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la Cassazione dichiara risarcibile il danno alla salute della moglie tradita

Nei giorni scorsi la Cassazione ha accolto il ricorso di una moglie tradita, che chiedeva un’ingente somma, quasi un miliardo di vecchie lire, a titolo di risarcimento del danno subito in seguito al tradimento del marito in costanza di matrimonio.

La Corte ha sancito, in questo caso, la risarcibilità del danno, ma non in seguito alla violazione del dovere di fedeltà, bensì in conseguenza della lesione del diritto alla salute. Infatti, in conseguenza del tradimento effettuato con particolari modalità lesive ed offensive, sarebbe stato fortemente leso il diritto alla salute psicofisica della moglie, la quale avrebbe subito, nel caso concreto, un trauma psicologico.

Proprio tale trauma comporta, secondo i giudici delle Cassazione, il diritto al risarcimento del danno subito.

Inoltre, la Suprema Corte ha affermato che tale diritto al risarcimento spetta in via autonoma rispetto al giudizio di addebitabilità della separazione,  perciò può essere richiesto in un separato giudizio civile, essendo sufficiente provare il disagio effettivamente subito in conseguenza del tradimento. In realtà, il risarcimento del danno deve essere richiesto in un separato giudizio, dal momento che quello di separazione può avere per oggetto solo le questioni di carattere personale o comunque legate al dissolvimento del vincolo matrimoniale tra coniugi.

Tale provvedimento si inserisce in filone di giurisprudenza di merito, di cui abbiamo già trattato sul blog, che ritiene risarcibile il danno non patrimoniale ogni volta in cui vi sia la lesione di un diritto costituzionalmente garantito.

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Dal ’93 ad oggi il mio reato si cancella?

Vorrei sapere essendo stato condannato per rapina e lesioni nel 1993 se il reato avendo patteggiato un anno viene cancellato o può influire qualora avessi altri problemi. Infatti oggi mi trovo in via processuale con lo stato per aver dimenticato 500 di inps ad un dipendente e non avendole pagate entro tre mesi dalla notifica inps. Possono far riferimento a quel vecchio reato o posso cancellare dopo 20 anni il retao stesso? Grazie

L’ordinamento prevede che il reato si estingua, ove sia stata irrogata una pena detentiva non superiore a due anni soli o congiunti a pena pecuniaria, se nel termine di cinque anni, in caso di delitto, ovvero di due anni, in caso di contravvenzione, l’imputato non commette un delitto ovvero una contravvenzione della stessa indole.

Ciò detto bisogna ricordare che  l’estinzione del reato non opera automaticamente, ma va
richiesta al Giudice, il quale, se il richiedente ne ha i requisiti, dichiara estinto il reato.

Quanto alla menzione del reato nel casellario giudiziale, ricordati che ove estinto il reato non compare più nel casellario a richiesta dei privati, ma in quello a richiesta delle Pubbliche Amministrazioni rimane sempre.

Va, però, ricordato che la normativa in merito di omesso versamento dei contributi previdenziali, prevede che causa estintiva del reato stesso, sia, appunto, il vesameto della somma omessa.

Resta inteso che pero ogni valutazione più precisa della strategia difensiva è opportuno rivolgersi ad un legale al fine di valutare in modo più completo il caso concreto.

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il risarcimento del disturbo post traumatico da stress cagionato dal coniuge

Il Tribunale di Modena ha condannato un marito a pagare una somma alla ex moglie a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, nella forma del danno da disturbo post traumatico da stress, causato alla stessa da una serie, ripetuta e prolungata nel tempo, di comportamenti minacciosi e persecutori.

Il Giudice del Tribunale di Modena ha seguito il recente orientamento della Corte di Cassazione, ritenendo che il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi del nostro codice (art. 2059) non fosse solamente quello derivante da condotte che in integrano gli estremi del reato, come ad esempio le percosse, bensì anche ogni danno non patrimoniale, causato da un fatto illecito altrui e dal quale consegua una lesione dei valori della persona costituzionalmente protetti.

Più precisamente, il Giudice ha ritenuto che il disturbo post traumatico da stress, ossia, in breve, quella particolare sofferenza psico-fisica dell’individuo, conseguente ad un evento traumatico percepito come mortale e nei confronti del quale il soggetto si sente completamente impotente, avesse causato alla ex moglie un danno rilevante, ledendone il diritto alla salute, tutelato all’art. 32 della nostra Costituzione.

Nel caso descritto il Giudice ha valutato, ai fini della sussistenza della responsabilità per il danno cagionato, comportamenti tenuti dal soggetto durante la vita matrimoniale, che erano già stati posti alla base dell’addebito della separazione, quali elementi costitutivi di un’ulteriore responsabilità risarcitoria, ossia dell’obbligo di risarcire il danno causato da un proprio comportamento doloso o colposo, in conseguenza del quale un terzo abbia subito un danno.

Con ciò non si vuole certamente affermare che ogni comportamento del coniuge idoneo ad ottenere l’addebito della separazione configuri anche una responsabilità patrimoniale, tutt’altro.

Infatti, ai fini dell’addebito della separazione è necessario non solo che il coniuge tenga comportamenti che violano i doveri matrimoniali, ma anche che tali comportamenti si configurino come così gravi da rendere impossibile la prosecuzione della convivenza.

Ebbene, perchè si possa configurare la responsabilità per danno non patrimoniale è necessario che tali comportamenti abbiano siano ancora più gravi, cioè, come detto, ledano i diritti costituzionalmente garantiti dell’altro coniuge.

Va sottolineato, però, che tale ipotesi risarcitoria ha natura autonoma rispetto al giudizio di separazione dei coniugi, pertanto potrà essere fatta valere solamente mediante l’introduzione di apposito giudizio.

In punto è che il Giudice ha ritenuto che tali comportamenti, di per sè già violazioni dei doveri imposti ai coniugi con il matrimonio così gravi da comportare l’addebito della separazione, fossero talmente rilevanti da configurare in  capo all’ex marito proprio una responsabilità da fatto illecito.

articolo originariamente pubblicato su | Cadoinpiedi

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quando le madri scelgono di rimanere segrete

Nell’ultimo anno si è verificato un aumento esponenziale del fenomeno delle “madri segrete”, ossia di donne che, al momento della nascita in ospedale del figlio, non lo riconoscono abbandonandolo alle cure di medici ed infermieri. Tali neonati, in generale, sono destinati ad una veloce adozione nazionale, questo allorquando non abbiano problemi di salute o handicap.

Prescindendo dalle valutazioni sociologiche, circa il disagio che sta alla base di tale fenomeno, è fondamentale, ai fini dell’analisi giuridica, individuare un punto di equilibrio tra le esigenze e i diritti della madre, che desidera rimanere anonima, e quelli dei minori.

Infatti, i minori adottati, molto probabilmente, in un futuro, nutriranno, il desiderio di conoscere le proprie origini biologiche e, in alcuni casi, l’ordinamento prevede la possibilità per gli stessi, divenuti adulti, o per i genitori adottivi, di entrare in possesso di tali informazioni. Tale possibilità, però, trova un limite invalicabile nella richiesta della madre, al momento del parto, di rimanere anonima, limite rimarcato anche dalla recente disciplina in materia di trattamento dei dati personali (D.Lgs. 396/2001). Va ricordato che, per legge, l’adottato comunque perde ogni contatto con la famiglia di origine, senza possibilità alcuna di «tornare indietro».

La normativa richiamata trova la propria ragione d’essere nella tutela primaria della vita e della salute del minore, il chè ha come conseguenza la ferrea tutela del diritto alla riservatezza della madre. Infatti, solo assicurando alla madre la possibilità di rimanere anonima per tutta la vita, si può incentivare l’utilizzo, da parte della stessa, delle strutture sanitarie e dei servizi dalle stesse offerte, in modo da evitare aborti, parti ed abbandoni traumatici, che causerebbero danni ben maggiori al minore.

Cosa si ha invece per tutti quei minori che non vengono adottati e che quindi non hanno, giuridicamente, un rapporto parentale stabilito? Queste persone, una volta maggiorenni o anche prima con l’assistenza di un curatore speciale e sotto il controllo del Tribunale, possono chiedere il riconoscimento della maternità, nonostante che la madre abbia il diritto di non essere nominata, se riescono a individuare colei che è la loro madre biologica. La ragione di questa scelta legislativa, come spiegato meglio nel libro di Tiziano Solignani, sta nel fatto che può essere un interesse del figlio quello di non essere associato alla propria madre biologica, che può essere una nota prostituta o comunque una persona socialmente non giudicata positivamente; sta al figlio scegliere se vuole instaurare, anche legalmente, un rapporto con la propria madre biologica o no.

Sicuramente tale fenomeno preoccupa gli operatori del settore, proprio per questo motivo è necessario trovare soluzioni alla base del problema, mediante campagne informative, non solo del diritto all’anonimato, bensì anche dei servizi che le istituzioni mettono a disposizione delle donne. Tra questi troviamo, principalmente, i consultori, presso i quali non solo le madri vengono indirizzate a strutture specializzate nelle cure mediche, bensì possono usufruire anche di assistenza psicologica, relativamente agli aspetti che precedono e succedono al trauma dell’abbandono.

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nasce il primo «Tribunale di Pace» italiano

A Lamezia Terme è stato da poco istituito il primo servizio di mediazione familiare interno ad un Tribunale. Tale iniziativa, frutto della cooperazione e degli sforzi di magistrati, Consiglio dell’Ordine Forense locale e Amministrazione Comunale, ha raggiunto sorprendenti risultati, infatti l’85% delle coppie che si sono rivolte al Servizio di Mediazione Familiare ha raggiunto un accordo in merito ai differenti aspetti relativi lo svolgimento delle funzioni genitoriali, evitando così la separazione giudiziale.

Più in generale, l’istituto della Mediazione Familiare è stato introdotto con la l. 54 del 2006, che ha previsto, al secondo comma dell’art 155-sexies, la possibilità che il giudice rinvii l’adozione dei provvedimenti riguardo ai figli, al fine di consentire ai coniugi di avvalersi di esperti che tentino la mediazione tra le parti, in vista del raggiungimento di un accordo.

La mediazione, in sintesi, consiste in una serie di sedute dove un esperto, il mediatore appunto, aiuta i partner a comunicare tra loro. Sembra una cosa banale, ma come avvocato posso confermare con assoluta sicurezza che la maggior parte dei problemi all’interno della famiglia deriva da un deficit o da un problema di comunicazione. Questo è poi il motivo per cui spesso si raggiungono buoni risultati, tali che nemmeno i partner stessi si sarebbero aspettati al momento in cui hanno iniziato le sedute.

Presupposti fondamentali all’avvio della mediazione familiare sono:

  • opportunità di tale fase, rilevata dal giudicante sulla base della conflittualità tra  le parti;
  • preliminare ascolto dei coniugi, necessario a fondare nel giudice la determinazione circa l’opportunità o meno di attivare la fase di mediazione;
  • consenso delle parti a sottoporsi alla mediazione familiare.

 All’esito della mediazione, qualora le parti abbiano raggiunto un accordo, il giudice provvederà all’omologazione dello stesso, proprio come sarebbe accaduto nel caso in cui le parti avessero presentato ricorso per separazione consensuale, mentre, in caso contrario, adotterà i provvederà in merito ai figli esattamente come se tale fase di mediazione non avesse avuto corso.

Naturalmente, qualsiasi coppia, anche con un crisi più lieve e quindi senza che sia ancora arrivata davanti al Tribunale, può volontariamente sottoporsi a sedute di mediazione, una esperienza che probabilmente farebbe bene a molte unioni e a molte famiglie, anche non in crisi.

In realtà, il servizio di mediazione è attivo in tutta Italia, e gli utenti possono rivolgersi sia presso strutture pubbliche (è sufficiente chiedere ai servizi sociali) sia a professionisti privati. L’enorme successo del “Tribunale di Pace” di Lamezia Terme, deriva, anche, dalla gratuità dello stesso, che ha comportato l’aumento esponenziale delle coppie che vi hanno fatto ricorso. Stante tale positiva esperienza è auspicabile che un simile Servizio venga attivato anche presso altri Tribunali Italiani. Nell’attesa facciamo i complimenti a chi, non certo senza enormi sforzi, è riuscito a creare un così importante strumento al servizio del cittadino.

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dal 2014 le madri di figli minori condannate a pena detentiva difficilmente finiranno in carcere

È stata recentemente pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la legge 21 aprile 2011, n. 62,  avente ad oggetto la tutela dei rapporti tra genitori detenuti e figli minori.

Tale provvedimento, la cui entrata in vigore è dallo stesso prevista per il 1 gennaio 2014, prevede che nel caso in cui l’imputata sia donna incinta, madre di prole di età inferiore a sei anni con essa convivente, o padre, nel caso in cui la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza ai figli, non possa disporsi la custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza.

Ove tali esigenze cautelari eccezionalmente rilevanti lo permettano, il nuovo art. 285 bis c.p.p., prevede che il giudice possa disporre la custodia cautelare del soggetto presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri.

Sempre al fine di favorire il rapporto genitore detenuto e figlio, è prevista la possibilità per la madre condannata, imputata o internata, ovvero per il padre che versi nelle stesse condizioni, di ottenere l’autorizzazione a fare visita al figlio che si trovi in imminente pericolo di vita o in gravi condizioni di salute, autorizzazione che, nei casi d’urgenza, verrebbe concessa direttamente dal direttore dell’istituto penitenziario.

In più, nell’ipotesi in cui i figli abbiano un età inferiore ai dieci anni,  previa autorizzazione del giudice, i detenuti potranno accompagnare ed assistere i propri figli nelle visite specialistiche relative le gravi condizioni di salute.

Innovazioni sono state introdotte anche in tema di detenzione domiciliare, infatti è stato previsto che l’espiazione di almeno un terzo della pena, o almeno quindici anni della stessa, possa avvenire presso un istituto di custodia attenuata per madri detenute, ovvero nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora, casa di cura, assistenza o accoglienza, in modo che i genitori possano provvedere alla cura ed all’assistenza dei propri figli.

Tale disegno di legge ha il chiaro scopo di tutelare i diritti dei bambini ad un corretto sviluppo piscofisico ed affettivo, in applicazione anche della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia, ratificata dall’Italia con la legge n. 176 del 27 maggio 1991.

L’attuale modalità di gestione dei rapporti genitori-figli all’interno delle carceri italiane non rispetta le esigenze dei minori, in quanto le visite in carcere sono saltuarie e molto brevi. Inoltre,  i bambini sono costretti ad attendere i genitori per molto tempo in ambienti assolutamente inadatti alle esigenze infantili.

Al fine di attenuare tale drammatica situazione, alcune associazioni si sono già mobilitate. Ad esempio, l’associazione “Bambinisenzasbarre” ha incaricato un team di psicologi, pedagogisti, terapeuti, operatori sociali, ed altri, che ha allestito stanze gioco all’interno delle carceri di San Vittore, Bollate ed Opera, nelle quali i bambini possono attendere i genitori in un ambiente più confacente alle loro esigenze.

Nella stessa ottica è auspicabile che le associazioni e lo Stato si adoperino per la creazione di strutture residenziali adeguate ad ospitare i genitori che potranno usufruire di questa nuova normativa. In queste strutture le esigenze cautelari si dovranno coniugare con le esigenze di protezione del minore e si dovrà favorire lo sviluppo di una sana relazione genitore-figlio.

Ora non resta che aspettare per vedere se tale norma verrà correttamente applicata e se tali strutture verranno realizzate con le opportune cautele.

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procedimento penale e difesa d’ufficio

Una mia amica giorni fa è stata fermata in un negozio per aver rubato due oggetti di bigiotteria. Lei li ha presi nel camerino, hanno trovato il cartoncino del prezzo, e mentre usciva (senza che suonasse niente) l’hanno fermata e gli hanno mostrato il tagliandino. Non potendo negare visto che i camerini erano numerati ed essendo stata subito minacciata di perquisizione (non autorizzata da parte del body guard) ha tirato fuori la merce accettando di pagarla per un totale di 14 euro. Portata alla cassa però la commessa ha subito detto di voler chiamare la polizia, la quale ha avuto un colloquio con la ragazza, il body guard e la commessa e hanno deciso per la denuncia (non volendo accettare il pagamento). La ragazza è stata trasportata in questura per bisogno di nominare un’avvocato d’uffico. Arrivati lì il carabiniere ha compilato a computer un foglio e nominato l’avvocato sul suddetto foglio (fatto firmare e rilasciato in copia alla ragazza) c’è scritto: “persona nei cui confronti vengono svolte le indagini a seguito del furto aggravato commesso in data..ecc.” La mia domanda è quali sono le conseguenze essendo stato nominato un’avvocato?si terrà un processo? Verrà spedita una comunicazione? Il carabiniere ha anche detto che c’è la possibilità che decada tutto vista la somma davvero povera del furto.

Anzitutto è importante ricordare che, nel nostro ordinamento, è previsto l’obbligo di difesa tecnica nel processo penale. In tal senso depone l’art. 97 c.p.p. allorquando sancisce che,  ove l’imputato non abbia nominato un difensore di fiduccia  o ne sia rimasto privo, venga affiancato da un difensore d’ufficio.

Il difensore d’ufficio viene scelto, all’interno di appositi elenchi,  da un ufficio centralizzato predisposto presso ogni Corte d’Appello, al fine proprio di garantire l’effettività della difesa d’ufficio.

In ogni caso l’imputato è sempre libero di nominare un difensore di fiducia, ove lo ritenga opportuno, e solo con la nomina di quest’ultimo il difensore nominato d’ufficio cesserà le proprie funzioni.

Molti, però, ignorano che il difensore d’ufficio, così come quello di fiducia, ha diritto alla retribuzione, ai sensi dell’ art. 31 disp. att. c.p.p., la quale, salva l’applicazione delle norme circa il patrocinio a spese dello Stato, è posta a carico dell’imputato.
Quanto allo svolgimento del processo, gli elementi forniti non sono sufficienti per fare una previsione circa il suo sviluppo.

In generale, il procedimento penale procede autonomamente, fino a quando l’indagato non riceve l’avviso di conclusione delle indagini preliminari.

Nel caso in questione, si tratta di un procedimento per furto, sia pure solo tentato, che è procedibile d’ufficio; vale la pena di specificare che anche se i negozianti avessero accettato il pagamento della merce, il reato sarebbe rimasto ugualmente.

Attenzione, però, occorre verificare l’eventuale elezione di domicilio presso lo studio dell’avvocato d’ufficio, poichè nell’ipotesi in cui la tua amica abbia eletto domicilio presso lo studio del difensore d’ufficio all’atto della nomina dello stesso, l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, così come ogni altro avviso, sarà notificato presso lo studio di quest’ultimo.

Posto che la situazione descritta è comunque abbastanza delicata, credo sia opportuno che la tua amica si rivolga al più presto ad un legale, sia quello d’ufficio, di cui dovrebbe avere il nominativo nel foglio che le hanno rilasciato i Carabinieri, oppure, se lo ritiene più opportuno, un altro avvocato, di fiducia, al fine di determinare con lo stesso la strategia difensiva da intraprendere.

Se la persona indagata vive male e con preoccupazione in dipendenza del fatto che c’è questo procedimento penale, può anche valutare insieme al proprio difensore di chiedere il patteggiamento nel corso delle indagini, in modo da definire il procedimento e chiudere la cosa in modo definitivo; per ulteriori dettagli al riguardo, ti rimando alla nostra scheda pratica che puoi aprire qui http://goo.gl/XOK9B.


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se il proprietario di casa ingiuria la potenziale inquilina

All’incirca 15 giorni fa ho stipulato un contratto verbale con il proprietario di una casa privata, appunto per prenderla in affitto; abbiamo preso accordi che ci sarei entrata il 14.12 e così ho fatto..ho lasciato una caparra di 300 euro e rimasti 600e che le avrei dato il lunedì successivo(27.12)quindi oggi.. ora, ho traslocato e mi ha dato le chiavi dell appartamento, il problema e che quando sono andata per il restante canone di affitto la proprietaria mi ha detto che ho cambiato idea e che devo lasciare casa entro due giorni, senza motivi validi..così chiedo come posso muovermi?può sfrattarmi??ricordo che questo avviene per morosità..io non posso lasciare l’appartamento ora, mi troverei in mezzo a una strada… Aggiungo che mi ha offeso con parole che non oso ripetere, posso denunciarla?

Il contratto di locazione avente ad oggetto immobili ad uso abitativo deve essere redatto con forma scritta, detta ab substantiam. Ciò implica che, in assenza della suddetta forma scritta, il contratto è nullo. Pertanto il proprietario dell’immobile può esigere in qualsiasi momento che tu, in quel momento occupante senza titolo alcuno, te ne vada dall’appartamento.
Formalmente non intraprenderà un’azione di sfratto, esperibile solo nel caso in cui il contratto di locazione sia esistente, bensì una diversa azione per ottenere che tu rilasci l’immobile o risarcisca il danno subito.
Quanto alle parole offensive con cui ti ha appellato la proprietaria, puoi sicuramente sporgere querela, sia presso una stazione di Polizia o dei Carabinieri, che cureranno la redazione del relativo verbale, oppure rivolgendoti ad un legale. Ricorda, però, che la querela deve essere presentata entro 90 giorni dal fatto costituente reato. Ti specifico che in materia di presentazione di una denuncia querela, abbiamo una scheda pratica alla quale innanzitutto ti rimando; da questa scheda, potrai accedere anche alla nostra tariffa di tipo flat per assistenza in questi casi. Una eccellente alternativa alla presentazione di una querela, è quella del ricorso immediato al Giudice di Pace, possibile per questo tipo di reati.