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Mediazione facoltativa: come sfruttarla al meglio.

Il d. lgs. 28/2010 è salito agli onori della cronaca (quasi nera..) forense per aver introdotto la cd. mediazione obbligatoria: questa ha creato un effetto alone negativo – di matrice  culturale-ideologica – che impedisce di considerare e quindi sfruttare adeguatamente alcuni meccanismi interessanti legati al rapporto tra mediazione e processo.

La regola base è quella della “impermeabilità”: tutto quello che succede in mediazione è coperto da riservatezza e non può essere valutato dal giudice. Come ogni regola che si rispetti ha ovviamente delle eccezioni; nel processo possono essere infatti valutati:

  1. la mancata partecipazione della parte invitata
  2. la mancata accettazione della proposta del mediatore

La prima eccezione è disciplinata dall’art. 8, comma 4 bis, prima parte che stabilisce:

Dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione, il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile.

Tale disposizione sembra applicabile alla mediazione facoltativa giacché:

  • la mediazione è per sua natura facoltativa, anche a livello di legislazione europea, quindi la disciplina contenuta nel d. lgs. 28/2010 riguarda prima di tutto questa forma di mediazione  e poi quella obbligatoria che ne è solo una specificazione;
  • la seconda parte dello stesso articolo 4 bis prevede un effetto ulteriore (pagamento di una sanzione pari all’importo del contributo unificato) solo nel caso della mediazione  obbligatoria: è chiaro quindi che la prima parte si applichi ad entrambi i tipi di mediazione, giacché quando il legislatore ha voluto differenziare gli effetti della mancata partecipazione, lo ha     fatto espressamente. Di conseguenza la mancata partecipazione in     mediazione obbligatoria comporta 2 effetti (sanzione e valutazione ex art. 116 c.p.c.), mentre la mancata partecipazione in mediazione obbligatoria solo 1 (valutazione ex art. 116 c.p.c.)

La seconda eccezione è invece contenuta nell’art. 13:

1. Quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta, il giudice esclude la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice che ha rifiutato la proposta, riferibili al periodo successivo alla formulazione della stessa, e la condanna al rimborso delle spese sostenute dalla parte soccombente relative allo stesso periodo, nonché al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di un’ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto. Resta ferma l’applicabilità degli articoli 92 e 96 del codice di procedura civile. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano altresì alle spese per l’indennità corrisposta al mediatore e per il compenso dovuto all’esperto di cui all’articolo 8, comma 4.

2. Quando il provvedimento che definisce il giudizio non corrisponde interamente al contenuto della proposta, il giudice, se ricorrono gravi ed eccezionali ragioni, può nondimeno escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice per l’indennità corrisposta al mediatore e per il compenso dovuto all’esperto di cui all’articolo 8, comma 4. Il giudice deve indicare esplicitamente, nella motivazione, le ragioni del provvedimento sulle spese di cui al periodo precedente.

Per i motivi già esposti, anche questa disciplina sembra applicabile anche alla mediazione facoltativa.

Dunque invitare la controparte in mediazione obbligatoria ha 2 vantaggi:

  1. può davvero condurre ad una soluzione negoziata veloce e soddisfacente e conveniente anche perché al pari della mediazione obbligatoria anche quella facoltativa gode degli incentivi fiscali di cui all’art. 17 del d. lgs. 28/2010 ( 2. Tutti gli atti, documenti e provvedimenti relativi al procedimento di mediazione sono esenti dall’imposta di bollo e da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura. 3. Il verbale di accordo è esente dall’imposta di registro entro il limite di valore di 50.000 euro, altrimenti l’imposta è dovuta per la parte eccedente.)
  2. può essere un’ottima strategia per mettere in risalto l’atteggiamento collaborativo del proprio cliente, stigmatizzando quello competitivo (e in certo senso contrario a buona fede) dell’avversario.

L’importante è capire quale tipo di controversia si presti di più ad essere definitiva in mediazione a prescindere dalla selezione effettuata dal legislatore che potrebbe benissimo non intercettare la controversia mediabile: qui segnalo uno strumento sperimentale di recentissima ideazione da parte dei docenti dell’Ente di formazione per mediatori dell’Università di Camerino.

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diritto roba per giuristi

Kafka: un civilista.. in fila

C’è un avvocato che frequenta poco il tribunale e quelle poche volte che partecipa ad un’udienza civile prova la stessa strana sensazione: quella di essere l’unico ad accorgersi che … qualcosa non va.

Si chiede come sia possibile passare una mattinata intera per fare 5 minuti di verbale… E “produrre”, magari, solo 2 o 3 verbali in una mezza giornata lavorativa..

Tutti gli avvocati a fare la fila parlando del più e del meno; qualcuno scrolla stancamente lo schermo del telefono vagabondando sui social network, quasi nessuno con un computer o un tablet, magari per controllare le email, leggere
documenti o sentenze, aggiornarsi…

Una intera massa di professionisti che avanza alla velocità di un bradipo verso un giudice sopraffatto dai fascicoli e dalla ressa.

Si chiede – sorpreso ed anche un po’ preoccupato il nostro – come si possano passare giornate del genere. “Ma che produttività si ha in questo modo? I  clienti per cosa pagano, davvero, gli avvocati..?

Questa situazione genera irrequietezza, conducendo infine ad una allarmata constatazione: tutti quelli che sono in fila sembrano quasi… “assuefatti” …!

Non può credere che si possa godere a stare in quella situazione ed a sentirsi realizzati; non riesce a vedere la loro autostima che cresce. E nemmeno il loro conto in banca: ormai gli avvocati si pagano a “fasi” e non a minuti (tranne che si sia pattuita una parcella con tariffa oraria..).

Eppure stanno tutti lì, come se ci fosse un qualcosa di ineluttabile, immodificabile; quasi un arrendersi ad una realtà che non si può cambiare.

Ad ascoltarne i discorsi, tutti si lamentano delle performance della giustizia civile, eppure tutti continuano a farne parte, volenti o nolenti: la metafora che va per la maggiore in questi casi è quella del tribunale che sarebbe una sorta di autobus con gli avvocati come passeggeri e non autisti o proprietari delle strade…

Dunque tutti si lamentano, ma tutti continuano a prendere lo stesso autobus. Se non ogni giorno, probabilmente ogni settimana.

D’altronde è il loro lavoro – continua a pensare – poi si ferma chiedendosi: “Ma è davvero così?
Non è che, invece, i veri passeggeri sono i clienti e che gli avvocati sono più o meno i bigliettai (nel senso che vendono e controllano il titolo di viaggio)?
E non è forse vero che, senza biglietto, sull’autobus in effetti non si sale (o non si dovrebbe salire…)?”
Non è che si potrebbe prendere, insieme ai clienti, un altro autobus?

La fregatura è che per fare i bigliettai per questo autobus, ci sono voluti anni di studi universitari, di pratica, impegno, soldi, “sottomissione” ai dominus, alle cancellerie ed alle fotocopiatrici..per non parlare dell’ufficio notifiche..

Dunque visto che si è sudato tanto, non si può riconoscere a se stessi che … non ne è valsa la pena e quindi, obtorto collo, tutti ordinatamente in fila sapendo che (purtroppo?) domani.. ricominceranno.

Non l’ha ordinato il medico di fare l’avvocato, sia chiaro, e per giunta “civilista”, ma ad un certo punto, qualcuno con una voce un po’ soffocata insinua: “O la smettiamo di lamentarci del sistema che critichiamo, oppure smettiamo di usarlo, …almeno quando è possibile…

Il fatto è che gli avvocati non pensano a verificare quali pratiche potrebbero essere risolte fuori dal tribunale: non solo quelle da chiudere in transazione col collega, perché quelle sono le più facili, ma quelle che invece si sarebbe voluto definire con un accordo che non si è raggiunto e che invece di finire sul tavolo
del giudice, dovrebbero andare altrove…

L’alternativa è costituita da uno dei diversi sistemi ADR che per comodità possiamo identificare in due procedure; la mediazione e l’arbitrato.

Quest’ultimo assicura tempi brevi e certi (specie se irrituale), una decisione vincolante e un decisore esperto della materia; per converso è più costoso (ma solo nell’immediato..) del processo in tribunale e potenzialmente “pericoloso” se i soggetti nominati come arbitri non sono completamenti autonomi e all’altezza del compito. Nel nostro Paese non ha sinora dimostrato di essere un’alternativa ad alto impatto. Evita di certo quasi tutti i problemi di burocratizzazione descritti sinora.

La mediazione che in altri paesi ha una grande efficacia, in Italia soffre un problema culturale e in parte ideologico: gli avvocati che non sono riusciti a trovare un accordo – ritenendosi esperti in materia di negoziazione – pensano che nessun altro sarà in grado di trovare una soluzione stragiudiziale. Non viene dunque riconosciuta alla mediazione alcun valore aggiunto anche perché, purtroppo, talvolta nemmeno mediatori sono all’altezza. L’obbligatorietà in questo senso ha creato l’effetto opposto a quello che si cercava di raggiungere: un cambiamento di paradigma, soprattutto mentale, non può essere generato a colpi di decreto.

La soluzione c’è, ma richiede una piccola rivoluzione:

  • riconoscere che il processo dovrebbe essere l’ultima spiaggia, non la prima;
  • l’atteggiamento avversariale tipico del processo è controproducente al tavolo negoziale
  • negoziare in tre è meglio che in due
  • i problemi delle persone non sono puri problemi giuridici
  • le decisioni umane (dei clienti e degli avvocati) hanno una base emotiva
  • senza etica il diritto è in grado di produrre risultati nefasti.

Rivoluzione che passa per la formazione continua: quel che è stato insegnato all’università può e deve essere superato. Certo se poi ai convegni e seminari si va solo per prendere crediti e tutti escono con le stesse identiche idee che avevano quando sono entrati, ogni cambiamento è impossibile…

La colpa non sta ovviamente tutta da una parte: dunque c’è la responsabilità degli organizzatori che continuano ad offrire solo convegni su contenuti giuridici e processuali e quella dei partecipanti che hanno quasi paura a cambiare da soli, magari leggendo qualcosa in materia di comunicazione, gestione del conflitto, negoziazione, problem solving, decision making.

Ricordando Blade Runner: “Io ne ho viste cose che voi avvocati non potreste immaginarvi.. oltre i bastioni di codici e giurisprudenza. E’ tempo… di cambiare.

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diritto

[guest post] Il problema conflittualità tra limiti del diritto ed etica forense.

Oggi una occasionale “convergenza” giornalistica permette di mettere bene a fuoco un problema poco denunciato e poco studiato: l’impatto del diritto sulla conflittualità.

Il Corriere della Sera riporta gli eccessi di intolleranza che sfociano in istanze punitive che, se non fossero reali, rasenterebbero il ridicolo, mentre la Stampa a margine della triste vicenda di Cittadella, pubblica (a pag. 29 della versione cartacea) un intervento di Carlo Rimini dal titolo “Il mediatore che manca per i figli contesi”. Il professore nota come “Tutti coloro che operano a contatto con la crisi della famiglia sanno che il nostro diritto ha una grave lacuna che neppure la legge sulla filiazione approvato nel dicembre scorso ha affrontato. Non esiste infatti una struttura in grado di gestire il conflitto quotidiano  fra genitori separati, evitando che questi diventino irrisolvibili. L’autore suggerisce l’istituzione di “un ufficio incaricato di seguire tutte le famiglie separate in cui vi è un acuto contenzioso relativo ai figli”.

Potrebbe essere una soluzione che però, come spesso accade, prevede un intervento Statale e una certa “istituzionalizzazione” del conflitto; magari in altre nazioni esiste un servizio simile ed è “giusto” ispirarsi a quelle nazioni che riescono a fornire servizi sociali migliori dei nostri. Tuttavia questa non è l’unica soluzione e di certo non intercetta il micro-conflitto quotidiano che resta nascosto tra agnolotti mal fatti o puzze condominiali.

Non è “corretto” accostare un conflitto grave (il bimbo conteso) con uno – apparentemente – banale come quello tra vicini?

Lo è nella misura in cui si considera che il conflitto è un fenomeno del tutto naturale nell’ambito delle relazioni umane e quindi perfettamente fisiologico, ma che, in certe situazioni, in cui sono coinvolti certi soggetti, può divenire patologico. La cosa grave è che quando un conflitto non si risolve subito e facilmente, allora, una o entrambe le persone in esso coinvolte, si rivolgono alla legge, pensando che questa stia lì a risolvere i loro problemi. Ma le cose stanno davvero così? Il diritto, il processo, gli avvocati sono al servizio del conflitto?

Temo proprio di no: il conflitto non vive nel dominio giuridico che, al contrario, non intercetta, considera o interagisce con gli elementi di cui il conflitto è composto, per i seguenti motivi.

  • L’ordinamento giuridico è costituito di un insieme di disposizioni che per definizione vanno interpretate ed applicate al fine giungere ad un sentenza che – in occasione della presentazione del libro “La comprensione del diritto” di Giuseppe Zaccaria è – stato definito dal Vice Presidente della Corte Costituzionale “un  provvedimento per la rimozione autoritativa del dubbio” (circa la “giusta” interpretazione). Nessuno spazio per emozioni, stati d’animo o sentimenti che, al contrario rilevano, semmai, come “aggravanti”.
  • Il conflitto nasce per problemi di comunicazione, difficoltà ad interagire costruttivamente per la risoluzione dei problemi, scarsità di risorse ed emozioni negative. Nel caso delle coppie, ma il discorso può essere esteso a qualsiasi organizzazione o comunità, è proprio la capacità di gestire efficacemente il conflitto a denotare la solidità della relazione.
  • La magistratura, tranne qualche isolata eccezione, non si cura delle persone, ma si limita – forse correttamente su un piano dogmatico – ad interpretare ed applicare le disposizioni di legge. Se questo porta sofferenza ai soggetti coinvolti direttamente e indirettamente o acuisce il conflitto è un problema che non sembra riguardare il giudice che si deve limitare a mettere una parola “fine” al processo. Il che non assicura affatto che finisca il conflitto.
  • Come nota William Ury (antropologo esperto di conflitti di fama internazionale, co-fondatore del Program on Negotiation presso l’Università di Harvard) il conflitto è di tutti, ma nessuno riesce davvero ad accoglierlo: non vogliono o possono farlo i vicini, i parenti, la comunità e così lo si trasferisce in un tribunale, producendo quel che il filosofo Eligio resta ha definito “tribunalizzazione del conflitto”. Nelle culture che noi definiamo arretrate e che vivono ancora oggi in una dimensione tribale, al contrario, il conflitto viene condiviso tra tutti i membri: il problema (ri)diventa di tutti. Il prof. Rimini pensava ai costi sociali, io invece penso ai costi umani: quando il conflitto oltrepassa un invisibile – per i non esperti – linea (ad esempio quella tra il 4° e 5° grado della cd. “Scala di Glasl”), diventa realmente distruttivo e si autoalimenta in una spirale senza fine dove l’autodistruzione a patto di far perire l’avversario è davvero un obiettivo.

 Ho lasciato fuori un protagonista: l’avvocato, che spesso è il primo a ricevere (il che non significa accogliere e risolvere) il conflitto. Egli potrebbe fare come il magistrato, con il quale condivide la formazione giuridica, estrapolando le questioni di diritto e lasciando fuori (davvero?) gli aspetti emotivi e relazionali. Comportamento ineccepibile giuridicamente e deontologicamente:  ma diritto e deontologia sono tutto? Qualcuno potrebbe dire – forse con un filo di cinismo – che sono anche “troppo” per un avvocato: io, invece, penso che siano troppo poco: senza una visione e una riflessione etica, infatti, il diritto da solo non riesce a risolvere i conflitti. E se lo Stato non fornisce un servizio in grado di rispondere a questa esigenza, certamente nulla impedisce all’avvocato di farlo di sua spontanea iniziativa: esistono centri di mediazione familiare in cui operano professionisti (veri) del conflitto, persone appositamente formate per gestire situazioni anche molto delicate. L’importante è non arrivare troppo tardi, quindi, il ruolo dell’avvocato è doppiamente delicato, non solo perché ha il potere di intercettare il conflitto, ma anche perché lo fa per primo: essere invitati ad andare in mediazione familiare dal giudice, significa andarci in una fase piuttosto avanzata della malattia il che può compromettere le possibilità di guarigione.

Come ben sanno gli esperti di conflitto, non tutti i conflitti possono essere risolti, ma tutti possono essere prevenuti. E’ vero, le facoltà di giurisprudenza non forniscono nozioni in tema di conflitto e raramente ne danno in materia di mediazione: ma l’errore dell’accademia può giustificare quello dell’avvocato o giustificare la sua inerzia?

Attendere un servizio pubblico senza fare nulla è moralmente ed eticamente corretto? Nei conflitti piccoli ed in quelli grandi spesso ci sono avvocati che in perfetta buona fede non si rendono conto – giacché è un fenomeno che non conoscono “professionalmente” – di quale efficacia perversa può avere il diritto nelle dinamiche conflittuali.

Ci sono le banche etiche, il bilancio sociale, la bioetica e la neurotica: occorre anche un diritto etico nei confronti del conflitto. O almeno un’avvocatura etica. Si può fare. Con qualche sforzo, ma senza rinunciare a nulla in termini economici e di prestazione professionale. Insieme, circa 250.000 avvocati potrebbero determinare una svolta.