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Scelta vegetariana e vegana: cosa c’è di buono?

Puoi nutrirti di sassi?

Oggi scrivo un post per parlarti di scelta vegetariana e vegana, con alcuni concetti di base che saranno poi utili per molti dei post successivi in tema di nutrizione e stile di vita.

Oggigiorno, e più o meno ciclicamente, le diete che escludono i cibi di originale animale o marino sono di gran moda. Chi le adotta, peraltro, parla addirittura a proposito della propria scelta alimentare come di una «scelta etica», lasciando ad intendere velatamente che lui è in qualche modo migliore degli altri perché rispetterebbe l’ambiente e la vita, a differenza della massa inconsapevole.

Qual è però la verità? Le diete vegetariane e vegane sono effettivamente migliori per la salute? E quali sono, per chi vi è davvero interessato, gli aspetti etici al riguardo?

In questo post non parlerò di aspetti scientifici, perché se c’è una cosa che oggigiorno viene citata a sproposito, fino alla noia, sono gli studi scientifici, di cui si è fatto un vero e proprio idolo, nonostante siano spessi mal progettati, mal eseguiti, mal interpretati e non di rado persino corrotti sia nel loro finanziamento che nei loro contenuti. L’unico riferimento saranno quelle poche evidenze fattuali che ci sono in materia, ovviamente viste secondo il mio punto di vista che ognuno valuterà se condivisibile o meno.

La prima cosa da richiamare è che, in questo universo, gli uomini, per sostentarsi, devono nutrirsi di altre forme di vita.

Può sembrare crudele e io, se me lo chiedi, non ne conosco la ragione, così come non sono in grado di capire la logica di tanti altri progetti di Dio, ma fatto sta che è così.

L’uomo non si può nutrire mangiando sassi o altri oggetti inerti, ma deve necessariamente, se vuole vivere, alimentarsi di altre forme di vita, animale o vegetale. Sì è vero, ci sono persone che sostengono di potersi nutrire di aria e luce del sole, ma a quanto pare la cosa non funziona o non è sinora stato dimostrato il funzionamento, nonostante l’esistenza di svariati libri che sostengono il contrario.

Dunque, se vuoi sopravvivere, devi nutrirti di altre vite.

Nessuno vuole essere mangiato.

Ora, sai qual è un’altra importante verità a riguardo, che viene subito dopo la prima?

Che nessuna delle altre forme di vita che ti servono per sopravvivere vuole essere mangiata da te, né da nessun altro essere vivente al mondo.

Ogni forma di vita difende se stessa.

Gli animali, i pesci, lo fanno utilizzando la propria forza muscolare, le forme di vita vegetale lo fanno con gli antinutrienti, cioè con le tossine, contenute nelle loro parti, soprattutto nei semi, che rappresentano il loro stesso futuro, un po’ come i nostri figli per noi. Qual è la tua reazione se ti toccano tuo figlio? Anche le piante difendono i loro figli, solo che non potendo muoversi lo fanno con le tossine.

Non è che tutto quello che viene dalle piante sia benefico per l’uomo. Oggi si vive nella convinzione che se assumiamo un farmaco di sintesi o facciamo un vaccino questa sia la più grande delle sventure, mentre tutto ciò che è fitoterapico non possa far male, ma è una convinzione assolutamente infondata, essendo vero piuttosto il contrario.

Le forme di vita vegetale sono comparse sul pianeta milioni di anni prima dell’uomo. Quali tipi ti piante pensi che possano essere sopravvissute sino a noi? Quelle i cui semi erano liberamente mangiabili da tutte le altre forme di vita, insetti, uccelli, animali e così via, oppure quelli i cui semi erano velenosi per le altre forme di vita, cosicché un insetto che se ne fosse cibato sarebbe morto poco dopo?

«All plants generate toxins» (Paul Jaminet, Perfect Health Diet). Tutte le piante generano delle tossine. È la loro linea di difesa.

Sempre Paul Jaminet, nello stesso libro, ci parla ad esempio (ma i casi di gente che si è avvelenata mangiando le verdure sono numerosissimi) di un caso: «Recently, an 88-year-old Chinese woman was taken to the emergency department at New York University’s Tisch Hospital by her family. She had been unable to walk or swallow for three days and soon entered a coma. Her life was saved by intravenous thyroid hormone, but she needed four weeks in the hospital before she could be moved to a nursing facility. The cause of her trouble? She had been eating 2 to 3 pounds of raw bok choy daily for several months in the hope that it would help control her diabetes». Si tratta di una donna che aveva mangiato chili di cavolo cinese nella speranza di tenere sotto controllo il proprio diabete, finendo gravemente intossicata e in coma.

Quindi il quadro, alla fine, è questo:
– tu, se vuoi vivere, devi nutrirti di altre forme di vita
– le altre forme di vita – guarda caso – non vogliono essere mangiate da te.

La nostra vita, quella di tutti noi, è basata sulla predazione. Non si esce da questo.

È appena il caso di sottolineare che le tossine contenute nei vegetali sono molto maggiori di quelle contenute nelle carni, degli animali e del pesce, perché gli animali, come ti ho accennato prima, si difendono scappando o attaccando, cioè con il loro movimento, in una lotta in cui a volte a soccombere può peraltro essere anche l’uomo. Nelle carni ci sono per lo più le tossine del cibo che ha ingerito l’animale stesso, ma – e questa è una importante differenza – smaltite dal suo apparato digerente e dai suoi organi emuntori (fegato, polmoni, ecc.).

Ora, sembra incredibile, ma tra le forme di vita vegetale più stracolme di tossine ci sono alcuni alimenti che sono alla base dell’alimentazione occidentale, come i cereali e i legumi che, guarda caso, sono in entrambi i casi semi.

Non scendo nel tecnico, perché come ti ho detto le discussioni tecniche mi annoiano, chi vuole approfondire può farlo semplicemente con google o leggendo uno dei tanti libri disponibili in materia. In questa sede è sufficiente dire che né i cereali né i legumi sono alimenti che possono essere mangiati crudi e, se un alimento non può essere consumato crudo, ciò significa molto semplicemente che quello non è un alimento adatto per l’uomo.

I cereali sono cibo per uccelli, che non a caso si chiamano granivori. Solo gli uccelli hanno uno stomaco adatto a digerirli senza subire danni. Noi, per poterli mangiare, li dobbiamo non solo polverizzare, ma anche cuocere, sottoponendoli dunque a molteplici trasformazioni per renderli masticabili ed ingeribili, a prezzo poi di danni gravi che sia producono nel nostro apparato digerente, e nel nostro intestino, che ha per noi la stessa importanza che hanno le radici per una qualsiasi pianta. E no, ovviamente il discorso non riguarda solo i celiaci, ma qualsiasi uomo, per cui i cereali sono un cibo inadatto.

Chi adotta la «scelta vegetariana» finisce per mangiare grandi quantità di cereali e legumi, tra cui in particolare la soia, che è sicuramente il legume più velenoso di tutti, specialmente per i maschi a causa dei fitoestrogeni che contiene.

Si tratta di cose che fanno malissimo a chi le ingerisce. In più, fanno danni tremendi anche all’ambiente. L’agricoltura, infatti, è di gran lunga la prima causa di deforestazione, come riportato in questo articolo, che richiama un recente studio in materia.

Fai bene attenzione, c’è adesso un aspetto importante: qui a morire non sono solo gli alberi, ma una vastissima quantità di microfauna che vive sugli alberi ed intorno ad essi, che viene letteralmente sterminata dalle operazioni di preparazione del terreno alle coltivazioni intensive di quella spazzatura che sono i cereali e la soia. Conigli, scoiattoli, toporagni e mille altri animali pucciosi.

Già qui si vede che la scelta vegetariana non ha, purtroppo, niente di etico. Partendo dal fatto che devi mangiare altre forme di vita se vuoi continuare a sostentarti, devi scegliere se mangiare direttamente le carni di animali o pesci o se preferisci mangiare vegetali, ma – attenzione – in entrambi i casi ci saranno degli animali che moriranno (oltre che delle forma di vita vegetali). Non si scappa.

Questa cosa degli animali che vengono decimati per far mangiare i veg peraltro non vale solo per i cereali e i legumi ma per molti prodotti largamente consumati in occidente, come ad esempio il cacao. Ti piace la cioccolata? La coltivazione del cacao determina danni ambientali gravissimi e un largo sfruttamento di lavoro minorile – va bene che non parliamo di vacche e magari non ti interessa, ma sono sempre bambini. Leggi ad esempio questo post tra tanti, sul «lato nero» del cioccolato.

Cosa è meglio mangiare?

Allora per stare in salute e vivere in modo «etico» bisogna mangiare la carne?

Non proprio.

La carne del supermercato proviene per lo più da allevamenti intensivi che suscitano giustamente ribrezzo anche in chi non ha pregiudizi sul tipo di cibo di cui nutrirsi, in quanto la pietà verso gli animali è un sentimento connaturato all’uomo. In questi allevamenti, tra l’altro, gli animali vengono nutriti in modo sbagliato, con gli stessi cibi spazzatura che tutti i mammiferi dovrebbero evitare, generando poi alla macellazione carni che non sono salubri, perché «inquinate» dai cibi ingeriti a monte – più in particolare, queste carni sono troppo grasse e i grassi relativi sono del tipo omega 6, pertanto proinfiammatori. Per non dire dei noti problemi degli ormoni e delle condizioni igienico sanitarie di animali stipati in stalloni.

Cosa può fare dunque, di fatto bene, il consumatore finale?

La scelta giusta è quella di consumare carne da animali allevati al pascolo, o allo stato brado, e nutriti con il cibo previsto per la loro specie che, per i bovini, ad esempio è solo l’erba che mangiano appunto pascolando.

Ma questa carne non costa di più?

Certo, cosa di più ed è anche giusto che sia così. Ma non siamo partiti dal fatto che tu volevi essere etico nelle tue scelte alimentari?

Questo è l’unico investimento sul benessere animale – e ambientale – che possa avere un senso. Se compri del tofu, dei legumi o dei cereali (parliamo di pasta, pane, pizza, spaghetti, ecc. per intenderci) l’ambiente e gli animali li stai distruggendo, nel tuo piccolo.

Tutti gli animali sono mortali.

Adesso un’altra domanda: ma non è crudele macellare gli animali, anche dopo che li hai fatti vivere liberi e in salute per tutta la vita?

Niente affatto. Torniamo al discorso iniziale, quello per cui ogni forma di vita animale su questo pianeta ha bisogno, per sostentarsi, di mangiare altre forme di vita.

Cosa credi che succeda ad un animale libero, una volta divenuto vecchio e debole, privo di forza muscolare? C’è una società degli animali, guidata da simpatiche scimmie, come in un bel film della Disney (quanti danni che hanno fatto queste pellicole), che lo prende, lo mette in un ospizio degli animali, e lo nutre e lo cura amorevolmente sino al termine, spontaneo e naturale beninteso, dei suoi giorni?

Purtroppo, o per fortuna, non succede niente di tutto questo: l’animale viene semplicemente mangiato da altri animali.

Nessun animale libero in natura muore di vecchiaia.

Ora se comunque, alla fine del suo ciclo di vita (su questo mondo, ognuno ha un ciclo di vita), un animale muore divorato o macellato con sistemi indolori che differenza fa dal punto di vista del suo benessere?

Probabilmente, è addirittura meglio la seconda ipotesi. Senza contare il fatto che, durante il suo ciclo di vita, l’animale è accudito con cura dal suo allevatore, mentre nello stato libero può comunque essere vittima di predatori, parassiti, malattie, incidenti e così via.

Quindi, in conclusione, la cosa più etica che si può fare con riguardo all’alimentazione è effettuare la spesa con discernimento, scegliendo prodotti di allevatori e coltivatori seri, spendendo anche qualcosa in più, consapevoli che si tratta di un investimento di cui vale la pena sia dal punto di vista della salute che più in generale della tutela dell’ambiente.

Considerato, poi, che ognuno di noi continua a vivere sostanzialmente prendendosi la vita di altri essere viventi, animali o vegetali, è importante dire che questo sacrificio debba può avere un senso se ognuno di noi nella sua vita si adopera costantemente per fare il bene, per aiutare gli altri, non per rubare, essere scorretto, cattivo, ma per vivere in modo civile e amorevole, con benevolenza verso tutti gli altri uomini e tutte le forme di vita che non servono strettamente alla sua sopravvivenza, in considerazione del fatto che la vita premia sempre la vita.

Il senso della scelta veg.

Se tutto questo è vero qual è allora il senso delle scelte veg?

Mi è capitato di parlare spesso con amici vegetariani e vegani di queste considerazioni, ottenendone spesso la risposta secondo cui magari è tutto vero, ma loro la carne «non la possono mangiare». Ad alcuni di questi, la carne è stata addirittura prescritta dal medico, ma loro non sono riusciti a mangiarla ugualmente. Ho quindi chiesto loro che cosa fosse successo e mi hanno detto che, dopo averlo fatto, al pensiero di aver mangiato un altro essere vivente, hanno rimesso.

Dunque, se le cose stanno così, non c’è nessuna scelta vegetariana in queste persone, ma c’è un fenomeno che può essere chiamato in un solo modo.

E qual è la situazione in cui una persona non riesce ad ingerire un determinato cibo per ragioni mentali o psicologiche, senza esserne intollerante o allergica?

Ti dò un indizio: inizia per «disturbo» e finisce per «alimentare».

Per diverse persone, anche se certamente non tutte, la scelta veg è solo un disturbo alimentare.

Ora, come si possa prendere un disturbo, cioè una patologia, e presentarla come una «scelta etica», dove una persona con un problema si presenta agli altri come in realtà qualcuno che degli altri sarebbe addirittura migliore, quando invece ha un problema, resterà sempre per me un mistero.

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counseling diritto

Violenza domestica contro le donne: che fare in concreto?

In questo periodo della violenza alle donne si legge spesso. Dall’analisi dei dati statistici sembra che una donna su tre nella sua vita sperimenta la violenza di genere.
Nel 2013, la legislazione internazionale con la Convenzione di Istanbul, ratificata nel 2014 dall’Italia, definisce la violenza di genere domestica come
“…. tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano nell’interno della famiglia o tra attuali o precedenti coniugi e/o partner, indipendentemente che l’autore condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima”.

La legislazione tutela il diritto di tutti gli individui e segnatamente delle donne, di vivere liberi dalla violenza sia nella vita pubblica che privata; garantisce anche a livello internazionale adeguati meccanismi di cooperazione efficaci tra tutti gli organismi statali competenti: -le autorità giudiziarie, -i pubblici ministeri, -le forze dell’ordine, -le agenzie regionali e locali.
Si intende far fronte ad un problema che investe non solo la sfera giuridica del singolo, ma, prima ancora, la società, che vive tuttora imprigionata negli stereotipi di genere: la donna sottomessa, obbediente, dipendente dall’uomo.
Questi ruoli, a mio modesto avviso, sono obsoleti; educazione, cultura, sensibilità insegnano che le persone sono libere di essere sé stesse, interdipendenti le une verso le altre; non è dato sapersi però se questa mia convinzione sia concreta o realizzabile o utopistica.
Si distinguono due generi di violenza: a rischio elevato e a rischio non elevato:
in entrambi i casi- anche con la Convenzione di Istanbul, ratificata con la legge 77 /2013 in Italia-, si pone l’attenzione sulla violenza psicologica come fattore di rischio che può portare alla morte della vittima.
Viene minato il benessere della persona spezzando lo sviluppo delle sue potenzialità umane; la persona viene relegata ad un ruolo di assoluto subordine. Le modalità sono varie, tante quante sono le persone. Si raggruppano sotto definizioni giuridiche tipizzate ad esempio: minaccia, ingiuria, maltrattamento; azioni od omissioni reiterate nell’arco di un tempo, veramente in molti casi lunghissimo, inflitte al fine di rendere completamente succube la vittima.
La vittima soffre di depressione, ha paura, ha bassa autostima, si sente impotente, è isolata e soprattutto ha vergogna.
Si è detto che un terzo della popolazione femminile subisce violenza: se le conseguenze sono quelle pocanzi illustrate, è plausibile sostenere che una larga fetta di popolazione è in stato di sofferenza e assolutamente bloccata, non libera di utilizzare le proprie potenzialità per lo sviluppo; si direbbe un grave danno.

Questo disegno criminoso ha un movente così misero rispetto al danno che causa, eppure il colpevole si avvale della complicità di una società che impone alla donna ancora di obbidire all’uomo.

Quando la violenza è a rischio elevato, significa che vi è rischio che la vittima venga uccisa: la Convenzione di Istanbul prevede il divieto di metodi alternativi di risoluzione del conflitto fra cui mediazione e conciliazione; prevede l’immediato allontanamento della vittima.
Nel caso di rischio non elevato si inserisce la persona nella rete di accoglienza psicosociale al fine di pianificare un ritorno alla vita senza violenza e costrizioni.
In entrambe i casi la donna deve superare
– la vergogna ed il timore del giudizio degli altri
-il senso di colpa che la porta ad auto attribuirsi la responsabilità della violenza,
-il rischio di non essere creduta.

Per favorire la difesa concreta dalla violenza mi permetto di accennare a due dei tanti mezzi utilizzabili per la tutela di sé stesse contro la violenza domestica:
1) rivolgersi al consultorio familiare più vicino, il quale prevede il seguente protocollo di accoglienza: colloquio in un luogo protetto ed inserimento nella rete di protezione; l’ascolto nel colloquio è privo di giudizio e mirato ad individuare la situazione di rischio della vittima. A seguito di tale colloquio, il consultorio forma un’equipe per assistere la vittima, in relazione anche a rischio valutato che essa corre. Se vi è violenza, vi è obbligo di denuncia;
2) scaricare applicazione del cellulare: 112 ARE U per chiamare il numero europeo di emergenza anche in chiamata silenziosa.

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101 storie zen: libro molto piccolo, molto profondo.

Il libro.

Questo è un libricino davvero molto bello, che dovrebbero o potrebbero leggere tutti per la sua rapidità e facilità di lettura, da un lato, e per il contenuto profondo, in contrapposizione, dall’altro. Personalmente, lo uso molto spesso con le persone che seguo nel counseling, lo considero anche un vero e proprio strumento di lavoro.

Le 101 storie zen contenute in questa raccolta sono, infatti, molto brevi, molte non superano addirittura la mezza pagina, ma lasciano ampio spazio per la riflessione, in linea con la consuetudini delle tradizioni sapienziali orientali, che, a differenza di quella cristiana, sono fatte più di silenzio che di parole.

Questo è un libro infatti dove il lettore trascorre più tempo a riflettere, con il libro abbassato in mano, su quello che ha appena letto, che a leggere direttamente.

È stupefacente come storie così brevi possano contenere contenuti così ampi e profondi, spunti che a volte ti fanno riflettere per anche lungo tempo.

101 storie zen

Sotto questo riguardo, sembra di leggere le scritture cristiane: contenuti condensatissimi, che accedono prospettive e punti di vista che non sapevi nemmeno di avere, ma che senti ti arricchiscono moltissimo.

Un libro da leggere, dunque, molto lentamente, come piace a me, e, per questo godibilissimo, oltre che utilissimo.

Le storie.

Le storie sono piene di paradossi, apparenti, o reali, controsensi, come nella migliore tradizione zen dei koan, che poi sono metafore curiose che, alla fine, sono il mezzo migliore per parlare al nostro cervello emotivo.

Riporto qui di seguito la storia n. 35, che poi riprenderò nel post, che sto concependo proprio in questo periodo, in seguito alle numerose richieste ricevute, sulla mindfulness. Una storia, come si vede, di pochissime righe, ma che contiene concetti importantissimi come quelli del pilota automatico, della consapevolezza, della necessità di «vegliare sempre» – un vero e proprio mantra di Gesù! -, che ti fanno capire con pochissime parole uno degli aspetti fondamentali dello zen.

35. Lo Zen di ogni istante.

Gli studenti di Zen stanno coi loro maestri almeno dieci anni prima di presumere di poter insegnare a loro volta. Nan ricevette la visita di tenno, che dopo aver fatto il consueto tirocinio era diventato insegnante. Era un giorno piovoso, perciò tenno portava zoccoli di legno e aveva con sé l’ombrello. Dopo aver salutato, Nan-in disse: «Immagino che tu abbia lasciato gli zoccoli nell’anticamera. Vorrei sapere se hai messo l’ombrello alla destra o alla sinistra degli zoccoli.
Tenno, sconcertato, non seppe rispondere subito. Si rese conto che non sapeva portare con sé il suo Zen in ogni istante. Diventò allievo di Nan-in e studiò ancora sei anni per perfezionare il suo Zen di ogni istante.

Poi c’è, sempre ad esempio, la storia numero 1, della tazza di tè, di cui parlo in questo altro post, e che ritengo fondamentale per qualsiasi percorso di cura e guarigione personale.

Come procurarselo.

Purtroppo, il libro non esiste in formato ebook, ma solo in cartaceo.

Si può acquistare per pochi euro qui.

Non perdertelo, anche se hai poco tempo per leggere puoi fare una storia o due al giorno in pochi minuti, ti arricchirà tantissimo. Per me è un must-have.

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Questo post è stato trasferito qui, nel nuovo blog specificamente dedicato al counseling.

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Counseling e potere delle parole.

Il counseling è un intervento o terapia basata sulla parola.

La parola detta dal counselor, ma anche quella da lui ascoltata e detta dalla persona che si sta cercando di aiutare.

Quest’ultima serve a capire dove sono i blocchi, la prima, invece, serve per cercare di scioglierli.

Ognuno di noi è un essere perfetto, che dispone di tutte le risorse per affrontare qualsiasi cosa.

Queste risorse vanno solo sbloccate, la persona in difficoltà deve essere messa di nuovo in grado di avervi accesso o di sentire di disporne, perché si è allontanata da se stessa.

Per sapere quali sono i blocchi basta ascoltare le parole.

Per iniziare a scioglierli basta usare altre parole, spesso in forma di domande.

La scommessa di base del counseling è avere una comunicazione e un flusso avanti e indietro di parole che possa scorrere ed essere recepito in modo efficace: che le parole, insomma, siano in grado di poter sprigionare la loro magia.

«Non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parola. A volte ne scrivo una, e la guardo, fino a quando non comincia a splendere». (Emily Dickinson)

«In principio era il Verbo,
Il Verbo era presso Dio
E il Verbo era Dio».
(Giovanni, 1)

«Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Gesù di Nazareth)

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Quando lui vuole tornare da sua moglie.

Vivo una storia da tre anni con un uomo sposato, con alti e bassi. Lui in più occasioni ha detto di voler lasciare la moglie, con cui ha due figli, per costruire una famiglia con me, e ha anche compiuto dei passi concreti in questo senso, come affittare una casa, però ultimamente, in questi giorni, mi ha detto di aver deciso di provare a ricostruire con sua moglie. Io sono disperata, per lui avevo anche lasciato il mio ragazzo, ma soprattutto lo amo… Da quando mi ha detto così sto malissimo, passo momenti in cui vorrei metterli sotto con la macchina, lui e sua moglie, inoltre mi sono imposta di non scrivergli e non parlargli, vorrei farlo ma penso che sia meglio per il momento stargli lontana. Non so cosa fare, so solo che sto malissimo. Mi date un consiglio? Spero di fare cose buone…

Non è con la violenza che puoi uscire da una situazione di questo genere, violenza contro di «loro» (anche solo immaginata, di metterli sotto con la macchina) ma soprattutto contro di «te» (l’imposizione di non telefonare, non incontrarlo, non fare altre cose che vorresti fare ma pensi che non sarebbero opportune).

Tutto al contrario, è solo con l’amore che si può uscire da vicoli ciechi di questo genere, amore che però deve essere:

  • a) genuino e animico e non, invece, egoico;
  • b) rivolto verso tutti i protagonisti della situazione, compresa lui, la moglie del tuo lui e, soprattutto, te stessa.

Non è un discorso facile da capire e soprattutto da praticare, ma proviamo ugualmente ad affrontarlo perché credo che queste siano le uniche parole che potrebbero davvero servirti. Ti rimando, a riguardo, anche alla lettura di questa lezione sulla differenza tra amore animico ed amore egoico.

Cosa significa amare?

Significa forse desiderare una persona sino al punto da provare l’impulso di metterla sotto con la macchina nel momento in cui si pensa di stare per perderla?

Facciamo un passo indietro.

Nessuno di noi è completamente unitario e autentico, ma frammentario. Quello che facciamo, e anche quello che proviamo nelle nostre vite, è come se fosse la risultante di una serie continua di «votazioni» o elezioni che le svariate parti e personalità di cui siamo composti svolge, con una maggioranza che emerge volta per volta… Funzioniamo, anche se appariamo all’esterno come individui e «monadi», come tanti piccoli staterelli, con una popolazione interna che si divide in opinioni e punti di vista…

Tra le varia parti di cui siamo composti abbiamo una o più manifestazioni egoiche e una parte animica, una parte dell’anima.

Quindi, detto questo, amare cosa significa, nel suo significato letterale e rigoroso?

È semplicissimo, anche se tendiamo a dimenticarcelo o a non volerlo vedere.

Amare significa, molto semplicemente e incontrovertibilmente, mettere il bene di un’altra persona sopra al nostro.

Detto questo, se tu amassi quest’uomo di un amore vero, puro ed animico, avresti dovuto… fare dei salti di gioia nel momento in cui ti ha comunicato che voleva ricostruire con sua moglie, con cui ha anche dei figli, cosa che corrisponde probabilmente al suo bene, per come comunque lo ha valutato lui e per come generalmente avviene in situazioni del genere, in cui la separazione di una coppia con figli rappresenta sempre una ferita profonda per diversi aspetti.

Invece, tutto al contrario, sei caduta nella disperazione perché hai perso qualcosa che sentivi come tuo.

Quello che provi, dunque, al momento non è tanto amore, quanto un tuo desiderio di possesso, un volere una persona, al punto tale da immaginare di punirla gravemente per non voler essere più tua.

È, con tutta evidenza, più una manifestazione del tuo ego. Non c’è molto altruismo in questo, non c’è amore, c’è più che altro un capriccio egoico.

Almeno in questa fase. Non sto affatto dicendo che sei una donna egoista, materialista, che vuole comprarsi un uomo e tenerselo come oggetto. Siamo frammentari, l’abbiamo detto poco fa. In questo momento, la tua ferita è una ferita dell’ego.

Ma l’anima ce l’hai ancora. Anche perché è nella sofferenza che gli dei ci fanno visita e, quando lo fanno, ci ricordano della nostra dimensione animica.

Come sempre succede, è nelle tue ultime parole che, anche se sicuramente non te ne sei resa conto, fa capolino la tua anima, quando dici «spero di fare cose buone».

Qui abbandoni la tua dimensione individuale e intuisci che l’unica via d’uscita da questa situazione in cui ti sei cacciata da sola, come fanno tutti del resto (ognuno si costruisce da solo l’inferno in cui vive), è quella di elevarti al di sopra del tuo egoismo ed iniziare a capire davvero sia te, sia lui, sia l’altra donna e cioè sua moglie.

È solo cercando di fare la cosa giusta che uscirai da questa situazione, accettando che la cosa giusta possa anche essere finire per non avere quest’uomo.

Quello che devi iniziare a fare è provare sentimenti di compassione, benevolenza, amore per tutti e tre i protagonisti cioè per te, per lui, per sua moglie.

Devi capire che ognuno di voi tre sta soffrendo terribilmente per la situazione in essere, che ognuno di voi è una persona che desidera solo vivere, amare, essere amata e non provare dolore o sofferenza e che invece lo prova.

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Al momento, pensi che sia difficile provare sentimenti di questo genere per lui, che vorresti mettere sotto con la macchina, per sua moglie, che probabilmente vorresti ugualmente imballare con la macchina, ma solo dopo averla torturata adeguatamente per almeno una settimana, ma io ti dico che la persona, delle tre, che ti sarà più difficile da amare davvero sarai tu stessa.

Ti senti in colpa verso di loro, ti stai giudicando per esserti ficcata in questa situazione, pensi di essere stupida, avventata e chi più ne ha più ne metta, sei molto crudele con te stessa e più soffri e più ti dai addosso. ti imponi delle regole – non chiamare, non parlarci – pensando che ti possano aiutare mentre accrescono solo il tuo fastidio.

Inizia proprio da qui, smettila di giudicarti e accettati per quello che sei e per quella che è stata la tua vita sinora. Può darsi che sia stato tutto un errore, ma chi non commette errori? E, se anche fosse, l’importante poi è ravvedersi e rimediare, per quanto possibile.

Devi essere inflessibilmente tenera e dolce con te stessa, come una madre lo sarebbe con un proprio figlio che pur sbaglia o ha sbagliato.

Fatto questo, dovrai riuscire a guardare la sofferenza anche degli altri due ed averne compassione.

Se riuscirai a fare tutto questo, ti eleverai ad un livello più alto dell’essere, quello della tua dimensione animica, che c’è e vuole uscire fuori, lo testimoniano le tue ultime parole, e uscirai da questa situazione, anche se non è detto che sia con l’uomo che desideri al tuo fianco: ma ricordati che lo scopo non è mai avere un uomo, una donna, un animale, ma essere felici e grati in e per questa vita.

Dovrà nascere una nuova e migliore versione di te.

È sempre lo Spirito che ci porta nel deserto e lo fa per farci diventare più grandi, più capaci di amore, più felici. Sta a noi fare quello che è necessario per portare tutto a compimento.

Se vuoi un appuntamento per parlare di persona con me o con uno dei nostri counselor, puoi richiederlo chiamando lo 059 761926. Ricordati di iscriverti alla newsletter o al gruppo Telegram per non perderti altri articoli come questo.

Un grande abbraccio.

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counseling cultura libri racconti

Voler bene agli altri: perché ci è indispensabile. 

Henry Guillaumet

Henry Guillaumet, dopo aver camminato per tre giorni in mezzo alla neve, in un freddo glaciale, sulla Cordigliera delle Ande, cadde in avanti, a faccia in giù nella neve, come un sacco di patate.
Il suo Potez 25, aereo con cui portava la posta dal Cile all’Argentina, era caduto a causa del maltempo, ma lui era riuscito a non schiantarsi e ad uscirne vivo. Aveva preso a marciare, da solo, in mezzo al gelo, in cerca di aiuto, un paese, una città. Si trovava a Laguna del Diamante, in Argentina, provincia di Mendoza. Era il giugno 1930. Ed era il suo novantaduesimo volo sulle Ande.

Era esausto, stanchissimo, ormai senza più energie. Pieno di freddo sin dentro alle ossa, aveva deciso di lasciarsi andare. Con la faccia e il corpo abbracciava ormai la sua morte, la sua tomba, ed era persino felice che la sua sofferenza stesse per cessare.

Sempre sdraiato con la faccia nella neve, si preparò a morire. Pensò per un’ultima volta alle persone che amava, sua moglie e i suoi figli, per salutarli con il ricordo, non potendolo fare di persona, ed iniziò finalmente ad assopirsi man mano.

Si stava consegnando alla morte come una persona qualsiasi si abbandona al sonno della notte nel proprio letto: con dolcezza, fiducia e soddisfazione.

Libérati dalla tensione verso la salvezza, i suoi pensieri iniziarono a scorrere liberi, saltando disinvoltamente, e senza un ordine preciso, da una cosa all’altra, proprio come quando ci si sta per addormentare, sospesi tra il sonno e la veglia.

Ad un tratto, gli venne tuttavia in mente una cosa in particolare.

Se il suo corpo non fosse stato trovato, la sua adorata moglie Noëlle non avrebbe potuto incassare il risarcimento dell’assicurazione sulla vita prima di quattro anni. Significava che lei e i suoi figli avrebbero vissuto con molte difficoltà per un lungo periodo.

Questo pensiero lo risvegliò. Si alzò, finalmente, e riuscì a scorgere una roccia in lontananza, non coperta dalla neve. Si rimise in marcia, sperando di aver trovato qualcosa, deciso ormai o a salvarsi, o almeno a far trovare il suo corpo.

Guillaumet, dopo essersi rialzato quel giorno, avrebbe percorso ancora centottanta chilometri, a piedi, da solo, prima di raggiungere finalmente un villaggio dove sarebbe stato salvato.

Più tardi dichiarò, con giusta ragione: «Quello che ho fatto io, non l’avrebbe fatto nessun animale al mondo».

La storia di Guillaumet ci dimostra che l’egoismo, oggi tanto di moda – secondo gli insegnamenti di chi pretenderebbe che fosse una liberazione a lungo attesa, quella di poter finalmente pensare solo a noi stessi – non è invece la scelta migliore per l’uomo, non gli dà nè la felicità nè la salvezza, non può comunque mai essere il suo solo obiettivo ed orizzonte.

Pensare solo al proprio interesse non è una evoluzione, come vorrebbero farci intendere il mondo dei consumi e la società fluida e globalizzata, uguale da tutte le parti, sotto l’egida del grande fratello economico delle multinazionali.

L’egoismo, da solo, elevato a sistema e criterio di vita, e la famosa libertà di far quel che a ognuno pare, sono una devastazione per l’uomo contemporaneo, due veri e propri inganni che lo precipitano nel vuoto e che privano la sua vita di significato, rendendolo ancora più vacuo e disperato.

Il punto è che dobbiamo amare noi stessi, ma al contempo amare anche gli altri.

Abbiamo bisogno di entrambe le cose ed entrambe possono funzionare solo insieme, l’una non può avere senso senza l’altra. L’amore per se stessi e quello per gli altri si sorreggono a vicenda. Guai a pensare solo agli altri, guai a pensare solo a noi stessi.

È solo per gli altri – e questo lo sa perfettamente, ad esempio, chi è genitore – che troveremo le forze che non abbiamo per togliere la faccia dalla neve, dove ci stiamo preparando a morire in silenzio, e per rialzarci.

È così che funziona il cuore dell’uomo, esattamente come ha chiarito Cristo quando ha detto che «c’è più gioia nel dare che nel ricevere»; senza contare la maggior forza che riesci a trovare quando non è per te, ma per un tuo caro.

E Guillaumet ha detto una cosa azzeccatissima. Nessun animale avrebbe fatto quel che ha fatto lui. Noi siamo uomini, a immagine e somiglianza di Dio: siamo capaci di amare e, per questo, di scrivere storie e vicende meravigliose, dove superiamo i nostri limiti, storie come la sua, che non sarebbe mai stata recitata senza un amore vero a sorreggerla.

Non spezzate mai il legame con gli altri, amate voi stessi, ma amate al tempo stesso anche i vostri cari.

L’egoismo, il narcisismo e il mettersi al centro di tutto non funzionano, sono falsi idoli dei tempi odierni, demoni che ti ingannano, promettendoti di renderti più forte, ma facendoti solo sempre più insoddisfatto, disperato e privo di senso.

L’egoismo non funziona nemmeno quando siamo in crisi.

Anzi, è proprio nelle crisi che spesso troviamo la forza di uscirne solo per gli altri, esattamente come ha fatto Guillaumet che, se fosse stato solo per lui, si sarebbe dato dolcemente alla morte e si sarebbe disperso per sempre nel bianco delle Ande.

Evviva noi.


La meravigliosa storia di Henry Guillaumet è stata raccontata da Antoine de Saint-Exupery nel suo «Terre des Hommes», del 1939; è ripresa da David Servan-Schreiber nel suo «Guarire». Su Guillaumet esiste una voce ben nutrita di Wikipedia in Francese, una buona voce in Inglese, nessuna purtroppo in Italiano.

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Amare e voler bene: che differenza c’è?

«Vorrei penetrare il suo segreto, vorrei che lei venisse da me e mi dicesse: “Io ti amo”, e se non è così, se questa follia non è pensabile, allora… allora che cosa desiderare? Forse so io stesso quel che desidero? Sono anch’io come sperduto: vorrei soltanto starle accanto, essere nella sua aura, nella sua luce, eternamente, per tutta la vita. Altro non so! Potrei forse allontanarmi da lei?» — Fëdor Michajlovic Dostoevskij, Il giocatore

Oggi parliamo della differenza tra amare e voler bene, una distinzione in cui capita a tutti di imbattersi più volte nella vita, nei modi più svariati.

C’è un elemento, in particolare, una caratteristica che distingue queste due situazioni, questi due sentimenti.

Questo elemento è il desiderio di prossimità, di vicinanza, di contiguità – o spaziale e fisica, o anche solo mentale – che c’è nel primo caso, quello dell’amore, ma manca nel secondo.

Quando amiamo una persona, vogliamo stare nello stesso posto in cui c’è lei, anche se magari non sappiamo nemmeno bene perché, e se lei non c’è la pensiamo, in modo da averla e tenerla dentro di noi anche quando è lontana.

Alla fine, vogliamo sempre essere, in qualche modo, con la persona che amiamo, vogliamo esserle vicini, se non con il corpo, almeno con la mente, con lo spirito, con l’anima.

Sentiamo che questa vicinanza ci fa bene, ci soddisfa, ci illumina, ci nutre in profondità. Non esiste più un posto preferito, ma vanno tutti bene purché ci sia anche lei, anzi il posto prediletto è proprio quello in cui c’è lei.

Viceversa, se vogliamo bene ad una persona, ma non la amiamo, non abbiamo il desiderio di starle sempre vicino o in un modo o in un altro.

Certo, le vogliamo bene, se le succede qualcosa di brutto ci dispiace, e ci dispiace sinceramente, ma non ci interessa che la nostra vita e la sua vita, i tempi e gli spazi delle nostre vite, scorrano distanti tra loro, e in due posti diversi.

È proprio per questo che il “voler bene” ha sempre dentro di sé qualcosa di insoddisfacente, viene sempre percepito, almeno in parte, come qualcosa di insincero, di ipocrita, di limitato. In realtà non c’è nulla di male o di ipocrita nel voler semplicemente bene, è solo sentito come un sentimento limitato, circoscritto, confinato e noi, per nostra natura, siamo portati a diffidare da sentimenti di questo genere, perché per noi un sentimento ha senso se uno è tendenzialmente disposto a portarlo avanti nonostante tutto, a dispetto di tutto, accada quel che accada.

Il “voler bene”, specialmente se interviene quando c’era precedentemente l’amore, è perlopiù percepito come un premio di consolazione, se non come una vera e propria loser medal, la medaglia del perdente, quella che viene assegnata alla squadra che arriva seconda, un trofeo che in realtà non significa nulla: anzi nessuno lo vorrebbe mai guadagnare e sarebbe sicuramente meglio che non venisse nemmeno assegnato.

Quando amiamo una persona, vorremmo semplicemente che questa persona ci ricambiasse e sapremmo che lo fa nel momento in cui essa desiderasse stare con noi, o comunque pensasse sempre o quasi a noi.

Se non sta con noi, se non nutre questo desiderio di prossimità, non c’interessa che ci voglia bene, non c’interessa se anche le dispiace sinceramente quando ci succede qualcosa di brutto, perché questo semplicemente non è vivere insieme come invece vorremmo noi.

La differenza tra l’amore e il “voler bene” è tutta qui: il desiderio di prossimità, di vicinanza, di contiguità, di camminare insieme, di ridere insieme, di pensare all’altro quando ci succede qualcosa di bello o di brutto, di arrivare a sera e condividere una giornata, di pensare già, quando ti succede qualcosa, a quando la racconteremo a lei, di pensare «Che cosa ne penserà lei?» ancora prima di capire che cosa ne pensi tu, di rispecchiarti nei suoi occhi e nei suoi occhi intravedere la sua anima, fino a non sapere più bene dove finisci tu e dove comincia lei.

Chi ha provato questo, e lo hanno fatto tutte le persone che sono state innamorate almeno una volta nella loro vita, non sa che farsene di qualsiasi altro sentimento di grado inferiore.

Per chi è davvero innamorato, vale la realtà per cui ogni cosa gli parla della persona amata, come se tutto il mondo avesse realizzato il suo desiderio di vicinanza, di prossimità, di stringersi forte, sempre più forte, anche quando la persona amata non c’è.

È sicuramente meglio arrivare secondo che terzo, o quarto, o quinto?

Forse nello sport, non in amore, dove chi ama davvero vuole tutto, perché sa che se non ottiene tutto si ritrova semplicemente con niente.

Un’altra importante differenza è che vogliamo bene per altruismo, amiamo invece per puro egoismo.

Vogliamo bene solo perché ci va, ma potremmo benissimo farne a meno, mentre amiamo perché ne abbiamo bisogno, come di bere e di mangiare.

Per questo il voler bene è sempre un po’ falso, non ci identifica, mentre amare è sincero e vero, grandioso e pezzente, come la nostra vita.

Il modo in cui vogliamo bene non dice quasi nulla di noi, mentre quello con cui amiamo è il nostro vero nome, con cui siamo conosciuti nel mondo.

Voler bene è solo un lusso, un piccolo vizio, invece amare, e farlo con tutta la miseria che ci portiamo addosso, con tutti noi stessi, sopratutto le parti meno nobili, è un vero e puro bisogno.

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