioni economiche dell’agente;

Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato oppure è commessa in presenza di più persone la sanzione va da euro 200 fino a 12.000.

Nel caso in cui venga dimostrata la reciprocità delle offese, il giudice può non applicare la sanzione pecuniaria nei confronti di uno o di entrambi gli offensori, inoltre non può essere sanzionato il trasgressore che agisce nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui appena accaduto.

La sanzione pecuniaria non può essere applicata, infine, quando l’atto introduttivo del giudizio è stato notificato nelle forme previste dal codice per le persone irreperibili, ad eccezione del caso in cui la controparte si sia costituita in giudizio o risulti con certezza che abbia avuto comunque conoscenza del processo.

Quando più persone concorrono nell’ illecito, ciascuna di esse soggiace alla sanzione per esso stabilita.

In relazione alle modalità di pagamento, il giudice può disporre che esso avvenga mediante rate mensili (da due a otto), ciascuna non inferiore ad euro cinquanta. Decorso inutilmente il termine fissato per il pagamento anche di una sola rata, l’ammontare residuo della  sanzione  è  dovuto  in un’unica soluzione. Il condannato può estinguere la sanzione civile pecuniaria in ogni momento, mediante un unico pagamento. La sanzione pecuniaria civile non ammette alcuna forma di copertura assicurativa  e  non  si trasmette agli eredi (a differenza dell’obbligazione relativa al pagamento del risarcimento del danno).

La reiterazione dell’illecito.

Ai sensi dell’art. 6 del provvedimento citato, si ha reiterazione nel  caso  in  cui  l’illecito  sottoposto  a sanzione pecuniaria civile sia  compiuto  entro  quattro  anni  dalla commissione, da parte dello stesso soggetto, di  un’altra  violazione sottoposta a sanzione pecuniaria civile, che sia della stessa  indole e che sia stata accertata con provvedimento esecutivo. Si considerano della stessa indole le violazioni della medesima disposizione e  quelle  di  disposizioni diverse che, per la natura dei fatti che le costituiscono o per le modalità della condotta, presentano una  sostanziale  omogeneità  o caratteri fondamentali comuni.

Portata retroattiva.

Il D.lgs 15 gennaio 2016, n. 7, in virtù del principio del favor rei, estende l’applicazione delle disposizioni relative alle sanzioni pecuniarie anche ai fatti commessi anteriormente alla data di entrata in vigore dello stesso, salvo che il procedimento penale sia stato definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili. Se, invece, il procedimento penale per il reato di ingiuria è stato definito, prima della sua entrata in vigore, con sentenza di condanna o decreto irrevocabili, spetta al giudice dell’esecuzione revocare la sentenza o il decreto, dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adottare i provvedimenti conseguenti.

Osservazioni conclusive.

Da un lato, dunque, la vittima di un ingiuria non dovrà più presentare denuncia, ma conferire mandato ad un avvocato affinché instauri un’ ordinaria causa civile; dall’ altro il colpevole non si sporcherà più la fedina penale. Queste sono le conseguenze dell’entrata in vigore del decreto legislativo in commento che, insieme all’ingiuria, ha depenalizzato ulteriori reati con lo scopo di deflazionare il sistema penale sostanziale e processuale.

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Vittime e persone offese da reati: più tutele col D. Lgs. 212/2015.

Maggiori tutele per le persone offese o vittime di reato.

Con il D.Lgs. 15 dicembre 2015 n. 212 – pubblicato sulla G.U. n. 3 del 5 gennaio 2016 – l’Italia risponde alle sollecitazioni europee dando attuazione alla direttiva 2012/29/UE, recante norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato.

L’entrata in vigore del suddetto provvedimento può, certamente, considerarsi un progresso nel sistema di tutele assicurato dall’ordinamento nazionale alla persona offesa dal reato, in quanto introduce a favore della stessa maggiori garanzie in relazione alle dinamiche processuali.

La definizione di «vittima».

Al fine di comprendere esattamente a chi si rivolge la riforma, appare doveroso delineare il significato europeo della parola “vittima”, recepito nell’ordinamento interno.

Il termine citato si riferisce alla persona che abbia direttamente subito un danno (sia esso fisico, mentale, emotivo o economico) dal compimento di un reato, ovvero – nel caso questa sia deceduta a causa dell’illecito – i suoi familiari. Si considera familiare il coniuge, la persona che convive con la vittima in una relazione intima, nello stesso nucleo familiare e in modo stabile e continuo; i parenti in linea retta, i fratelli e le sorelle; le persone a carico della vittima comprese le persone con essa conviventi in situazioni affettive stabili e continue.

La vittima può essere maggiorenne o minorenne. Di particolare interesse appare, sin d’ora, la disposizione che consente al giudice, nell’ipotesi in cui sorga dubbio sull’età della persona offesa, di disporre l’apposito accertamento, anche d’ufficio. Laddove il dubbio persista – ai fini dell’applicazione delle disposizioni processuali – si presume la minore età.

Le garanzie e le definizioni sopra menzionate hanno determinato la conseguente modifica, nello stesso senso, delle disposizioni del codice di rito.

Il D.Lgs. 15 dicembre 2015 n. 212, di attuazione della normativa europea, predispone specifiche garanzie a tutela della persona offesa cui è riconosciuto un particolare stato di vulnerabilità. Tale vittima, infatti, necessita di una maggiore protezione relativamente alle interferenze esterne ed ai contatti con l’autore del reato.

A salvaguardia della persona offesa particolarmente vulnerabile vengono, dunque, apportate modifiche alle modalità di documentazione, alla disciplina della prova testimoniale, all’assunzione di sommarie informazioni da parte della polizia giudiziaria, all’assunzione di informazioni da parte del pubblico ministero, all’incidente probatorio e all’esame.

Il legislatore ha elaborato determinati indici-criteri da cui potere desumere la condizione di particolare vulnerabilità. Quest’ultima si ricava, ai sensi dell’art. 90-quater c.p.p., dall’età della persona offesa, dallo stato di infermità o di deficienza psichica, dal tipo di reato, dalle modalità e dalle circostanze del fatto per cui si procede. In relazione alla condotta criminosa perpetrata, si tiene conto, altresì, dell’uso della violenza alla persona, del movente dell’odio razziale, della riconducibilità del fatto ad ambiti di criminalità organizzata o di terrorismo o di tratta degli esseri umani, della finalità discriminatoria, della dipendenza della persona offesa (sia essa affettiva, psicologica o economica) dall’autore del reato.

L’accertamento dello status di vittima particolarmente vulnerabile verte, pertanto, sull’analisi delle caratteristiche della persona e del caso concreto, assicurando un adeguato standard di tutela strettamente correlato alle peculiari esigenze di protezione.

Le specifiche misure di tutela.

In ordine all’informazione e alla partecipazione della vittima al processo, il decreto attuativo 15 dicembre 2015 n. 212, interviene direttamente su istituti già esistenti, ampliandone l’operatività.

In primo luogo viene sancito l’obbligo di fornire alla persona offesa –  sin dal primo contatto con l’autorità procedente ed in una lingua a lei comprensibile – una serie di informazioni inerenti ai servizi assistenziali offerti, alle facoltà e ai diritti di cui può avvalersi, al decorso del procedimento (compresa la possibilità che quest’ultimo sia definito con remissione di querela o attraverso la mediazione, ove possibile).

In secondo luogo, nei processi relativi a delitti perpetrati con violenza alla persona, la vittima può richiedere la comunicazione dei provvedimenti di scarcerazione e di cessazione della misura di sicurezza detentiva, e viene resa edotta dell’evasione dell’imputato in stato di custodia cautelare o del condannato, nonché della volontaria sottrazione dell’internato all’esecuzione della misura di sicurezza detentiva. Eccezionalmente le comunicazioni anzidette potranno essere omesse nel caso in cui sussista il pericolo concreto di un danno per l’autore del reato.

Infine, il provvedimento inserisce nel codice di rito disposizioni relative all’assistenza linguistica, in base alle quali alla persona offesa devono essere garantiti servizi gratuiti di interpretariato e di traduzione degli atti essenziali all’esercizio delle proprie facoltà. L’assistenza dell’interprete può avvenire anche mediante l’utilizzo delle tecnologie di comunicazione a distanza, ma soltanto nell’ipotesi in cui ciò non comprometta il corretto esercizio dei diritti della vittima.

La persona offesa potrà, pertanto, giovarsi delle molteplici nuove tutele apprestate dal legislatore.

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Guida in stato di ebbrezza: applicabile particolare tenuità del fatto.

La Cassazione Penale, sez. IV, con la sentenza 02/11/2015 n. 44132, ha ritenuto il reato di guida in stato di ebbrezza, di cui all’art. 186 Cod. Strad., compatibile con l’istituto della particolare tenuità.

Infatti, dalla collocazione sistematica dell’ istituto nella parte generale del codice penale (art. 131 bis), emerge la volontà del legislatore di non limitarne l’applicazione a determinati reati.

Inoltre, le soglie di punibilità previste dalla fattispecie, non rappresentano un ostacolo all’applicazione dell’istituto citato, in quanto esse svolgono la propria funzione sul piano della selezione categoriale, mentre la particolare tenuità del fatto conduce ad un vaglio nella dimensione effettuale, secondo il paradigma della sussidiarietà in concreto.

Occorre precisare, tuttavia, che l’applicazione dell’istituto presuppone l’accertamento del reato, pertanto permane l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente, che potrà essere applicata direttamente dal Giudice.

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Bar fa troppo rumore: come si può intervenire?

Il gestore di un bar sito a 6 metri dalla mia abitazione,spesso lo trasforma in discoteca. Vorrei sapere se era obbligato a presentare la documentazione su previsione d’impatto acustico per avere la licenza dal sindaco e se posso intervenire legalmente.

Il titolare del locale è obbligato a predisporre adeguata documentazione di previsione di impatto acustico, in relazione alla realizzazione, modifica e potenziamento del pubblico esercizio dotato di impianto rumoroso.

Se il rumore supera il livello della cosiddetta “normale tollerabilità”, le strade che puoi percorrere sono diverse.

In prospettiva amministrativa, la legge quadro sull’inquinamento acustico, n. 447 del 1995, conferisce al Sindaco il potere di emettere un’ ordinanza, con lo scopo di obbligare colui che provoca le immissioni a cessare immediatamente le stesse o a ridurne l’entità. Per poter emettere questa ordinanza è necessario l’intervento dell’ARPA, che ha il compito di effettuare rilievi tecnici per misurare l’entità dei rumori in decibel. La tollerabilità sarà valutata in relazione alla zona acustica territoriale in cui il rumore viene emesso. Per adire questa via occorre inoltrare un esposto alle Autorità pubbliche competenti, con l’invito a voler provvedere. Il procedimento potrà condurre ad una sanzione pecuniaria amministrativa e/o un provvedimento limitativo da parte del Comune.

In prospettiva civile, l’art. 844 c.c. conferisce la possibilità di esercitare un’azione inibitoria o risarcitoria. Queste azioni sono dirette ad impedire il prosieguo della molestia o ad ottenere il risarcimento del danno. Per instaurare il giudizio devi rivolgerti necessariamente ad un avvocato.

In prospettiva penale, la contravvenzione di cui all’art. 659, comma 1, c.p., punisce chi disturba le occupazioni o il riposo delle persone, anche mediante strumenti sonori. La pena prevista è l’arresto fino a 3 mesi o l’ammenda fino a 309 euro. Si applica l’ammenda da euro 103 a euro 516 a chi esercita una professione o un mestiere rumoroso contro le disposizioni della legge o la prescrizioni dell’autorità. In questo caso, occorre presentare una denuncia querela, che non richiede l’intervento dell’avvocato, anche se è preferibile.

In ogni caso, prima di procedere, Ti consiglio di diffidare la controparte.

Per la redazione della diffida non è obbligatoria (anche se raccomandabile) l’assistenza di un avvocato.

Successivamente all’invio della diffida, in base ai risultati ottenuti, potresti chiedere consiglio al tuo legale di fiducia circa il percorso più opportuno da intraprendere.

   
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Matrimoni omosessuali: impossibile la trascrizione per il Consiglio di Stato.

Il Consiglio di Stato, sez. III, con la sentenza 26/10/2015 n. 4899, ha affermato l’intrascrivibilità dei matrimoni contratti all’estero tra persone dello stesso sesso, ed ha riconosciuto la legittimità del provvedimento prefettizio di annullamento delle relative trascrizioni.

Il Consiglio è giunto a tale decisione osservando quanto segue.

  1. Il matrimonio omosessuale, nel nostro ordinamento, deve ritenersi invalido o inesistente. La validità del matrimonio tra cittadini italiani celebrato all’estero è regolata dalla legge n. 218 del 1995, nonché dall’art. 115 c.c., i quali prevedono l’applicabilità della legge nazionale italiana. Secondo quanto stabilito dal codice civile, la diversità di sesso tra i nubendi rappresenta la prima condizione di validità e di efficacia del matrimonio. Di conseguenza l’atto in questione, privo di un elemento essenziale, risulta inidoneo a produrre effetti in Italia.
  2. Il matrimonio omosessuale non risulta neanche trascrivibile nei registri dello stato civile. Gli elementi richiesti ai fini della trascrivibilità dell’atto di matrimonio, infatti, sono catalogati tassativamente dall’art. 64 del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, il quale impone all’ufficiale dello stato civile di controllarne la presenza prima di procedere alla trascrizione. Uno di questi elementi indefettibili è la presenza, nel documento, della dichiarazione degli sposi di volersi prendere rispettivamente in marito e in moglie, condizione assente nel matrimonio celebrato tra due persone dello stesso sesso. Si è, inoltre, rilevato che il Prefetto è dotato del potere di annullare gli atti dello stato civile di cui il Sindaco ha ordinato contra legem la trascrizione, in virtù del vincolo di subordinazione che lega il Sindaco al Ministero dell’Interno e, per esso, allo stesso Prefetto. Questa relazione interorganica assicura l’uniformità di indirizzo della tenuta dei registri dello stato civile su tutto il territorio nazionale.
  3. Non esiste, neppure nella normativa europea e sovranazionale, il diritto fondamentale della persona al matrimonio omosessuale. Pertanto, il divieto imposto dall’ordinamento nazionale di equiparazione del matrimonio omosessuale con quello eterosessuale, non può giudicarsi confliggente con i vincoli contratti dall’Italia a livello europeo o internazionale. Le medesime conclusioni si impongono anche all’esito della interpretazione della normativa di riferimento, alle stregua degli artt. 8 e 12 della CEDU, per come interpretati dalla Corte di Strasburgo.

In conclusione, a fronte della inconfigurabilità di un diritto al matrimonio omosessuale, il Consiglio di Stato ha ritenuto preclusa all’interprete ogni opzione ermeneutica creativa, non imposta da vincoli costituzionali o internazionali, anche ai meri fini della affermazione della trascrivibilità di matrimoni contratti all’estero tra persone dello stesso sesso.

Pare opportuno rilevare che il contenuto della sentenza sopra analizzata si pone in aperto contrasto con quanto affermato, sino ad ora, da quattro TAR e dalle pronunce della Corte di Cassazione. Alla luce di una realtà giuridica bisognosa di coerenza, emerge la necessità dell’ intervento – oramai improrogabile – del legislatore.