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quando finisce una convivenza chi se ne va può chiedere indietro le spese per l’acquisto della casa?

Caia, con atto di citazione, conviene in giudizio Tizio e, sostenendo di aver vissuto per sette anni more uxorio con il predetto e di avere sorretto il 50% delle spese per l’acquisto e la ristrutturazione di un immobile acquistato ed intestato al solo Tizio, chiede che venga accertato il suo credito. Il Tribunale, esaminata la quaestio, dichiara che Tizio è tenuto a versare a Caia il 50% delle somme corrispondenti ai costi di acquisto e ristrutturazione dell’immobile in oggetto. Tizio, evidentemente, non soddisfatto della pronuncia emessa in primo grado, propone ricorso in appello: la Corte in tale sede accerta la sussistenza di un diritto di credito di Caia nei confronti di Tizio nella misura del 50% non già del prezzo dell’immobile e delle spese di ristrutturazione, ma del 50% degli esborsi a tali fini sostenuti con denaro comune delle parti provenienti da conti cointestati accesi presso due banche. Tizio, così, ricorre in Cassazione: la Quale rigetta il ricorso!, confermando la sentenza di appello.

Ebbene, l’espressione <<convivenza more uxorio>> individua quelle relazioni interpersonali non coniugali che vedono due persone convivere ‘’come se fossero marito e moglie’’ (secondo l’opinione consolidata in dottrina e in giurisprudenza: formazioni sociali, ex art. 2 Cost.). Ad oggi, nel nostro ordinamento manca una puntuale definizione giuridica e di conseguenza non è presente alcuna regolamentazione di ‘’tale fenomeno’’: la vigente legislazione, infatti, non possiede norme che regolamentano i rapporti personali e patrimoniali tra i conviventi more uxorio. Per tali ragioni, al momento, i rapporti patrimoniali nell’ambito dei rapporti di fatto sono regolati dal principio di base per il quale le prestazioni rese nell’ambito di una convivenza ‘’more uxorio’’ debbano essere riferite all’adempimento di un’obbligazione naturale, ex art. 2034 c.c.; ad ogni modo, ‘’quando le prestazioni eccedono la normale contribuzione, e si abbia un’improvvisa cessazione della convivenza, sembra maggioritaria l’opinione per cui sia possibile uscire dall’ambito dell’obbligazione naturale e rinvenire il fondamento nell’azione di arricchimento ingiustificato’’. L’arricchimento senza causa, ex artt. 2041 c.c. e ss., risulta essere una norma di chiusura <<della disciplina delle obbligazioni>>, che ‘’dispone-offre’’ uno strumento di tutela, esperibile in tutti i casi in cui tra soggetti si verifica uno spostamento patrimoniale, tale che uno subisca un danno e l’altro si arricchisca, ‘’senza giusta causa’’ e cioè senza che sussista una ragione che secondo l’ordinamento giustifichi il profitto o il vantaggio dell’arricchito. Da ciò discende, a carico dell’arricchito, un obbligo di indennizzo o di restituzione in favore del danneggiato, il quale è legittimato, quindi, ad esperire l’azione di ingiustificato arricchimento (v. Cass. civile, Sez. III, del 15 maggio 2009, n. 11330). L’azione in quaestio ha carattere generale perché è esperibile ‘’in una serie indeterminata di casi’’; ha, inoltre, carattere sussidiario perché è esercitabile solo quando al depauperato non spetti nessun’altra azione (basata su un contratto, su un fatto illecito o su un altro atto o fatto produttivo dell’obbligazione restitutoria o risarcitori), ex art. 2042 c.c.. Va puntualmente precisato che la misura dell’indennizzo, che consegue al valido esperimento dell’azione di ingiustificato arricchimento, va contenuta entro i limiti dell’arricchimento realizzato e, quindi, provato, ex art. 2697 c.c..

In relazione al caso di specie, è intervenuta recentemente la Corte di Cassazione, sentenza n. 15644 del 18 settembre 2012, affermando che: ‘’in caso di conto cointestato, l’ex convivente ha diritto al rimborso delle spese sostenute per l’acquisto di un immobile intestato ad uno solo dei due conviventi con denaro proveniente dal medesimo conto’’. La Corte, pertanto, accerta la sussistenza di un diritto di credito a favore dell’ex convivente nella misura del 50% degli esborsi a tali fini sostenuti con denaro comune delle parti provenienti dai conti cointestati. A dire della Cassazione, la richiesta presentata dalla donna non è diretta al riconoscimento di un acquisto comune, ma al pagamento di un credito costituito dal rimborso del contributo economico all’acquisto e alla ristrutturazione dell’immobile di cui solo l’altro convivente è divenuto proprietario.

Insomma, nonostante la mancata regolamentazione in materia!, è possibile configurare l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente more uxorio nei confronti dell’altro  in presenza di ‘’provate’’ prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza (ordinari doveri morali e sociali) e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza.

 

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l’ ”inadempimento” del contratto preliminare – nota a Cass., n. 14988 del 7 settembre del 2012

Tizio, nella veste di promissario acquirente di due immobili, evoca dinanzi al Tribunale i promissari venditori deducendo l’inadempimento dei convenuti in ordine al contratto di compravendita stipulato tempo prima. Va evidenziato che i venditori, al momento del contratto, oltre a pattuire il prezzo, garantivano la libertà degli immobili da qualsiasi peso o vincolo, mentre, in realtà, i medesimi beni risultavano gravati da ipoteche e pignoramenti e uno era anche occupato da un conduttore. Tanto premesso, Tizio chiede la condanna dei convenuti al rilascio degli immobili. Anche i promissari venditori, con atto di citazione, convengono in giudizio il signor Tizio, esponendo che l’unico inadempiente al contratto di vendita deve ritenersi l’acquirente, che non ha pagato l’intero prezzo pattuito, per cui chiedono che venga dichiarata la risoluzione del contratto. Il Tribunale, esaminata la quaestio, trasferisce i due appartamenti agli eredi dell’acquirente nel frattempo deceduto, subordinando il trasferimento al pagamento del residuo prezzo e all’accollo del residuo mutuo, condannando in solido i venditori al risarcimento dei danni in favore degli eredi dell’acquirente, nonché all’eliminazione delle garanzie e dei vincoli esistenti sui beni compravenduti (…). La Corte d’appello conferma il giudizio di primo grado. Promosso successivo ricorso in Cassazione: la Corte, in sintonia con le previe pronunce, rigetta il ricorso!

Ebbene, ‘’il contratto preliminare di vendita è fonte per il promittente alienante di un’obbligazione primaria di dare, cioè di far acquistare al promissario acquirente la proprietà del bene promesso, e di un’obbligazione secondaria di facere, strumentale all’adempimento della precedente, consistente nell’acconsentire alla conclusione del contratto definitivo’’ (Cass., Sez. unite, n. 11624 del 2006). Pertanto, dalla qualificazione del preliminare come contratto la cui causa è il programma prestazionale finale, si ricava che: ‘’integra inadempimento del preliminare (o ritardo nell’adempimento delle obbligazioni assunte) non solo il rifiuto opposto da una delle parti alla stipula del definitivo, ma anche l’omissione di tutte le attività necessarie per rendere il risultato finale utilmente conseguibile’’. Per tali ragioni, in relazione all’inadempimento dell’obbligo di contrarre, il Legislatore ha previsto specifici rimedi. Il primo rimedio è disposto dall’art. 2932 c.c., rubricato ‘’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto’’, in base al quale: se colui che è obbligato a concludere un contratto non adempie l’obbligazione, l’altra parte, qualora sia possibile e non sia escluso dal titolo, può ottenere una sentenza che produca gli ‘’stessi’’ effetti’’ del contratto non concluso (…). Un secondo rimedio, connesso al primo, lo si ritrova nella disciplina del risarcimento del danno per inadempimento o ritardo nell’adempimento delle obbligazioni assunte, ex art. 1223 c.c., rubricato ‘’risarcimento del danno’’, istituto secondo il quale: il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta. Trattasi nella specie di responsabilità contrattuale che comporta per legge il risarcimento di tutti i danni prevedibili al momento della stipula del contratto preliminare di compravendita.

La Suprema Corte di Cassazione, seconda Sezione civile, con una recente sentenza, n. 14988 del 7 settembre del 2012, afferma che: ‘’il destinatario di una promessa di vendita, ove la cosa sia gravata da vincoli reali della cui esistenza egli non sia stato edotto, può senz’altro esercitare, in luogo dell’azione di risoluzione del contratto per inadempimento, quella di esecuzione in forma specifica dell’obbligazione assunta dall’altra parte, ai sensi dell’art. 2932 c.c., nonché contestualmente la quanti minoris, in ragione della corrispondente diminuzione di valore del bene, oltre a richiedere il risarcimento dei danni’’. A dire della Corte, nel caso di specie: ‘’i venditori, che avevano garantito la libertà degli immobili da qualsiasi peso o vincolo, sono da ritenere inadempienti. Con la conseguenza che la questione circa la legittimità dell’interruzione dei pagamenti (da parte del promissario acquirente) rimane assorbita dalla statuizione con cui è stato disposto il trasferimento degli appartamenti ex art. 2932 c.c.’’. ‘’Nel trasferire la proprietà degli immobili si intende regolare correttamente il rapporto intercorso fra le parti in conformità e in attuazione delle pattuizioni negoziali, atteso che la sentenza costitutiva si sostituisce al contratto non concluso, dando efficacia al contratto preliminare’’.

Insomma, nella prassi si evidenzia una robusta tutela per il promissario acquirente, il quale, come abbiamo visto nel caso di specie!, dispone di un’azione ‘’allargata’’ di esatto adempimento.

 …Il possibile ‘’comportamento scorretto’’ di una delle parti, in violazione del principio di buona fede, ha assunto una crescente importanza nell’attuale prassi giurisprudenziale in ragione di una precisa tendenza evolutiva del diritto privato e più in generale dell’ordinamento nel suo complesso.

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rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto: la Cassazione fa chiarezza!

Tizio stipula un contratto preliminare mediante il quale si impegna a dare in permuta la proprietà di un terreno, di circa 4500 mq, all’impresa X; quest’ultima, a sua volta, si obbliga a far avere a Tizio la proprietà di 400 mq del fabbricato che di lì a poco intende costruire sul fondo. In pari data, l’impresa X procede all’acquisto del terreno dal proprietario tavolare, un tale sig. Caio. Successivamente, interviene il fallimento dell’impresa X: fase in cui il curatore fallimentare comunica lo scioglimento del contratto preliminare in quaestio, ex art. 72.4 L. Fall. (a nulla rilevando la causa avviata da Tizio, prima del fallimento, nei confronti dell’impresa X, ex art. 2932 c.c. (causa che viene interrotta)). Considerati gli accadimenti, Tizio agisce, dinanzi al Tribunale, per la risoluzione del contratto preliminare e la restituzione del terreno a favore proprio o, in via subordinata, a favore del proprietario tavolare (terzo che ha dato esecuzione al contratto, sig. Caio). Il Tribunale rigetta la domanda affermando che lo scioglimento del contratto provoca la caduta della promessa di vendita e che le pretese del contraente in bonis possono essere soddisfatte mediante insinuazione al passivo. Tizio propone, così, successivo ricorso in appello, ove chiede che venga pronunciata la nullità del contratto preliminare per indeterminatezza dell’oggetto (omessa determinazione del fondo e delle porzioni del fabbricato); in subordine, Tizio lamenta che la restituzione del fondo non può essere soddisfatta mediante l’insinuazione al passivo fallimentare, trattandosi di bene infungibile. La Corte d’appello incaricata dichiara inammissibile la domanda, perché nuova: in proposito, la Corte osserva di non poter rilevare d’ufficio la nullità del contratto, essendone stata richiesta inizialmente la risoluzione (…). Promosso ricorso in Cassazione: la Suprema Corte, a Sezioni unite, cassa la sentenza di secondo grado e fa chiarezza!

Ebbene, l’art. 1421 c.c., ‘’legittimazione all’azione di nullità’’, prevede che: ‘’salvo diverse disposizioni di legge, la nullità può essere fatta valere da chiunque vi ha interesse e può essere rilevata d’ufficio dal giudice’’. Tale disposizione ha, dunque, la rilevante funzione di impedire che il contratto nullo possa spiegare i suoi effetti. Ad ogni modo, se è pacifico che il giudice possa rilevare d’ufficio la nullità nel corso di giudizi promossi al fine di ottenere l’esecuzione del contratto, appare, invece, ‘’controverso’’ che lo stesso abbia tale facoltà anche nella diversa ipotesi in cui l’azione proposta sia di annullamento, o rescissione o risoluzione del contratto (cc.dd. impugnative contrattuali). L’orientamento giurisprudenziale maggioritario, ha da sempre interpretato restrittivamente l’art. 1421 c.c., ‘’invocando la necessità di coordinare il potere di rilevazione d’ufficio con i principi processuali della domanda (ex art. 99 c.p.c.) e della corrispondenza tra chiesto e pronunciato (ex art. 112 c.p.c.)’’. Secondo la giurisprudenza dominante, infatti, la rilevazione d’ufficio è uno strumento che l’ordinamento riconosce al giudice per implementare le difese del convenuto, e non per far ottenere all’attore più di quanto abbia chiesto. In numerosissime pronunce si evidenzia, per l’appunto, che ‘’laddove sia esperita azione di annullamento, risoluzione o rescissione la rilevazione d’ufficio della nullità favorirebbe in modo inammissibile l’attore attribuendogli una utilità diversa, e addirittura superiore, rispetto a quella dallo stesso richiesta’’ (c.d. vizio di ultrapetizione). Sul versante opposto all’orientamento giurisprudenziale si colloca la dottrina dominante (seguita da sporadiche pronunce della Cassazione): quest’ultima, infatti, evidenzia come le domande di annullamento, risoluzione o rescissione in quanto dirette ad eliminare gli effetti prodotti da un contratto presuppongono che lo stesso non sia nullo. In altri termini, secondo la dottrina prevalente, ‘’attraverso l’azione di annullamento, risoluzione o rescissione si fa valere un diritto potestativo di impugnativa contrattuale nascente dal contratto stesso’’. ‘’Ne deriva che la validità del contratto costituisce una questione pregiudiziale tanto laddove il giudizio sia intrapreso per ottenere l’esecuzione del contratto, quanto nelle ipotesi in cui sia promossa un’azione di annullamento, risoluzione o rescissione’’.

Con la sentenza n. 14828 del 4 settembre 2012 la Corte di Cassazione, Sezioni unite, fa chiarezza e affronta la questione tanto controversa in dottrina e giurisprudenza. A dire della Corte ‘’l’orientamento giurisprudenziale maggioritario (sopra sommariamente tratteggiato) non è più sostenibile’’. Le Sezioni Unite, con la recente pronuncia, giungono così ad affermare il principio secondo cui ‘’il giudice di merito ha il potere di rilevare, dai fatti allegati e provati o emergenti ex actis, ogni forma di nullità non soggetta a regime speciale e, provocato il contraddittorio sulla questione, deve rigettare la domanda di risoluzione, volta ad invocare la forza del contratto (…)’’. Pertanto, ‘’il giudice chiamato a pronunciarsi sulla risoluzione di un contratto, di cui emerge la nullità dai fatti allegati e provati e comunque ex actis, non può sottrarsi all’obbligo del rilievo (e ciò non conduce ad una sostituzione dell’azione proposta con l’altra)’’.

Insomma, si assiste ad un vero e proprio revirement: oggi, il giudice ha il potere-dovere di individuare un’eventuale patologia del contratto genetica e più radicale di quella azionata. Un mutamento giurisprudenziale, si potrebbe dire, atteso considerata l’essenziale categoria della nullità, la quale, va ricordato!, è posta a tutela di interessi pubblici, di valori fondamentali trascendenti rispetto alla posizione delle parti…

 

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un medico può farsi «pubblicità» tramite un volantino?

Il dottore Tizio viene sottoposto a formale procedimento disciplinare da parte dell’Ordine dei Medici del luogo in cui esercita la professione, in relazione alla diffusione di un volantino ove risultano pubblicizzate le prestazioni offerte dalla Cooperativa ‘’X’’ di dentisti, della quale lo stesso Tizio risulta direttore sanitario. L’accusa iniziale che viene formulata nei confronti del dottore è quella di avere tenuto un comportamento non conforme rispetto a quanto disposto dal codice deontologico. All’esito del procedimento disciplinare, la Commissione incaricata pronuncia a carico dell’incolpato la sanzione della sospensione (pari a 3 mesi) dall’esercizio della professione. Secondo la Commissione la diffusione dei volantini pubblicitari effettuata dal dentista risulta essere scorretta sul piano deontologico, in quanto lesiva del decoro e della dignità professionale ed, ulteriormente, ispirata ad una realtà di esclusiva natura commerciale. La Commissione sostiene, inoltre, che il messaggio diffuso, mediante volantino, sia falso nella parte in cui postula l’esistenza di una tariffa minima nazionale, oramai abrogata. Secondo la Commissione il mero richiamo a quei minimi tariffari risulta essere ‘’biasimevole’’ (…). Tizio, per contrastare quanto affermato in sede disciplinare ricorre presso la Corte di Cassazione formulando differenti motivi a sostegno della sua correttezza professionale: nel primo motivo, denuncia espressamente l’avvenuta violazione del diritto comunitario originario (Trattato UE), la violazione della Direttiva 2006/123/CE (diritto comunitario derivato), nonché rilevanti vizi motivazionali; nel secondo motivo, il ricorrente denuncia la violazione della Legge interna nr. 248/06. La Corte di Cassazione accoglie il ricorso del dentista e la decisione impugnata viene cassata.

Ebbene, le disposizioni comunitarie, richiamate da Tizio in sede di ricorso, risultano ispirate alla massima liberalizzazione delle prestazioni di servizi. In tal senso, una nota sentenza della Corte di Giustizia UE, 05 aprile 2011, causa C-119/09, segna un importante ‘’punto a favore’’ verso la liberalizzazione delle comunicazioni commerciali dei professionisti, a sostegno del convincimento che la pubblicità sia utile per tutelare i consumatori. La Corte di Giustizia mediante quest’ultima pronuncia sottolinea, soprattutto, l’obbligo sancito, per gli Stati Membri della Comunità, dall’art. 24.1 della Direttiva 2006/123/CE di sopprimere tutti i divieti in materia di comunicazioni commerciali delle professioni regolamentate. Nello specifico, la Direttiva 2006/123/CE, conosciuta come ‘’Direttiva Servizi’’, mira ad agevolare nel mercato interno all’Unione la libertà di stabilimento dei prestatori di servizi e mira altresì ad allargare la scelta offerta ai destinatari dei servizi, migliorandone la qualità in favore dei consumatori e delle imprese utenti. Focalizzando l’attenzione al panorama domestico, è semplice ricostruire l’evoluzione normativa concretizzatisi nell’ambito della pubblicità professionale. Ab origine, la Legge nr. 175 del 1992 non conteneva, in realtà, un divieto di pubblicità ma ne regolava l’esercizio, limitando ‘’il mezzo’’ pubblicitario e ‘’l’oggetto’’ della comunicazione pubblicitaria. Il Decreto ”Bersani”, convertito in Legge, nr. 248/2006, in sintonia con il panorama normativo comunitario, ha rimosso tutto ciò che può intendersi come divieto, ‘’liberalizzando, per l’appunto, la pubblicità, anche in ambito sanitario’’. La novella in quaestio ‘’ha ampliato’’ l’oggetto della comunicazione pubblicitaria, consentendo anche di comunicare le peculiarità del servizio offerto e il prezzo delle relative prestazioni. In tal senso, è essenziale evidenziare la funzione riconosciuta alla deontologia professionale e il ruolo che possono svolgere gli Ordini professionali. Al riguardo, la Direttiva 2006/123/CE invita gli Stati Membri a ‘’favorire’’ l’elaborazione di regole e quindi di codici di condotta da parte di Ordini, organismi o associazioni professionali. Per tali ragioni, in merito al controllo sulla pubblicità, l’Ordine non può esimersi dall’intervenire nel caso in cui rilevi forme di pubblicità ingannevole, ossia ‘’qualsiasi pubblicità che in qualunque modo induca in errore o possa indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, leda o possa ledere un concorrente’’, ex art. 20 D.lgs. nr. 206/2005 (in tal senso, si rinvia ai D.lgs. nr. 145/07, 146/07). In combinato disposto, l’art. 21 del medesimo Codice del Consumo stabilisce che ‘’per determinare se la pubblicità sia ingannevole se ne devono considerare tutti gli elementi (…)’’. Per completare la sintetica analisi normativa, è bene evidenziare che ‘’il Decreto Bersani trova applicazione anche per le strutture sanitarie gestite da società’’. Oggi, ‘’si rileva totale equiparazione tra professionisti e società sotto il profilo pubblicitario e nuova spinta per la concorrenza, sempre all’interno dei canoni di trasparenza e veridicità’’ (in tal senso, Cass. nr. 3717/12).

Secondo la Corte di Cassazione, III sezione civile, sentenza nr. 11816 del 2012, nella fattispecie in esame, i differenti motivi proposti da Tizio appaiono fondati: ‘’le argomentazioni addotte dalla Commissione disciplinare risultano infatti speciose e tautologiche. L’assunto dell’ambiguità e del carattere ingannevole del riferimento ad una tariffa oramai abrogata è all’evidenza viziato da un’insopprimibile insofferenza verso il ricorso al messaggio pubblicitario da parte dell’esercente la professione sanitaria. Non si vede, infatti, come quel richiamo, che necessariamente presuppone, piuttosto che smentire, il carattere puramente orientativo della tariffa, possa confliggere con la trasparenza e la veridicità della comunicazione. Ne ha troppo senso la valorizzazione, in chiave di addebito, della genericità della promessa riduzione, in quanto non riferita a singole prestazioni, potendo ciò incidere solo sulla capacità di persuasione del messaggio, che è profilo certamente estraneo alla sfera di intervento degli organi disciplinari’’. Pertanto, prosegue la Corte, ‘’le ragioni addotte dalla Commissione a sostegno della negativa valutazione formulata al riguardo sono giuridicamente scorrette e logicamente inappaganti’’.

Insomma, grazie all’avvenuta evoluzione normativa ‘’i prezzi delle prestazioni’’ sono oggi liberi: ogni dentista può applicare il prezzo che meglio crede, ogni dentista tramite la pubblicità può informare quali servizi offre, in quale modo li offre e a quale prezzo. In sintonia, gli Ordini professionali vigilano sul rispetto delle regole di correttezza affinchè la pubblicità avvenga secondo criteri di trasparenza e veridicità delle qualifiche professionali e di non equivocità, a tutela dell’interesse dell’utenza. Ma ci si chiede: nonostante si attui una concreta concorrenza-liberalizzazione ed un parallelo controllo su di essa, oggi la pubblicità risulta ‘’compiutamente’’ regolamentata? Attualmente, esistono disposizioni specifiche relative alla pubblicità sanitaria online o vengono applicate norme generali valide per tutti i media?

 …‘’La tecnologia avanza più velocemente rispetto agli aspetti legislativi’’: tutto ciò potrebbe comportare una mera ‘’sovrapposizione-contrasto’’ tra etica medica ed etica di marketing!

 

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che succede se la domanda proposta in giudizio non corrisponde a quella oggetto di mediazione?

Tizio, parte convenuta in giudizio, eccepisce, in via pregiudiziale, l’improcedibilità dell’azione proposta dagli attori, i signori Caia e Sempronio. Secondo il convenuto, per l’appunto, non vi sarebbe corrispondenza ed identità fra le domande contenute nell’istanza di mediazione prodromica ed obbligatoria (D.Lgs. nr. 28 del 2010) e le domande proposte formalmente nel giudizio in corso. Nello specifico, all’interno dell’istanza di mediazione viene chiesto: 1) l’accertamento della sussistenza del diritto di servitù gravante sul fondo servente di proprietà del signor Tizio a favore del fondo di proprietà degli istanti; 2) la fissazione delle modalità di esercizio della servitù secondo determinati criteri (…); 3) il riconoscimento di una somma da determinare in via equitativa, a ristoro dei disagi patiti. Attivato il processo civile, nell’atto di citazione, successivo, i medesimi attori richiedono: 1) l’accertamento della regolare costituzione del diritto di servitù di passaggio a favore del fondo di loro proprietà come previsto in atto notarile o, in subordine, a seguito del decorso del ventennio necessario per usucapire detto diritto reale, ovvero per destinazione del padre di famiglia; 2) ulteriori domande di determinazione dell’esercizio di detto diritto; 3) il relativo risarcimento dei danni. Il Tribunale incaricato, analizzata la quaestio, rigetta l’eccezione di improcedibilità dell’azione sollevata dal convenuto.

Ebbene, l’art. 5 del D.L.gs. nr. 28 del 4 marzo 2010 prevede che: ‘’chi intenda esercitare in giudizio un’azione relativa ad una controversia in materia di diritti reali è tenuto, preliminarmente, ad esperire il procedimento di mediazione (…)’’. L’art. 4 del medesimo Decreto afferma che: ‘’l’istanza deve contenere l’indicazione dell’oggetto e delle ragioni della pretesa ai fini di consentire alle parti di raggiungere un accordo conciliativo in merito’’. Un’istanza, quindi, estremamente ‘’agile’’ e ‘’snella’’ che non richiede, ex legge, uno studio particolare ma solo poche indicazioni sostanziali. In tal senso, rileva, comunque!, un’analogia normativa, non casuale, con l’art. 125 c.p.c. (in punto di: personae, petitum, causa petendi), ‘’fatta evidente eccezione per gli elementi di diritto!’’. A rigore, quindi, si instaura ‘’un’armonia’’ tra i fatti narrati in sede di mediazione e i fatti esposti in sede processuale; in caso contrario si concretizza processualmente una palese improcedibilità. Ponendo attenzione all’aspetto pragmatico, della procedura di mediazione in quaestio, non risulta essere obbligatoria l’assistenza tecnica di un difensore, per cui ne consegue che le istanze/ domande proposte in tale sede non necessitano di una formulazione esatta sotto il profilo tecnico-giuridico. Ad ogni modo, dal D.Lgs. nr. 28/10 si evince, espressamente, che in sede di mediazione non è necessario inquadrare giuridicamente il fatto perché l’istanza di mediazione non richiede anche l’indicazione degli elementi di diritto, come invece accade per la citazione, il ricorso e gli atti in generale (ex art. 125 c.p.c.). Sempre in riferimento ala caso di specie, sotto il profilo sostanziale-processuale, inoltre, occorre rilevare la nota distinzione tra i diritti obbligatori-relativi e i diritti reali (le servitù prediali p.es.): ebbene, mentre i diritti obbligatori per la loro identificazione necessitano del titolo, i diritti reali si identificano, processualmente!, per mezzo della sola indicazione del proprio contenuto.

Ad affermare l’orientamento normativo, appena descritto, è lo stesso Tribunale di Mantova, il Quale recentemente con un’ordinanza, nr.rg. 158/12, ha espressamento dichiarato che, nel caso di specie: ‘’il diritto reale di servitù appartiene alla categoria dei diritti reali cc.dd. autodeterminati, i quali si identificano in base alla sola identificazione del contenuto e non per il titolo che ne costituisce la fonte (…), per cui come è noto la modificazione del titolo anche in corso di causa non costituisce domanda nuova (…)’’.  A parere del giudice, dunque, ‘’sulla base di tale principio, non costituiscono domande nuove i diversi titoli allegati in atto di citazione a fondamento della domanda di accertamento proposto’’!

Insomma, l’istituto giuridico della mediazione muta la direzione della controversia: il ruolo dell’istanza non è quello di tracciare una valutazione tecnico-‘’giusta’’, ma di raggiungere una soluzione ‘’partecipata’’, da entrambe le parti (sostanziale autonomia tra le parti), nella controversia. Nonostante il compito del mediatore sia quello di facilitare le conciliazioni spontanee degli interessi in conflitto (che assicurino ad entrambe le parti un risultato pienamente soddisfacente) e di ridurre, quindi, il numero di nuove cause giudiziarie, sorgono delle riflessioni ‘’contrastanti’’ in merito. Considerata la normativa di riferimento e le differenti pronunce in materia si può affermare che l’istituto giuridico della mediazione potrebbe contenere un maggiore ‘’vantaggio’’ se venisse utilizzato per attuare, in primis, un concreto primo esame della situazione litigiosa (…).  Nello specifico, il relativo titolo su cui si fonda l’azione (causa petendi) dovrebbe rilevare tecnicamente, anche, all’interno dell’istanza di mediazione e si dovrebbe porre ‘’in armonia’’ con l’eventuale causa petendi successiva, presentata in sede processuale. In ragione di ciò, l’atto introduttivo della mediazione, dal punto di vista processuale, non dovrebbe essere così tanto autonomo, libero, ‘’negoziale’’. A questo punto ci si domanda: l’istituto della mediazione, se coerentemente costruito, potrebbe offrire alle parti, anche, una ‘’svincolata’’, ‘’alternativa’’ ma soprattutto ‘’giusta’’ valutazione della propria ‘’posizione giuridica’’ prima del processo?

 …Pensando al concetto esteso di giustizia, di legalità, si auspica un necessario coordinamento tra l’attività svolta avanti il mediatore e quella che ha luogo davanti al giudice: è questo anche, e soprattutto, in punto di diritto!

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la responsabilità del datore di lavoro e del lavoratore in caso di decesso del secondo

Tizio perde la vita a causa di un infortunio sul lavoro: nello svolgimento delle sue mansioni, alle dipendenze di Caio, rimane folgorato nel tentativo di operare un collegamento tra la betoniera (presente nel cantiere) e il cavo di alimentazione, con la corrente in tensione. Il Tribunale di primo grado, competente, dichiara la responsabilità del datore di lavoro per l’infortunio mortale occorso al suo dipendente Tizio. A seguire, la Corte d’appello, chiamata a pronunciarsi, riconosce una responsabilità di tipo concorrente tra datore di lavoro e lavoratore. Caio decide, così, di proporre successivo ricorso in Cassazione: Corte che conferma la sentenza emessa in secondo grado e, pertanto, rigetta il ricorso.

In tema di responsabilità civile, il referente normativo del nesso di causalità va individuato nelle disposizioni del codice penale, ex artt. 40 e 41 c.p.. Ad ogni modo, appare chiaro che la causalità civile è diversa da quella penale perché è diverso il sistema e la ratio che lo anima, perché sono diverse le regole che governano la prova e perché soprattutto sono diversi i beni tutelati. ‘’Ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola probatoria in quanto nel primo vige la regola della prova oltre il ragionevole dubbio, mentre nel secondo vige la regola del più probabile che non’’ (Cass., Sez. Unite, 11  gennaio 2008, nr. 581, 582 e 584). Ebbene, con la nozione di causalità si intende ‘’l’insieme delle condizioni pratico-fattuali antecedenti, sotto il profilo spazio-temporale, ad un determinato evento naturalistico ed allo stesso ricollegate in base ad una ‘’uniformità regolare’’ (…). Il nesso di causalità si inquadra nell’ambito dell’elemento oggettivo, costituendo il fondamentale collegamento tra la condotta e l’evento ed integrando ‘’l’imputazione oggettiva del fatto al soggetto agente’’. ‘’Occorre, cioè, che l’evento concreto si possa riconnettere alla condotta di un determinato soggetto, in modo che possa essergli attribuita la responsabilità di averlo procurato!’’. In tal senso: ‘’nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipenda l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione (…)’’, ex art. 40 c.p.. In combinato disposto, l’art. 41.2 c.p. afferma che: ‘’Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento (…)’’. Più specificatamente, l’istituto del concorso di cause, disciplinato dall’articolo appena menzionato, stabilisce ‘’una presunzione di pari valenza nel concorso di una pluralità di cause che appaiono idonee a produrre l’evento; tale presunzione viene vinta solo dalla dimostrazione che ‘’una di esse sia stata da sola idonea a far realizzare l’evento, si da far degradare le altre cause a mere occasioni dell’evento, senza alcuna propria autonoma efficienza’’. Quest’ultima è una norma di fondamentale importanza all’interno dell’assetto normativo che il codice ha inteso attribuire al tema della causalità e lo scopo della disposizione, secondo l’orientamento prevalente, è quello di temperare il rigore derivante dalla meccanica applicazione del principio generale contenuto nel primo comma dell’art. 41 c.p.. Pertanto, perché possa parlarsi di causa sopravvenuta idonea ad escludere il rapporto di causalità, o la sua interruzione come altrimenti si dice, ‘’si deve trattare di un percorso causale ricollegato all’azione o omissione dell’agente ma completamente atipico, di carattere assolutamente anomalo ed eccezionale, di un evento che non si verifichi se non in casi del tutto imprevedibili a seguito della causa presupposta’’. Quando si parla di infortunio sul lavoro e quindi di relativa condotta del lavoratore: si può dimostrare l’abnormità del comportamento del lavoratore infortunato e, quindi, si può provare che proprio l’abnormità abbia dato causa all’evento; questa caratteristica della condotta del lavoratore infortunato è idonea ad interrompere il nesso di causalità quale causa da sola sopravvenuta, da sola sufficiente a determinare l’evento in base al già ricordato art. 41.2 c.p.. Volgendo l’attenzione, parallelamente, alla condotta del datore di lavoro: è essenziale richiamare l’art. 2087 c.c., rubricato ‘’tutela delle condizioni di lavoro’’: ‘’il quale possiede una funzione sussidiaria ed integrativa delle misure protettive da adottare a garanzia del lavoratore, tale disposizione abbraccia ogni tipo di misura utile a tutelare il diritto soggettivo dei lavoratori ad operare in un ambiente esente da rischi’’ (v. Corte Costituzionale, sent, nr. 399 del 1996). Quest’ultima norma, di carattere generale, evidenzia che i datori di lavoro sono tenuti a ‘’proteggere’’ i lavoratori anche nei confronti di atti ‘’imprudenti’’ che i medesimi possono compiere nello svolgimento delle loro mansioni. Sul datore di lavoro, dunque, ‘’gravano sia il generale obbligo di neminem laedere, ex art. 2043 c.c. (responsabilità extracontrattuale), sia il più specifico obbligo di protezione dell’integrità psico-fisica del lavoratore, ex art. 2087 c.c. ad integrazione ex legge delle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro (responsabilità contrattuale)’’. L’art. 2087 c.c. ‘’ha il compito di supplire alle lacune di una normativa che non può prevedere ogni fattore di rischio ed ha, perciò, una funzione sussidiaria di adeguamento al caso concreto’’. Il Giudice delle Leggi ha, inoltre, affermato che non  sono soltanto le norme costituzionali (artt. 32 e 41.2 Cost.) ad imporre ai datori di lavoro la massima attenzione per la protezione della salute e dell’integrità fisica dei lavoratori, in quanto numerose altre disposizioni, assumono in proposito valenza decisiva (…). E’ necessario che: ‘’chi si avvalga di una prestazione lavorativa, eseguita in stato di subordinazione, anteponga al proprio legittimo profitto la sicurezza di chi tale prestazione esegua, adottando ogni cautela che lo specifico contesto lavorativo richieda (Cass., nr. 17314 del 2004).

Recentemente, la Corte di Cassazione (Cass. Civile, sentenza nr. 6337 del 2012) si è espressa sull’ennesimo infortunio sul lavoro affermando (nel caso di specie) che: ‘’l’attività che ha determinato l’infortunio mortale, cioè il tentativo di operare un collegamento diretto tra la betoniera ed il cavo di alimentazione, non rientra nelle mansioni del lavoratore, con qualifica di manovale generico’’. (Si delinea, così, una condotta del lavoratore che ‘’per certi versi’’ può apparire abnorme, arbitraria ed imprevedibile). A dire della Corte, però!, nel caso di specie, ‘’il datore di lavoro ha omesso la predisposizione di un interruttore differenziale, pure in mancanza di una specifica disposizione antinfortunistica in tal senso’’. Secondo la Corte, il ricorrente, datore di lavoro, ‘’avrebbe concorso al 50 per cento alla verificazione dell’infortunio mortale, in quanto lo stesso non ha adottato alcuna misura di prevenzione né specifica, né generica’’.

Insomma, il fenomeno infortunistico, oltre a produrre costi sociali, rileva principalmente per la sua dimensione umana. Il datore di lavoro è, e rimane, comunque, il titolare della posizione di garanzia poiché ha l’obbligo di effettuare, in primis, la valutazione dei rischi e di elaborare successivamente a tale analisi le misure di prevenzione e protezione ad hoc. Ma ci si domanda: oggi, esiste in concreto un’adeguata e continua formazione sulla sicurezza? Esiste un costante controllo, super partes, su di essa? Solo incrementando un’adeguata e costante preparazione dei datori di lavoro si possono formare-istruire gli stessi lavoratori e, quindi, ridurre i rischi di infortuni. Dovrebbero essere costituiti dei Modelli di Organizzazione e di Gestione (MOG) ‘’esemplari, idonei e specifici’’ (contenenti una serie di precise azioni, regole, norme, direttive) e il datore di lavoro dovrebbe essere il reale artefice-educatore dei medesimi modelli.

…La vita e la salute, dei lavoratori, sono beni inestimabili!

quando si finisce fuori strada a causa di una buca sull’autostrada si può chiedere il risarcimento?

Tizio, mentre viaggia con la sua automobile sull’autostrada Salerno – Reggio Calabria, a causa di una grossa buca presente nel tessuto stradale, esce fuori strada, urtando il guard rail e riportando evidenti danni. Tizio promuove, così, formale domanda dinanzi al Tribunale, chiedendo espressamente alla X S.p.a., ritualmente convenuta, il risarcimento del danno per il sinistro causato dalla buca. Il Tribunale preposto rigetta la richiesta dell’attore. Promosso ricorso in appello: la Corte conferma la pronuncia di primo grado, ascrivendo la responsabilità esclusiva a carico dell’attore-automobilista. Tizio propone successivo ricorso in Cassazione: la Quale afferma espressamente che il medesimo ricorso risulta essere inammissibile…

Ebbene, l’art. 2051 c.c., ‘’ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose in custodia, salvo che provi il caso fortuito’’, ‘’è destinato a regolare le ipotesi in cui la res abbia assunto ai fini della produzione del danno un’autonoma efficienza causale, indipendentemente dall’azione dell’uomo (…)’’. L’orientamento iniziale, in materia, prevede una presunzione, iuris tantum, di colpa a carico del custode. In parallelo, un indirizzo giurisprudenziale, divenuto prevalente negli ultimi anni, afferma che: ‘’la prova dell’intervento di un fatto esterno imprevedibile ed inevitabile (forza maggiore, fatto del terzo o fatto del danneggiato) cui è eziologicamente riconducibile il danno vale sostanzialmente ad attestare l’assenza di colpa in capo al custode’’ (Cass., Sez. III, 20 febbraio 2006, nr. 3651). Dunque, secondo questo iniziale indirizzo, si ha la responsabilità del custode laddove questi non riesca a fornire la prova del fortuito: responsabilità, quindi, fondata su un giudizio di colpa. La dottrina maggioritaria ha, fortemente, criticato quest’ultima impostazione, che ravvisa nell’art. 2051 c.c. una presunzione di colpa del custode fondata sul dovere di vigilanza della cosa. In particolare, si è osservato che ‘’il profilo del comportamento del responsabile è di per sé estraneo alla natura dell’imputazione; né può esservi reintrodotto attraverso la figura della presunzione di colpa per mancata diligenza della custodia, giacchè la nozione di caso fortuito è generalmente legata alla valutazione di un fattore meramente oggettivo capace di elidere il nesso causale tra fatto e danno’’. E’ stata così affermata la natura oggettiva della responsabilità da cose in custodia. La giurisprudenza, con una pronuncia delle Sezioni unite della Corte di Cassazione del 1991 (Cassazione 11 gennaio 1991, nr. 12019), evidenzia che: ‘’il solo limite previsto dall’art. 2051 c.c. è l’esistenza del caso fortuito ed in genere si esclude che il limite del fortuito si identifichi con l’assenza di colpa. Potrebbe, quindi, essere affermata la natura oggettiva della responsabilità per danno da cose in custodia (…)’’. L’effetto della sentenza, appena espressa, è stato ‘’dirompente’’, producendo un definitivo cambiamento in giurisprudenza. In relazione all’orientamento vigente, si segnalano ulteriori due sentenze, cc.dd. ‘’gemelle’’, della Corte di Cassazione, depositate il 6 luglio 2006 (nr. 15383 e 15384), le quali affermano che: ‘’la responsabilità ex art. 2051 c.c. per i danni cagionati da cose in custodia ha carattere oggettivo e, perché tale possibilità possa configurarsi in concreto, è sufficiente che sussista il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno arrecato, senza che rilevi al riguardo la condotta del custode e l’osservanza o meno di un obbligo di vigilanza, per cui tale tipo di responsabilità è esclusa solo dal caso fortuito; fattore che attiene al profilo causale dell’evento, riconducibile ad un elemento esterno, recante i caratteri dell’oggettiva imprevedibilità ed inevitabilità e che può essere costituito anche dal fatto del terzo o dello stesso danneggiato (…)’’. Inoltre, in relazione alla prova del caso fortuito emerge che: ‘’può essere fornita anche mediante presunzioni semplici, purchè chiare, precise e concordanti: la corretta manutenzione del beneunita ad ulteriori circostanze idonee a far ritenere la ricorrenza di un fattore causale estraneo alla sfera del custode sono sufficienti a far ritenere raggiunta la prova del caso fortuito’’.

Recentemente, la Corte di Cassazione, Sez. VI, ordinanza nr. 10220/2012, ha affermato che: ‘’la velocità eccessiva, rispetto allo stato dei luoghi, realizza una condotta imprudente: ‘’nessun risarcimento’’ per l’automobilista che si ritrova l’auto danneggiata dopo essere finito in una grossa buca’’. A dire della Corte, nel caso specifico, ‘’non vi sono elementi per fondare obiettivamente un giudizio di colpa della S.p.a. autostrade, sul relativo tempo trascorso fra l’asserita comunicazione dell’esistenza della buca e l’ora dell’incidente, non essendovi alcun dato che consenta di valutare quali siano i tempi tecnici adeguati (…)’’.   

Insomma, ad oggi, si parla di ‘’rischio’’ da custodia, più che di colpa da custodia. Ma ci si chiede: il richiedere il caso fortuito, quale prova liberatoria, equivale a ritenere ‘’insignificante’’, nel senso esteso del termine, ogni tipo di colpa soggettiva? Nella gestione di una cosa ‘’essenziale-collettiva’’, come un’autostrada!, le regole tecnico-cautelari, relative ad una corretta manutenzione del bene, imposte al custode dovrebbero essere, in qualche modo, più intense? La collettività, gli utenti potrebbero ‘’aspirare’’ ad un controllo assiduo della sede autostradale da parte del/i custode/i incaricato/i?

 

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la Corte di Giustizia europea fa chiarezza sulle prestazioni previdenziali erogabili dagli Stati membri

I signori Tizio e Sempronio di cittadinanza polacca, con relativo domicilio in Polonia, risultano essere coperti dal regime previdenziale di tale Stato. Ebbene, per un periodo di tempo, il sig. Tizio, padre di due figli e agricoltore autonomo, lavora ‘’stagionalmente’’ presso un’impresa orticola in Germania; anche, il sig. Sempronio, padre di una figlia, svolge un’esperienza lavorativa ‘’distaccata’’ in Germania, di circa dieci mesi. Entrambi, lavoratori nello Stato tedesco, chiedono di essere integralmente assoggettati all’imposta, interna, sui redditi: domandando, successivamente, il relativo versamento delle prestazioni per i figli a carico (di un importo pari ad euro 154,00 per figlio). Le loro, rispettive, domande vengono respinte con una medesima motivazione: ‘’(…) in base al Regolamento (ex CEE) nr. 1408/1971, in tali circostanze, dovrebbe trovare applicazione il diritto polacco e non il diritto tedesco’’. La Corte tributaria federale tedesca, chiamata in causa, infatti, pone alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea i seguenti due quesiti: 1) ‘’il diritto dell’Unione Europea impedisce, in qualche modo, alla stessa Germania di concedere assegni familiari?’’; 2) ‘’uno Stato membro può escludere il diritto agli assegni familiari qualora assegni analoghi possano essere percepiti in un altro Stato membro?’’ La Corte di Giustizia coglie l’occasione per fare chiarezza!

Ebbene, il Regolamento 1408/1971, agli artt. 13 e ss., rubricato ‘’applicazione dei regimi di previdenza sociale ai lavoratori emigranti’’, afferma che: ‘’i lavoratori sono soggetti alla legislazione dello Stato membro in cui sono occupati’’. ‘’Tuttavia, coloro che sono distaccati in un altro Stato membro al fine di svolgervi un lavoro (lavoratori ‘’distaccati’’), o di svolgervi un lavoro temporaneo (lavoratori ‘’temporanei’’), rimangono soggetti alla legislazione in materia di previdenza sociale del paese in cui lavorano ‘’abitualmente’’, e non a quella dello Stato membro in cui lavorano effettivamente’’ (…). L’intento della disciplina è quello di consentire ai lavoratori ‘’in mobilità-in circolazione’’ di continuare a godere delle varie prestazioni in qualunque Stato membro si trovino a risiedere o a lavorare. Il Reg. 1408/1971 concepisce, quindi, ‘’la sicurezza sociale’’ come un mezzo per la realizzazione della libera circolazione della stessa mano d’opera. Il Legislatore comunitario, adottando ‘’i mezzi necessari per l’instaurazione della libera circolazione dei lavoratori’’, si pone in stretta armonia con l’art. 48 TFUE. Quest’ultima disposizione, ‘’cd. di mero coordinamento’’, afferma, infatti, che: ‘’il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, adottano in materia di sicurezza sociale le misure necessarie per l’instaurazione della libera circolazione dei lavoratori, attuando in particolare un sistema che consenta di assicurare ai lavoratori migranti dipendenti e autonomi e ai loro aventi diritto:  le differenti prestazioni (…)’’. Mediante il Reg. in quaestio si intende, dunque, garantire parità di trattamento tra i lavoratori migranti e nazionali e ‘’assicurare al lavoratore che si sposta all’interno dell’Unione che i propri vantaggi previdenziali lo seguiranno nei suoi spostamenti’’. In tale ambito, il diritto tedesco, Legge relativa all’imposta sui redditi ‘’EStG’’, artt. 62 e ss., dispone diversamente!: ‘’le prestazioni per i figli a carico’’ non trovano, per l’appunto, effettiva applicazione nel settore coperto dal Reg. 1408/71. Una sentenza del 20 maggio 2008, Bosmann (C-352/06 ), successiva ad alcuni ricorsi dinanzi al Bundesfinanzhof, fissa, nei suoi punti 29 e ss., un utile criterio: ‘’uno Stato membro, seppure non competente  in forza degli artt. 13 e ss. del Reg. in quaestio, ha nondimeno la facoltà di concedere prestazioni familiari ad un lavoratore emigrante in applicazione del suo diritto nazionale (…)’’.

Di recente, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con la sentenza del 12 giugno del 2012, cause riunite C-611/10, ricorda che ‘’il diritto dell’Unione Europea mira in particolare a far sì che gli interessati siano, in linea di principio, soggetti al regime previdenziale di un solo Stato membro, in modo da evitare il cumulo di legislazioni nazionali applicabili e le complicazioni che possono derivarne’’. A giudizio della medesima Corte ‘’la circostanza che i signori Tizio e Sempronio non siano decaduti dai loro diritti alle prestazioni previdenziali, né abbiano subito una riduzione dell’importo delle medesime per il fatto di avere esercitato il loro diritto alla libera circolazione, poiché hanno conservato il loro diritto a prestazioni familiari in Polonia, non priva lo Stato membro non competente (in questo caso la Germania) della possibilità di concedere siffatte prestazioni’’. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ne deduce che ‘’un’interpretazione del Regolamento 1408/71, che consente ad uno Stato membro di concedere prestazioni familiari in una situazione come quella in esame, non possa essere esclusa!, poichè è atta a contribuire al miglioramento del tenore di vita e delle condizioni lavorative dei lavoratori emigranti, concedendo loro una tutela previdenziale più ampia! di quella risultante dall’applicazione del summenzionato Regolamento’’. Per tali ragioni, ‘’la Repubblica Federale tedesca ha la facoltà, ma non l’obbligo, di concedere prestazioni per i figli a carico, conformemente al suo diritto nazionale, ad un lavoratore distaccato che svolge un lavoro temporaneo sul suo territorio (…)’’.

Insomma, dall’esame delle differenti normative (comunitaria e nazionali), in materia di sicurezza sociale, emergerebbe abbastanza chiaramente come le garanzie offerte dal diritto comunitario operino in maniera ‘’approssimata’’ a seconda del tipo di prestazione (…e, quindi, a seconda del beneficiario). Più specificatamente, ci si domanda: in che modo si potrebbe attuare un ‘’eguale’’ livello di coordinamento dei regimi nazionali di sicurezza sociale per le differenti tipologie di prestazioni?

 …L’intento sarebbe quello di predisporre una tutela sociale ‘’transnazionale’’ ad hoc, nelle sue differenti prestazioni, per rimuovere, così, gli evidenti intralci che il principio di territorialità riesce ancora oggi a porre alla libertà di circolazione dei lavoratori.

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le responsabilità delle banche per protesto illegittimo – osservazioni a margine di Cass., 31 maggio 2012, nr. 8787

Con atto di citazione, Caio, Tizio e Sempronio convengono in giudizio, dinanzi al tribunale, la Banca s.p.a. per sentirla condannare al risarcimento dei danni subiti a seguito del protesto di quattro assegni tratti sul conto corrente nr. x, ad essi cointestato presso una filiale della predetta banca; assegni facenti parte di un libretto smarrito e dunque illecitamente utilizzati da ignoti. Gli attori, in sede giudiziale, deducono l’erroneità dei quattro protesti: più specificatamente, dichiarano che gli assegni sono stati smarriti e la firma di traenza risulta essere apocrifa. In tal senso, gli attori medesimi aggiungono che l’elevazione dei protesti andava condotta, da subito, nei confronti dei soggetti che avevano firmato i titoli risultando la loro firma leggibile. L’istituto di credito, convenuto, si costituisce assumendo la correttezza dei protesti dei titoli smarriti ed evidenziando che i correntisti non hanno custodito i moduli con la dovuta diligenza, come prescritto nelle condizioni generali di conto corrente e chiedendo pertanto il rigetto della domanda. Il tribunale incaricato rigetta, così, la domanda degli attori e compensa le spese processuali. In sede d’appello, la Corte conferma la pronuncia di primo grado e rigetta anch’essa il ricorso promosso dai signori Tizio, Caio e Sempronio. Avverso quest’ultima sentenza, i medesimi ricorrenti propongono la loro ‘’domanda’’ in Cassazione: la Quale cassa! la medesima sentenza con rinvio alla Corte d’appello, che si atterrà nel decidere ai principi di diritto enunciati e che provvederà anche alla liquidazione delle spese.

Ebbene, il protesto è un atto pubblico mediante il quale viene accertato, in modo formale, da parte di un notaio o di un ufficiale giudiziario il mancato pagamento di un assegno (inadempimento inerente l’assegno). Il protesto risulta essere indispensabile perché consente a chi ha presentato l’assegno e non abbia ricevuto il pagamento di potere agire per via giudiziaria per ottenere la somma riportata nel titolo di credito (…). Sotto il profilo tecnico-normativo, il Regio Decreto del 21 dicembre 1933, nr. 1736, ‘’Dispozioni sull’assegno bancario, sull’assegno circolare e su alcuni titoli speciali dell’Istituto di emissione (…)’’, ora Legge nr. 349 del 1973, all’art. 63 prevede che ‘’il protesto deve contenere: 1) la data; 2) il nome del richiedente; 3) l’indicazione del luogo in cui è fatto e la menzione delle ricerche eseguite; 4) l’oggetto delle richieste, il nome della persona richiesta, le risposte avute o i motivi pei quali non se ne ebbe alcuna; 5) la sottoscrizione del notaio o dell’ufficiale giudiziario o del segretario comunale. Il protesto per atto separato deve contenere la trascrizione dell’assegno bancario. Per più assegni da pagarsi dalla stessa persona nello stesso luogo, il creditore può levare protesto con unico atto separato’’. Nella prassi, in caso di assegno protestato, gli istituti di credito ‘’corrono ai ripari’’: rilasciando ‘’una dichiarazione’’ in cui si attesta l’avvenuta presentazione dell’assegno nel rispetto dei tempi utili, ma che il medesimo non è stato pagato. In tali circostanze, tale dichiarazione non è sufficiente, poichè gli istituti di credito sono chiamati ad effettuare ulteriori ed indispensabili verifiche. Si pensi all’importanza dell’esame esterno della firma di traenza!: ‘’se all’esito di quest’ultimo esame è evidente la non corrispondenza della conformità documentale di essa allo specimen della firma depositata presso la banca correntista, l’istituto di credito non può limitarsi a dichiarare che rifiuta il pagamento dell’assegno perché è stato denunciato come rubato, ma ha l’obbligo di precisare chiaramente al pubblico ufficiale incaricato del protesto che il titolare del conto corrente è un soggetto diverso da quello il cui nome figura nella sottoscrizione dell’assegno (Cass. 6006/2003)’’. Da parte dell’istituto di credito dovrà, inoltre, essere appurato che ‘’tra il titolare del conto corrente ed il traente non vi è nessun rapporto negoziale o legale, opponibile alla banca, che legittimi quest’ultimo ad obbligarsi in nome e per conto di quegli’’ (Cass. 18919/2004). Se, in relazione ad un eventuale protesto, la banca omette le previe e necessarie verifiche si instaurerà da parte della medesima una mera violazione del dovere di correttezza e buona fede: un esempio è cristallizzato nel caso di specie, ovvero ‘’nell’indicazione erronea al notaio dei nominativi degli attori poi protestati’’. Quanto poi al pubblico ufficiale, nell’adempimento dei suoi obblighi di status: ‘’a lui personalmente incombe dirigere la compilazione dell’atto-precetto, ex Legge nr. 89 del 1913, art. 47, con perizia e diligenza professionale, ex art. 1176.2 c.c., per non danneggiare un soggetto apparentemente estraneo all’emissione dell’assegno’’ (Cass. 16617/2010). Più dettagliatamente, il notaio, nell’esercizio della sua professione, ‘’è tenuto alla verifica della corrispondenza tra lo specimen e la firma di traenza’’. Tale verifica rientra nei doveri di normale attenzione e diligenza, esulando dai casi di cui all’art. 2236 c.c., norma quest’ultima dettata unicamente in materia di soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà. ‘’Il notaio possiede, quindi, il ‘’potere/dovere’’ di chiedere, nei casi dubbi!, i chiarimenti opportuni alla banca trattaria che ha indicato i nominativi dei soggetti da protestare’’ (Trib. Di Napoli, Sez. dist. Marano, 06/04/07) . Pertanto, ‘’sia l’azienda di credito, sia il notaio sono responsabili in solido tra loro (Cass. 11103/98) dei danni che possono essere derivati dall’erronea elevazione del protesto’’.

Recentemente, la Corte di Cassazione, Sez. I, 31 maggio 2012, nr. 8787, ha affermato che ‘’il comportamento dell’istituto di credito costituisce causa del fatto ingiusto della pubblicazione del nome del correntista sul bollettino dei protesti (Legge nr. 77 del 1955, art. 2), con l’ulteriore conseguenza di aver fatto conoscere a chiunque le esatte generalità del cliente con cui intrattiene il conto, non essendo sufficiente a tutelarlo dal discredito sociale ed economico la collocazione in apposita categoria, con conseguente responsabilità, anche contrattuale, di tutti i danni che ne derivano (…)’’. Quanto poi al pubblico ufficiale, ‘’sussiste la sua corresponsabilità per concorso nel causare il protesto illegittimo laddove questo abbia omesso di vigilare, anche per colpa lieve, sulla corrispondenza tra la firma di traenza e il nome del titolare del conto corrente (…)’’. In tale circostanza fattuale, la Corte di Cassazione aggiunge che ‘’i relativi capitoli di prova appaiono rilevanti in quanto volti a dimostrare l’esistenza del pregiudizio subito per effetto dell’erronea elevazione dei protesti’’. ‘’In relazione alla richiesta dei danni non patrimoniali, il protesto, dove illegittimamente sollevato, deve ritenersi del tutto idoneo a provocare un danno, anche!, sotto il profilo della lesione del diritto all’onore e della reputazione del protestato come persona, al di là ed a prescindere dai suoi interessi commerciali. Ne consegue che, qualora l’illegittimo protesto venga riconosciuto lesivo del diritto della persona, come quello alla reputazione, il danno da ritenersi ‘’in re ipsa’’, andrà senz’altro risarcito senza che incomba sul danneggiato l’onere di fornire la prova della sua esistenza (…)’’ (Cass. 18316/07).

Insomma, dopo avere ‘’richiamato’’ il quadro normativo-giurisprudenziale in materia, si potrebbe affermare che il correntista-cliente necessita, sicuramente, di una protezione ad hoc. Sulla banca trattaria-mandataria, in primis, incombe un dovere di protezione nei confronti del cliente. In un rapporto fiduciario-privatistico, come quello tra istituto di credito e cliente, è necessario, quindi, ‘’dare spazio e voce’’ al principio di buona fede contrattuale , ex art. 1375 c.c., tra le parti. D’altro canto, sul piano pubblicistico, il protesto svolge una funzione incidentale di tipo riparatorio-sanzionatoria. A questo punto ci si domanda: le due funzioni, privatistica da una parte e pubblicistica dall’altra, risultano essere nella prassi ‘’inconciliabili’’? Nei confronti del cliente-mandante si concretizza un vuoto di tutela e non un suo necessario rafforzamento, nonostante le due peculiari fasi (privatistica-pubblicistica)?

 …Una risposta costruttiva a tali quesiti si potrebbe individuare sotto il profilo privatistico-generale: l’art. 1710 c.c. potrebbe, sicuramente, arrivare a configurare in capo alla banca-mandataria un dovere ‘’allargato-compatibile’’ di collaborazione, che imponga alla medesima di effettuare a favore del cliente tutte le verifiche del caso.

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la valutazione dell’importanza dell’inadempimento ai fini della risoluzione è una questione di fatto non censurabile in sede di legittimità – osservazioni a margine di Cass. 7630, 16 maggio 2012

Ecco il caso: il professionista Tizio conviene, davanti al Tribunale, il signor Caio chiedendo la condanna di quest’ultimo al pagamento della somma x a titolo di compensi professionali. Il convenuto, costituitosi, eccepisce in via preliminare la prescrizione del diritto azionato dal professionista e nel merito contesta la domanda proponendo a sua volta domanda riconvenzionale per il risarcimento dei danni conseguenti al grave e colpevole inadempimento del mandato professionale. Il Tribunale accoglie parzialmente la domanda principale, rigettando quella riconvenzionale. Così, il signor Caio propone ricorso in Appello: sede in cui il ricorso principale viene rigettato e accolto in parte quello proposto da Tizio. Il signor Caio decide di intraprende l’ulteriore terzo grado, ove la Corte di Cassazione rigetta il ricorso.

Ebbene, ‘’quando il debitore, in violazione di un obbligo giuridico, non soddisfa l’interesse del creditore nel tempo e nel modo dovuti si realizza l’inadempimento, ex art. 1218 c.c.’’. Per la risoluzione di un contratto non è sufficiente il mero inadempimento ma è necessaria un’ulteriore connotazione, ovvero deve essere un inadempimento di non scarsa importanza, ex artt. 1453 – 1455 c.c.. Lo scioglimento del rapporto per inadempimento (salvo che la risoluzione operi di diritto) consegue ad una pronuncia costitutiva emessa dal giudice. Quest’ultima presuppone una necessaria valutazione da parte del medesimo, il quale andrà ad accertare la ‘’questione di fatto’’ e quindi la non scarsa importanza dell’inadempimento, avuto stretto riguardo all’interesse dell’altra parte. In tale dinamica valutativa, il giudice opera mediante un accertamento oggettivo, il quale gli permette di verificare se l’inadempimento ha inciso in maniera apprezzabile ‘’nell’economia complessiva del rapporto’’, agevolando uno squilibrio sensibile del sinallagma contrattuale. In tale fase, il giudice si serve anche di un ulteriore criterio soggettivo, che permette di verificare il comportamento di entrambe le parti, le quali possono ‘’attenuare’’ il relativo giudizio di gravità. Il giudice è tenuto ad indicare il motivo per cui, nel caso concreto, ritiene l’inadempimento di non scarsa importanza, ‘’a meno che non si tratti di inadempimento definitivo delle obbligazioni primarie o essenziali di una delle parti’’ (Cass., sez. II, 20 luglio 2007, nr. 16084). Il giudizio di accertamento-valutazione dell’importanza dell’inadempimento deve necessariamente uniformarsi al ‘’cd. criterio di proporzione’’, fondato sulla buona fede (contrattuale), ex art. 1175 c.c., la quale funge, per l’appunto, sia da criterio di integrazione del contratto sia da limite per le pretese delle parti contraenti. La buona fede comporta tra le parti: correttezza, informazione sui fatti non evidenti, collaborazione per l’acquisizione del massimo vantaggio, implicato dai rapporti contrattuali.

La Corte di Cassazione, Sez. III, con la sentenza nr. 7630 del 16 maggio 2012, afferma che ‘’in materia di responsabilità contrattuale, la valutazione della sua gravità, ai fini della risoluzione del contratto ex art. 1455 c.c., costituisce questione di fatto, rimessa al prudente apprezzamento del giudice del merito, ed è insindacabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici’’ (…).

Insomma, ‘’il contesto normativo consente l’individuazione di criteri di esercizio del potere determinativo, e di tecniche di controllo del medesimo, propriamente giuridici rispettosi del ruolo del giudice implicato dalle clausole generali’’. La generale clausola di buona fede giustifica-autorizza, con flessibilità, un controllo più incisivo (da parte del giudice) delle sproporzioni e degli squilibri contrattuali. Ma all’interno di tale dinamica sono presenti, paralleli, rischi di eccesso ed incontrollabilità delle decisioni da parte degli operatori preposti. Secondo tanti, infatti, l’autonomia riservata al giudice non dovrebbe originare ‘’uno spazio incontrollato di libere scelte’’. Ci si domanda allora: la buona fede rappresenta nella prassi valutativo-giudiziale ‘’uno strumento, concretamente, efficace agli operatori per distinguere ciò che è esigibile da ciò che esigibile non è?’’ O meglio, mediante tale strumento il giudice ‘’riesce’’ a valutare la reale gravità della responsabilità contrattuale ai fini della risoluzione del contratto?

 …Va ribadito che, nella sua funzione trasversale, ‘’il ruolo determinativo del giudice deve confrontarsi, oltre che con il contesto legale, con il piano dell’autonomia privata!’’