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Muratori: un genio da Vignola per tutti.

Oggi ti parlo di Ludovico Antonio Muratori, un gigantesco genio nato proprio a Vignola, il mio paese… – sarebbe una città, formalmente, ma noi Vignolesi la consideriamo ancora un paesone e la amiamo proprio perché non é una vera e propria città, ma è rimasta ancora molto a misura d’uomo.

Sul blog, come sai, in oltre 5000 articoli ad oggi, ho parlato di cose locali una o due volte, ma stavolta vale sicuramente la pena di fare un’eccezione, anche perché Muratori, pur essendo collegato a Vignola, è comunque, data la sua statura, un personaggio universale, esattamente come l’architetto Barozzi.

In occasione dei 270 anni dalla sua morte, l’amministrazione comunale ha varato una serie di iniziative di cui vale la pena di parlare, tra cui la riapertura della casa Natale – vicino alla quale, in centro storico, ho avuto lo studio per molti anni – che ora sarà possibile visitare con alcune guide, svolte dai volontari del palazzo Barozzi.

In questo modo, chi verrà a visitare la nostra Vignola potrà vedere non solo la celebre scala a chiocciola di palazzo Barozzi e la Rocca, ma finalmente anche la casa natale del Muratori.

Muratori é stato appunto un grandissimo intellettuale, pensa che spesso cito cose che ha lasciato scritte nel corso dei miei appuntamenti come avvocato.

Il nostro, infatti, ha scritto, nel 1742, un saggio, intitolato «Dei difetti della giurisprudenza», che si può oggi leggere qui, in cui si interrogava sui problemi dei sistemi giudiziari e su come si sarebbero potuti migliorare, nel senso di metterli in grado di emettere sentenze più giuste e più accettate dagli utenti.

In questo lavoro, che consiglio davvero di leggere a tutti i giuristi, Muratori distingue i limiti di funzionamento dei sistemi giudiziari in difetti ineliminabili, nel cui novero sussume la soggettività dell’interpretazione («non avrà mai fine la varietà delle teste umane»), e difetti su cui invece si può lavorare…

Il suo saggio é di straordinaria attualità, se si considera che Muratori vi racconta che i suoi amici avvocati di allora gli riferivano che perdevano le cause che erano sicuri di vincere e vincevano quelle che, al contrario, erano sicuri di perdere… Una cosa che purtroppo è vera, in larga misura, anche oggi.

In onore di Muratori, esistono oggi tre placche a Vignola, una presso la casa Natale, una in Chiesa, messa nel bicentenario dalla nascita, in occasione della quale i Vignolesi lo hanno ricordato con una apposita cerimonia, e una in vicolo Bernardoni, alla destra, vicino alla casa Natale, dove c’era un tempo il ginnasio comunale.

Il prossimo sabato 15 febbraio 2020, alle ore 15:30, presso la Rocca, noi Vignolesi lo celebreremo con un apposito evento. Muratori era anche un musicista, è stato ritrovato infatti uno spartito per orchestra, la cui musica verrà suonata nel corso di questo evento. La sua composizione, scritta in Latino, é dedicata alla Madonna della Pieve, una figura cui noi Vignolesi siamo molto devoti. Si tratta appunto di «la Madonna della Pieve di Vignola» canto di Lodovico Antonio Muratori, musica di Guglielmo Bussoli.

La moderazione dell’evento è affidata a un esponente di un’associazione culturale del territorio. Interverrà il Presidente del centro studi muratoriani di Modena, Marri, poi il vicepresidente Burzacchini. Infine, verranno date alcune letture di testi del Muratori, tra cui anche di qualche sonetto, ad opere della scuola di teatro Cantelli.

Naturalmente, ci sarà la mostra con i documenti ufficiali di Muratori, uno speciale annullo filatelico, infine, a gruppi, si potrà andare a fare visita alla casa natale, distante qualche decina di metri.

Ti lascio di seguito il programma completo. Se vieni, ci vediamo e ci salutiamo là.

Un abbraccio!

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Il PAT e… altri animali fantastici.

Questo post è per quegli avvocati che, come me, oltre al civile, fanno anche amministrativo e, abituati al processo civile telematico, devono sfortunatamente imparare come funziona anche un altro processo telematico, quello amministrativo.

Scrivo questo post, infatti, dopo una settimana consumata, sia pure a intervalli, a studiare il PAT, acronimo di processo amministrativo telematico, e una mattinata intera spesa a depositare il fascicolo di un ricorso al Consiglio di Stato a Roma.

Per il PAT, ci sono infatti molte peculiarità, che si manifestano sin da prima dei depositi, già al momento della notifica.

In teoria, chi ha disegnato il PAT avrebbe potuto renderlo corrispondente, o quantomeno simile, al PCT, che ormai quasi tutti gli avvocati conoscono abbastanza bene e con i cui strumenti ormai siamo quasi tutti avvezzi. In realtà, il PAT è stato invece ridisegnato completamente per suo conto, con regole sue proprie, con la conseguenza che è impossibile praticare il processo amministrativo senza studiare completamente daccapo il funzionamento del PAT. In altri termini, la conoscenza del PCT è pressochè inutile e biusogna prendere confidenza con regole e strumenti completamente diversi.

Per il PAT, ci sono già ottime guide on line, alcune delle quali da me ampiamente saccheggiate ed alle quali rimando per praticità. Il senso di questo post è quello di essere un’introduzione d’insieme al PAT, più che altro per quegli avvocati che fanno quasi esclusivamente civile e si trovano solo raramente alle prese con pratiche di diritto amministrativo, al fine di evitare loro di commettere errori che potrebbero costare salati.

Senza, dunque, parlare del PAT in generale, mi limito a segnalare alcune peculiarità «interessanti» e rilevanti da questo punto di vista.

La prima cosa da tenere bene in considerazione è che, anche per quanto riguarda la notifica, almeno secondo alcune sentenze, la firma non può avvenire in formato Cades, ma deve essere fatta in formato PADeS BES. Anche se alcune pronunce, come ad esempio questa (ma, in tal caso, c’era comunque stata la costituzione avversaria), sono possibiliste sulla validità, comunque, della firma in formato Cades, è preferibile firmare con il formato previsto, per evitare antipatiche eccezioni. Altre pronunce infatti sono più rigorose, come ad esempio questa.

Per firmare in formato PADeS BES si può usare Acrobat, Reader o DC, oppure anche il semplice Dike, selezionando la relativa opzione. La firma in formato Cades era quella che aggiungeva l’estensione .p7m alla fine del nome dei files, rendendoli più difficilmente leggibili, ma consentendo di capire a colpo d’occhio (guardando la cartella dei files) se un determinato file era già stato firmato o meno. Con il formato PADeS, invece, l’estensione del file rimane quella originaria, di solito PDF, e per vedere se un determinato file è stato firmato bisogna aprirlo o verificarlo, sempre con Acrobat o Dike o altri programmi simili. Qui in studio da me abbiamo adottato la prassi di mettere l’hashtag #pades nel nome di un file dopo averlo firmato appunto con il formato PADeS BES, anche se ovviamente prima di usare il file confidando sulla presenza della firma facciamo sempre un apposito controllo. L’hashtag nel nome serve per dirci che probabilmente il file è già firmato, ma meglio sempre controllare.

Una volta fatta la notifica del ricorso, via pec (come faccio ormai da anni, essendo stato un pioniere in questo senso sin dal 2012 con tante notifiche fatte e mai un’eccezione subita) o tramite posta cartacea, bisogna effettuarne il deposito. Questo vale sia per il Consiglio di Stato, di cui mi sono occupato stamattina, che per i TAR: nella giustizia amministrativa le cause si introducono sempre, che io sappia, con il sistema del ricorso, che poi richiede la fase successiva del deposito.

Per il deposito del ricorso amministrativo, non si può, come ormai avrete già capito, usare SLPct ma è stato predisposto un sistema completamente diverso, che si basa sulla compilazione di un modulo messo a disposizione sul sito di riferimento giustiziaamministrativa.it. Si tratta, ovviamente, di un modulo «dinamico», da compilare tramite il programma Acrobat opportunamente configurato e che, alla fine, consente anche di apporre la firma. Il file PDF così ottenuto, tramite compilazione del modulo e successiva firma, deve essere poi inviato tramite pec, ma questo avviene anche con il PCT cui siamo tutti abituati, dall’account pec del professionista, ovviamente l’indirizzo di destinazione dipende dal giudice competente, anche in questo caso l’elenco degli indirizzi va reperito sul sito della giustizia amministrativa.

Qui il lavoro da fare è sia configurare Acrobat per la apposizione della firma sia capire meglio come va compilato il modulo. A riguardo esistono, come cennato, alcune ottime guide tra cui scegliere.

Per la configurazione di Acrobat sul mac, sistema operativo che personalmente utilizzo con soddisfazione da anni, ho utilizzato questa guida. Per la compilazione del modulo di deposito, ho utilizzato invece le istruzioni messe a disposizione sul sito di riferimento, che al momento si trovano in questa sezione.

Una cosa molto importante da dire è che essendo il modulo di deposito un modulo dinamico lo devi scaricare ogni volta che fai un deposito, perché viene costantemente aggiornato e bisogna sempre usare l’ultima versione disponibile. Scordati, quindi, di scaricarne una copia e metterlo in mezzo ai tuoi soliti modelli: puoi conservare il link alla sezione da cui scaricarlo, poi dovrai farne il download volta per volta.

Buon divertimento con il PAT!

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Fallimento: quali provvedimenti sono opponibili?

I provvedimenti giurisdizionali opponibili alla massa fallimentare.

In astratto, si deve partire dal seguente principio giuridico: la sentenza e i decreti ingiuntivi passati in giudicato alla data del fallimento sono vincolanti per la curatela e, conseguentemente, anche per il Giudice Delegato.

Nello specifico, il presente approfondimento, verrà limitato ai soli decreti ingiuntivi, non rappresentando particolari problemi ai fini della questione da affrontare, le sentenze.

Il perché è dato dalla diversa natura dei due provvedimenti.

La sentenza pone fine al processo (instaurato sul principio del contraddittorio pieno), in quanto decide su tutte le questioni, ossia i punti della controversia.
Inoltre, contiene sempre un accertamento: con essa il giudice elimina l’incertezza sulla realtà giuridica preesistente, dichiarandola come realmente è. Oltre all’accertamento, nel caso della sentenza di condanna (che è quella che di solito viene prodotta con la domanda di insinuazione al passivo del creditore), contiene il comando, rivolto alla parte soccombente, di tenere un determinato comportamento (dare, fare o non fare: ad esempio, pagare una determinata somma a risarcimento del danno).
In ogni caso, definendo in tutto o in parte la controversia, la sentenza svolge funzione decisoria, in contrapposizione ai provvedimenti giurisdizionali (nell’Ordinamento Italiano aventi la forma di ordinanza o decreto) che svolgono funzioni meramente preparatorie o complementari (cosiddetta funzione ordinatoria).

Il decreto ingiuntivo, invece, conclude un procedimento speciale civile, disciplinato dagli articoli 633 e ss. del Codice di Procedura Civile, contenente un accertamento con prevalente funzione esecutiva, giacché esso mira ad assicurare la rapida formazione del titolo esecutivo, al fine di recuperare coattivamente il proprio credito.
Lo stesso provvedimento viene emesso in assenza di contraddittorio (inaudita altera parte) in cui il creditore, previo deposito del ricorso presso la Cancelleria del giudice competente ex art. 637 c.p.c., chiede l’emissione di un decreto ingiuntivo allegando una prova scritta a sostegno delle proprie ragioni. Se il ricorso è fondato, il giudice emana il decreto ai sensi dell’art. 641 c.p.c. concedendo al debitore ingiunto un termine di 40 giorni per opporsi al decreto e instaurare un giudizio a contraddittorio pieno; caso contrario, decorso inutilmente il termine, il decreto si consolida e acquista efficacia esecutiva.

Da questa breve premessa sulla vocazione dei suddetti provvedimenti giurisdizionali, si possono evincere gli effetti che gli stessi producono nella procedura fallimentare.

Infatti, per quanto riguarda le sentenze, possiamo dire che, qualora la sentenza sia già passat in giudicato prima dell’apertura della procedura concorsuale, sia il curatore che il giudice delegato non potranno più contestare il diritto accertato.

In questo caso, al fine di provare il passaggio in giudicato della sentenza, per il creditore è sufficiente produrre la copia conforme della sentenza, anche non munita di formula esecutiva, e la relata di notifica (qualora si voglia stabilire il dies a quo per la decorrenza del termine breve per impugnare, mentre per la decorrenza del termine lungo fa fede la data di pubblicazione della sentenza) e, per alcuni Tribunali, anche l’attestazione da parte della Cancelleria dell’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza.

Nel caso, invece, della insinuazione fondata su sentenza emessa prima della dichiarazione di fallimento del debitore, ma non passata in giudicato al momento in cui si è verificato tale evento, si applica l’art. 96, comma 2, n. 3 L.F.. Questa norma, nonostante la non felice formulazione, indica che il credito portato da una sentenza non passata in giudicato va ammesso al passivo con riserva, in attesa, evidentemente dell’esito dell’appello, per cui, se il Curatore continua l’appello dopo l’interruzione per l’avvenuta dichiarazione di fallimento del debitore appellante, oppure decide di impugnare egli stesso la sentenza, deve ammettere il credito – l’intero credito portato dalla sentenza – con riserva, a nulla rilevando, l’intervenuta sospensione della provvisoria esecutività della sentenza, totale o parziale che sia, in quanto la provvisoria esecutività incide soltanto sulla possibilità di portare ad esecuzione il titolo e, una volta intervenuto il fallimento, comunque vige il divieto dell’esercizio di azioni esecutive così come disposto dall’art. 51 L.F..

Al contrario, proprio per la sua natura, è riconosciuto che il decreto ingiuntivo opposto, o del quale alla data del fallimento penda il termine per l’opposizione, anche se munito di provvisoria esecutività, non è equiparabile alla sentenza non passata in giudicato; in questo caso, infatti, non vale la deroga prevista dall’art. 96 L.F. (il decreto ingiuntivo opposto o non ancora scaduto non può essere ammesso con riserva).

Possiamo, invece, affermare che il decreto ingiuntivo una volta passato in giudicato prima della dichiarazione di fallimento è opponibile alla procedura.

Il problema è stabilire quando un decreto ingiuntivo è passato in giudicato.

Il Codice di Procedura Civile richiede chiaramente un preciso adempimento formale: unicamente la dichiarazione di esecutorietà ex art. 647 c.p.c. attribuisce al decreto ingiuntivo l’efficacia di giudicato sostanziale, ne consegue che il decreto ingiuntivo è opponibile al fallimento solo se è intervenuta la dichiarazione di esecutorietà in data anteriore a quella di fallimento.

Orbene, nei casi in cui la domanda di ammissione al passivo del creditore, è fondata sulla base di un decreto ingiuntivo, ancorché provvisoriamente esecutivo, notificato al debitore intimato, prima della dichiarazione di fallimento, ma sprovvisto di “visto di esecutorietà”, ai sensi e per gli effetti dell’art. 647 c.p.c., o apposto successivamente alla declaratoria fallimentare, come deve comportarsi il Curatore nella valutazione della domanda di ammissione presentata dal creditore? In questo caso gli Organi della procedura, quid iuris? Applicheranno le regole speciali previste dalla concorsualità tra i creditori nella valutazione del credito (art. 45 L.F.: “le formalità necessarie per rendere opponibili gli atti ai terzi, se compiute dopo la data della dichiarazione di fallimento, sono senza effetto rispetto ai creditori”) o, viceversa, potranno ritenere che l’apposizione del visto di esecutorietà, di cui all’art. 647 c.p.c., successiva alla dichiarazione di fallimento sia sufficiente a ritenere opponibile il decreto ingiuntivo?

Ebbene, la giurisprudenza, sia di legittimità che di merito, è ormai consolidata nell’estendere la portata letterale della previsione normativa di cui all’art. 647 c.p.c. “Esecutorietà per mancata opposizione o per mancata attività dell’opponente”, ritenendo definitivo e, dunque, opponibile alla procedura fallimentare, solo il decreto ingiuntivo che sia stato munito del provvedimento ex art. 647 c.p.c., anteriormente alla sentenza di fallimento, e questo, indipendentemente dalla circostanza che esso fosse o meno già provvisoriamente esecutivo.

Tale orientamento, già consolidato, si è ulteriormente rafforzato, alla luce delle sentenze della Cassazione (Cass. n. 1650/2014 e Cass. n. 12055/2015).

Con la prima delle due sentenze (Cass., 27.01.2014, n. 1650), il caso trattato si riferiva ad una banca, che una volta ottenuto il decreto ingiuntivo, provvisoriamente esecutivo, in seguito al quale iscriveva ipoteca giudiziale, dava inizio all’esecuzione forzata.

Successivamente, dichiarato il fallimento della debitrice-ingiunta, la stessa banca proponeva domanda di ammissione allo stato passivo del credito con privilegio ipotecario, depositando il provvedimento monitorio, non opposto dalla debitrice (tale credito non veniva ammesso e la banca faceva opposizione allo stato passivo, ai sensi e per gli effetti dell’art. 98 L.F.).

Il Tribunale di Treviso, adito ai sensi dell’art. 98 L.F., respingeva l’opposizione, deducendo la mancata prova della definitività, di cui all’art. 647 c.p.c., del decreto ingiuntivo.

La banca, contro tale provvedimento, secondo quanto disposto dall’art. 99, ult. comma, L.F., proponeva ricorso in Cassazione, lamentando che il Tribunale errava nell’aderire alla tesi della non opponibilità al fallimento del decreto ingiuntivo non dichiarato definitivo ex art. 647 c.p.c. anteriormente alla dichiarazione di fallimento, pur quando il decreto di esecutività esisteva, ancorché emesso successivamente alla sentenza dichiarativa di fallimento.

I Giudici della Suprema Corte, hanno confermato la decisione del Tribunale di Treviso, sulla base del principio consolidato, secondo il quale ”il decreto ingiuntivo, non dichiarato esecutivo ai sensi dell’art. 647 c.p.c., non ha efficacia di giudicato formale e sostanziale, ed è inopponibile alla procedura fallimentare, determinando la sopravvenuta dichiarazione di fallimento del debitore, l’inopponibilità alla massa dei creditori concorsuali del decreto ingiuntivo in precedenza emesso, se, all’epoca del fallimento, non sia intervenuta ancora la dichiarazione di esecutorietà di cui alla norma menzionata. Pertanto, il creditore opposto deve partecipare al concorso con gli altri creditori, previa riproposizione della domanda di ammissione al passivo fallimentare, con i conseguenti oneri probatori”.

Inoltre, altro elemento di valutazione, per il quale gli Ermellini hanno rigettato l’opposizione del creditore, confermando anche per questo motivo d’impugnazione la sentenza del Tribunale di Treviso, è riferito alla disposizione speciale dell’art. 45 L.F. sopracitato.

La seconda sentenza (Cass. n. 12055/2015) ribadisce che, ai fini dell’opponibilità del decreto ingiuntivo alla massa dei creditori concorsuali, il creditore debba necessariamente ottenere la dichiarazione di esecutorietà di cui all’art. 647 c.p.c. in data anteriore alla dichiarazione di fallimento. Ciò in quanto l’efficacia del giudicato formale e sostanziale per il decreto deriva dalla pronuncia di esecutorietà.

Riassumendo, si può affermare quanto segue:
• In senso positivo: il decreto ingiuntivo dichiarato esecutivo ex art. 647 c.p.c. in data anteriore alla dichiarazione di fallimento (in quanto passato in giudicato) costituisce titolo per l’ammissione del credito allo stato passivo, senza possibilità di esclusione, non essendo consentito al Curatore ed al Giudice Delegato rimettere in discussione l’esistenza del credito.
• In senso negativo: il decreto ingiuntivo non provvisto di formula di esecutorietà di cui all’art. 647 c.p.c. anteriore alla data di fallimento non gode di tale efficacia, con la conseguente inopponibilità alla massa se non dichiarato esecutivo prima della dichiarazione di fallimento.

Da quanto detto finora, si può pacificamente sostenere che dal quadro normativo, nonché dalla giurisprudenza consolidata sia di legittimità che di merito, il decreto ingiuntivo ex art. 633 c.p.c. è opponibile alla procedura fallimentare soltanto se è stato dichiarato esecutivo, ovvero sia stato munito del provvedimento di cui all’art. 647 c.p.c., anteriormente alla declaratoria fallimentare, in caso contrario è tamquam non esset, come se non esistesse in sede concorsuale, per cui il creditore se vuole essere ammesso deve fornire ulteriori elementi probatori a fondamento del proprio credito.

Infine, si segnala un ulteriore orientamento meno rigoroso, ma di indubbio interesse per l’operatore del diritto, elaborato soprattutto dalla dottrina e da parte della giurisprudenza di merito, secondo cui la pronuncia di esecutività (per intervenuta definitività) del decreto ingiuntivo prevista dall’art. 647 c.p.c. ha natura dichiarativa di un giudicato già verificatosi per la mancata proposizione dell’opposizione nei termini di legge.

In buona sostanza, sulla scia di tale orientamento potrebbe ritenersi sufficiente, ai fini dell’ammissione al passivo, la produzione del decreto ingiuntivo completo della relata di notificazione e di attestazione della Cancelleria (del Giudice che ha emesso il decreto) ex art. 124 disp. att. c.p.c., in ordine alla mancata opposizione, assumendo in questo modo il provvedimento di cui all’art. 647 c.p.c., apposto successivamente alla dichiarazione di fallimento, un rilievo meramente formale.

Aderiscono a tale orientamento, il Tribunale di Napoli e il Tribunale di Nola.
Chi scrive, invece, aderisce all’orientamento più restrittivo, sia perché tale indirizzo giurisprudenziale deriva dalla teoria generale che attribuisce natura “costitutiva” (o “dichiarativo-costitutiva”) alla definitività del decreto ingiuntivo data all’attestazione di cui all’art. 647 c.p.c., sia per la conseguente applicazione, nella fattispecie, dell’art. 45 L.F..
La ratio di questa norma è proprio quella di tutelare tutti i creditori che partecipano al concorso, i quali sono assistiti dalla par condicio creditorum.

Esecutorietà del decreto ingiuntivo.

Esecutorietà ed esecutività sono concetti equiparati.

È opportuno, però, non confondere la provvisoria esecutività/esecutorietà del decreto con la dichiarazione di esecutorietà. Infatti, il decreto provvisoriamente esecutivo attribuisce al creditore il potere di agire con l’esecuzione forzata sul patrimonio del debitore. In questo modo, il titolo diventa il presupposto per l’esercizio dell’azione esecutiva, indipendentemente dall’accertamento del diritto sostanziale sottostante.

In realtà, un decreto provvisoriamente esecutivo può anche essere opposto e la provvisoria esecutività può mantenersi anche in pendenza di opposizione. Pertanto, si comprende come lo stesso non sia sufficiente a provare il diritto sostanziale che sta alla base del decreto.

Il decreto di esecutorietà di cui all’art. 647 c.p.c. è quello che sancisce che il decreto è passato in giudicato ed è un atto formale che la giurisprudenza ormai consolidata della Suprema Corte ritiene imprescindibile per l’opponibilità alla procedura fallimentare.

Inoltre, il Tribunale Fallimentare non ha il potere di accertare, neanche incidenter tantum, la tardività della proposizione del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo. Di conseguenza, il decreto ingiuntivo, non dichiarato esecutivo ai sensi dell’art. 647 c.p.c., non ha efficacia di giudicato formale e sostanziale e non è opponibile al fallimento.

L’art. 647 c.p.c., inoltre, prevede espressamente che il soggetto legittimato a rilasciare la dichiarazione di esecutorietà sia lo stesso giudice che ha emesso il decreto.
Nella prassi di alcuni Tribunali, invece, accade che sia la Cancelleria a rilasciare una sorta di visto di mancata opposizione o mancata costituzione dell’opponente nei termini.

Ciò crea non pochi problemi, perché ad una interpretazione letterale della norma, tale prassi non risulta corretta.

Il controllo effettuato dal Cancelliere, ai sensi degli articoli 124 e 153 disp. att. c.p.c., non può essere equiparato a quello del Giudice. L’attività di quest’ultimo, al contrario, valuta la regolarità dell’instaurazione del contraddittorio tra le parti, e che la mancanza di opposizione sia dipesa da una scelta del debitore ingiunto. Consiste, pertanto, “in una vera e propria attività giurisdizionale di verifica del contraddittorio che si pone come ultimo atto del giudice all’interno del procedimento d’ingiunzione e a cui non può surrogarsi il Giudice Delegato in sede di accertamento del passivo”.

Pertanto, si raccomanda a chi voglia insinuare al passivo fallimentare e rendere opponibile alla massa un credito portato da decreto ingiuntivo avente efficacia di giudicato, di ottenere il decreto di esecutorietà di cui all’art. 647 c.p.c..

La cancelleria rilascerà, su apposita richiesta, copia conforme del ricorso, del decreto ingiuntivo e del decreto di esecutorietà ex art. 647 c.p.c. che ne fa parte integrante.

Spese legali decreto ingiuntivo ammesse nel passivo fallimentare.

In ordine alle spese liquidate nel decreto ingiuntivo in danno del fallito, si precisa che riguardano la fase contenziosa cognitoria e non quella esecutiva, per cui non possono godere di alcun privilegio, giacché l’unico privilegio che assiste il credito per spese giudiziarie è quello di cui agli articoli 2755 e 2770 c.c. limitato alle spese di natura esecutiva e conservativa.

Quindi, se il decreto ingiuntivo è passato in giudicato al momento del fallimento, le spese in esso liquidate vanno ammesse, ma in chirografo.

Mentre, come già detto, se alla data del fallimento il decreto ingiuntivo non era ancora definitivo, lo stesso, anche se dichiarato provvisoriamente esecutivo, è inopponibile al fallimento ed impone al creditore di far valere le sue ragioni in sede di ammissione al passivo, posto che il provvedimento monitorio è tamquam non esset; di conseguenza vanno escluse dallo stato passivo le spese liquidate nel decreto (non vanno, cioè, ammesse neanche in chirografo) e, si ribadisce, vengono meno, nei confronti della massa, anche gli eventuali effetti dell’iscrizione ipotecaria ottenuta dal creditore in base al decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo, indipendentemente dall’epoca dell’iscrizione.

Interessi riconosciuti nel decreto ingiuntivo e la loro ammissione in sede concorsuale.

Qual è, invece, la sorte degli interessi moratori di cui al D. Lgs. n. 231/2002 nel fallimento?

Il D. Lgs. n. 231/2002, come noto, disciplina la maturazione degli interessi moratori relativamente a rapporti di credito/debito traenti origine da “transazioni commerciali”, con ambito di applicazione definito e limitato dagli articoli 1 e 2.

La normativa in esame, laddove concretamente applicabile, in quanto avente carattere speciale, deroga così alla disciplina codicistica (avente carattere generale) in ambito di mora del debitore, decorso e tasso di interesse, e segnatamente:
• ai sensi dell’art. 4, comma 1, D. Lgs. 231/2002, si ha decorso degli interessi dal giorno successivo a quello di scadenza dell’obbligazione, ipso iure, senza che sia necessaria costituzione in mora ex art. 1219 c.c.;
• ai sensi dell’art. 5 del predetto testo di legge, è prevista una sensibile maggiorazione del tasso legale periodicamente determinato.

La normativa in esame, adottata in attuazione alla Direttiva 2000/35/CE, ha quale ratio la lotta contro i ritardi nei pagamenti in seno alle transazioni commerciali. Essa si pone così l’obiettivo di disincentivare l’inadempimento (ritardato adempimento) nei pagamenti, acuendo la gravosità delle conseguenze patrimoniali in capo al debitore. Al contempo, introduce una forma di tutela per il creditore; quest’ultimo, infatti, in presenza di altrui inadempimento, al fine di medio tempore fronteggiare adeguatamente le proprie esposizioni debitorie, è di fatto costretto a ricorrere a linee di credito, sostenendo così esborsi a titolo di interessi passivi. Il tasso maggiorato contribuisce così a tenere indenne il creditore da tale forma di pregiudizio.

Invero, l’art. 1, comma 2, lett. a), D. Lgs. 231/2002 esclude l’applicazione del Decreto alle ipotesi di “debiti oggetto di procedure concorsuali aperte a carico del debitore”.

L’interpretazione più stringente di tale norma è nella direzione di escludere in toto l’ammissione al passivo fallimentare degli interessi, laddove dovuti ai sensi del suddetto Decreto.

Una diversa lettura, invece, vede nella disposizione in esame un divieto al riconoscimento del diritto all’ammissione al passivo di interessi al tasso maggiorato (nelle ipotesi in cui è dovuto) a decorrere dal momento della dichiarazione di fallimento; fermo il diritto a vedersi riconosciuto tale diritto per gli interessi decorsi antecedentemente. Tale interpretazione, oggi prevalente, sembra essere preferibile a quella più restrittiva; quest’ultima, infatti, porrebbe il credito al quale è astrattamente applicabile il D. lgs. 231/2002 addirittura in una posizione di sfavore rispetto ad un credito “ordinario”, così chiaramente contrastando la ratio legis del Decreto.

Di tale avviso, peraltro, la Giurisprudenza del Foro di Milano, della quale costituisce fulgido esempio il Decreto del Presidente della Sezione Fallimentare, dott. Quatraro, n. 833/08 del 21.01.2008, secondo il quale: “… con il D. Lgs. 231/2002 il legislatore ha dato applicazione nel nostro ordinamento alla direttiva europea adottata in materia di lotta contro i ritardi dei pagamenti nelle transazioni commerciali. L’art. 1 del citato decreto delimita l’ambito di applicazione del decreto ad ogni pagamento effettuato a titolo di corrispettivo in una transazione commerciale. È previsto che tale disposizione non si applichi ai debiti oggetto di procedure concorsuali aperte a carico del debitore. Appare indubbio che gli interessi non siano dovuti per il periodo successivo all’apertura della procedura concorsuale e, coerentemente, il ricorrente ha formulato la propria domanda limitando la richiesta del riconoscimento degli interessi dalla data di scadenza delle fatture fino al fallimento. Viceversa, prima della dichiarazione di fallimento, le obbligazioni contratte dal debitore producono, ai sensi dell’art. 4 del citato Decreto, interessi moratori automaticamente, senza necessità di formale messa in mora, dal primo giorno successivo al mancato pagamento. Proprio la ratio della normativa esaminata è stata quella di approntare una più efficace tutela a fronte dei ritardi nell’adempimento delle transazioni commerciali sicché alla produzione degli interessi dipendenti corrisponde il perfezionarsi del diritto alla obbligazione accessoria. La natura sostanziale della norma esaminata e il suo tenore letterale non consentono una interpretazione tale da condurre all’affermazione di una inopponibilità alla massa dei creditori di interessi moratori da obbligazione pecuniaria già maturati”.

In sintesi, pertanto, si ritiene di condividere l’impostazione secondo la quale l’art. 1 D. Lgs. 231/2002 non esclude la maturazione degli interessi oggetto del medesimo Decreto (rectius, il diritto al loro riconoscimento in sede fallimentare), se non limitatamente a quelli maturati successivamente alla dichiarazione di fallimento dell’impresa debitrice.

Ciò detto, nessun profilo di problematicità si pone in relazione a quei creditori non considerati privilegiati in seno alla procedura fallimentare (chirografari). L’art. 55 L.F., infatti, prevede quale regola generale la sospensione della maturazione degli interessi, siano essi legali o convenzionali, agli effetti della procedura concorsuale, a far data dalla dichiarazione di fallimento. Ciò ad eccezione che i crediti siano garantiti da ipoteca, pegno o privilegio. Ecco allora che il momento della cessazione di operatività della disciplina di cui al D. Lgs. 231/2002, nei termini predetti, coincide sostanzialmente con la sospensione della maturazione degli interessi. Sicché non è neppure da porsi il problema circa la sorte successiva alla declaratoria fallimentare.

Diverso, invece, il caso in cui il creditore sia munito di privilegio. In tal caso, ad avviso dello scrivente, si pone un problema interpretativo concernente l’interazione normativa tra l’art. 1, comma 2, lett. a), D. Lgs. n. 231/2002 da un lato, ed il combinato disposto di cui agli articoli 54 e 55 L.F. dall’altro.

Gli articoli 54 e 55 L.F., infatti – in via generale e senza alcun riferimento alla natura della transazione determinante l’insorgenza del credito – dispongono che per i crediti privilegiati non opera la suddetta sospensione della maturazione degli interessi, la quale prosegue sino alla data di deposito del progetto di riparto, allorquando questo preveda una soddisfazione (seppur parziale) delle ragioni creditorie.

Di contro, come esposto, l’art. 1, comma 2, lett. a), D. Lgs. n. 231/2002, ut supra interpretato, per i crediti frutto di transazione commerciale stabilisce l’inapplicabilità della disciplina sugli interessi di cui al Decreto, successivamente alla dichiarazione di fallimento.

Si pone dunque la questione, relativamente ai crediti privilegiati e determinati da transazioni commerciali, di quale sia la sorte degli interessi successivamente alla dichiarazione di fallimento. In dettaglio, sorge l’interrogativo se prosegua la maturazione o meno (sino alla data di deposito del riparto). In caso di risposta affermativa, vi è da verificare il tasso applicabile.

L’impostazione che fino a poco tempo fa era prevalente era quella che poneva l’accento principalmente sul disposto normativo di cui all’art. 1, comma 2, lett. a), D. Lgs. 231/2002; in ragione di essa, anche allorquando il credito fosse stato privilegiato, in virtù della predetta norma non vi sarebbe stato spazio per riconoscere alcun genere di interesse successivamente alla declaratoria fallimentare.

Infatti, poiché relativamente alla disciplina degli interessi di cui alle transazioni commerciali si applica il D. Lgs. 231/2002, il venir meno dell’operatività di questo determinerebbe il venir meno del riconoscimento del diritto a concorrere al passivo per gli interessi maturati successivamente.

Tale interpretazione non appare tuttavia sistematicamente corretta, e ciò per un duplice ordine di ragioni:
• il D. Lgs. 231/2002 prevede una disciplina, in tema di interessi, a carattere speciale, derogatoria rispetto alla disciplina generale. Il venir meno dell’operatività della legge speciale – in seguito alla dichiarazione di fallimento, ai sensi dell’art. 1, comma 2, lett. a), D. Lgs. 231/2002 –, in virtù dei principi dell’Ordinamento, dovrebbe così donare nuova rilevanza alla normativa generale. A tale ambito appartiene l’art. 54 L.F. (anche nella sua interpretazione relazionale con l’art. 55 L.F.), che come detto non opera alcuna distinzione circa l’origine del credito (pertanto, sotto tale aspetto, risultando “generale”);
• l’interpretazione richiamata appare contrastante con la ratio del D. Lgs. 231/2002, in quanto, a parità di privilegio, il creditore “da transazione commerciale” risulterebbe addirittura svantaggiato rispetto al creditore “generico”. Infatti, il primo vedrebbe un arresto della maturazione degli interessi al momento del fallimento della debitrice, mentre il secondo avrebbe tale effetto spostato nel tempo alla pubblicazione del progetto di riparto. Il pregiudizio per il creditore “da transazione commerciale” sarebbe evidente.

In considerazione di ciò, appare corretta una soluzione che dia applicazione all’art. 54 L.F. anche laddove si sia in presenza di credito (privilegiato) da transazione commerciale.

In tal senso, si è consolidata sia la giurisprudenza di merito che di legittimità.

Concludendo, in sintesi, dovrà essere riconosciuta l’ammissione al passivo fallimentare (con privilegio di grado pari a quello di cui è munito il credito in sorte capitale) dei seguenti interessi:
• interessi moratori ex art. 5 D. Lgs. 231/2002 dalla data di scadenza dell’obbligazione pecuniaria, sino alla dichiarazione di fallimento;
• interessi al tasso legale ordinario (ovvero, dove rinvenibile, al tasso convenzionale) dalla dichiarazione di fallimento sino alla data di deposito del riparto, dal quale il creditore risulti almeno parzialmente soddisfatto.

Credito contestato sub Judice.

Correlato all’argomento appena trattato, vi è un caso particolare da dover affrontare che è di particolare rilevanza: l’istanza di fallimento fondata su credito sub judice.

È il caso delle iniziative concorsuali che il creditore intraprende dopo aver ottenuto una sentenza già esecutiva ex lege, impugnata, o un decreto ingiuntivo, opposto ma dotato della provvisoria esecuzione, rimasta infruttuosa per l’inutile tentativo di sottoporre ad esecuzione i beni del debitore.

Una recente sentenza della Corte di Cassazione, I° Sezione Civile, n. 6914 del 07.04.2015, resa nell’ambito di un tema spesso affrontato nelle aule di giustizia a motivo di opposizione alle istanze di fallimento fondate su un unico credito, peraltro sub judice, in quanto contestato, afferma il seguente principio: “Per ravvisare lo stato di insolvenza, ai fini della dichiarazione di fallimento del debitore, non occorre l’accertamento definitivo del credito, essendo sufficiente la verifica di uno stato di impotenza economico-patrimoniale, idoneo a privare tale soggetto della possibilità di far fronte, con mezzi normali, ai propri debiti”.

Ed invero, la giurisprudenza è molte volte intervenuta per definire il concetto di insolvenza, indefettibile condizione per la dichiarazione di fallimento, e la sentenza in rassegna si inserisce in tale dibattito atteso che il quesito formulato alla Suprema Corte, riguardava proprio l’interrogativo “se l’inadempimento di un unico credito, contestato in sede giudiziale e quindi non definitivo, integri il presupposto oggettivo del fallimento”.

Orbene, sulla questione vi sono interpretazioni abbastanza convergenti, certune (come la sentenza della S.C. in commento) arricchite da precisazioni e chiarimenti, ma tutte caratterizzate da un denominatore comune: condizione imprescindibile per la dichiarazione di fallimento è una generale situazione di difficoltà economica riguardante l’impresa, non momentanea o transeunte, che indipendentemente dai motivi, genera la impossibilità di far fronte regolarmente alle obbligazioni assunte (cfr. Cass. n. 4789 del 04.03.2005; Cass. n. 5215 del 27.01.2008).

Deve cioè trattarsi di una condizione patologica dell’impresa (si dice “in prognosi irreversibile”), tale da impedire di onorare i propri debiti.
L’art. 5 della Legge Fallimentare parla, infatti, di “inadempimenti o altri fatti esteriori” a significare, quindi, che gli inadempimenti non sono l’essenza dello stato di insolvenza, potendo questo derivare da altre circostanze esteriori (fuga, latitanza dell’imprenditore, etc.).

In buona sostanza, la lettura di detta disposizione normativa induce a ritenere che, ai fini della ricorrenza dello stato di insolvenza, non occorre verificare la presenza di inadempimenti, ma la capacità dell’imprenditore di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni, come recita testualmente la Legge Fallimentare.

Rebus sic stantibus, è più corretto affermare che lo scrutinio sul riscontro della condizione di insolvenza prescinde (come chiarito dalla Cassazione con la sentenza in commento) da ogni indagine sulla effettiva esistenza ed entità del debito, il cui riscontro, insieme agli atti esteriori, assurge a circostanza sintomatica del dissesto economico (cfr. Cass. n. 576 del 15.01.2015).

In conclusione, lo stato di insolvenza può ritenersi escluso nel caso di inadempimento di un credito contestato e soggetto ad accertamento giudiziale, inidoneo a determinare l’impotenza patrimoniale non transeunte al regolare adempimento delle obbligazioni assunte dal debitore, purché poi detta circostanza possa evincersi dai bilanci offerti in comunicazione al Giudice (v. ex multis Tribunale di Reggio Emilia, 28.06.2006; Corte di Appello di Firenze, 07.02.2012).
Ugualmente può dirsi allorché, pur in presenza di un credito contestato, detta impotenza possa ricavarsi da altri elementi come la chiusura di tutti i rapporti da parte degli istituti di credito o la presentazione di ricorsi monitori da parte degli stessi, elevazione di numerosi protesti, i quali danno contezza che la società versi in uno stato irreversibile di incapacità a far fronte ai propri impegni economici (Tribunale di Tivoli n. 33 del 21.07.2010). Da segnalare, in tale contesto, la particolare pronuncia del Tribunale di Mantova del 26.02.2015, secondo la quale “dinanzi ad un credito non portato da titolo definitivo e contestato dal debitore, la cui contestazione è sub judice, il Tribunale non può che rigettare l’istanza di fallimento in quanto è carente la prova della esistenza del credito che attribuisce all’istante la legittimazione ad attivare la procedura per la dichiarazione di fallimento e non potendo valutare il Giudice prefallimentare la fondatezza nel merito delle contestazioni stesse mosse alle ragioni del creditore”.

Purtuttavia, laddove dagli atti risultasse una situazione di insolvenza allarmante, desumibile dall’entità dei debiti risultanti dai bilanci e dalla pendenza di procedure esecutive immobiliari, il Tribunale non potrebbe dichiarare il fallimento ma dovrebbe trasmettere gli atti al P.M. per le conseguenti attività di competenza, ossia per la eventuale richiesta di fallimento ex art. 7 n. 2 L.F..

Una decisione, questa, che appare abbastanza peculiare poiché se coincidente, nella prima parte, con il consolidato indirizzo giurisprudenziale, risulta isolata (a quanto consta) e contraria al prevalente orientamento della Cassazione (esplicitato anche attraverso la decisione in rassegna), che opina per la sussistenza dello stato di insolvenza nella ipotesi di specie, ricavabile da ulteriori elementi incidentalmente verificati a tal fine dal Giudice, sulla base degli elementi messi a sua disposizione, quali le esposizioni debitorie risultanti nei bilanci o la esistenza di plurimi protesti.

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Divorzio: senza prova dell’accollo, anche la moglie deve corrispondere metà rate del mutuo stipulato da entrambi per l’ex casa coniugale 

Divorzio: senza prova dell’accollo, anche la moglie deve corrispondere metà rate del mutuo stipulato da entrambi per l’ex casa coniugale 

Con la recente ordinanza n. 1072/2018 (depositata il 17 gennaio 2018), la Corte di Cassazione interviene in riforma della pronuncia della Corte d’Appello di L’Aquila, con la quale i giudici di merito in sede di appello sulla sentenza di divorzio avevano modificato la decisione di primo grado e posto a carico del marito il pagamento dell’intera quota delle rate del mutuo, pur stipulato da entrambi, anche dopo la pronuncia della separazione e, per l’effetto, lo scioglimento del regime patrimoniale di comunione legale dei coniugi.

La decisione della Corte d’Appello si basava sulla presunta volontà del marito di farsi carico di questo incombente per intero, volontà desunta dal provvedimento presidenziale provvisorio con cui il Tribunale aveva stabilito le condizioni economiche del divorzio.

In sede di ricorso per Cassazione, l’ex marito contesta tale decisione per violazione, tra gli altri, degli artt. 1273, 1322, 1326, 1362 e 1299 c.c, lamentando in particolare l’erroneità di dedurre un impegno così importante quale l’accollo per intero delle rate del mutuo (in luogo della quota ordinariamente dovuta come cointestatario, cioè il 50%) in via meramente presuntiva, senza che tale volontà risultasse nè dagli atti difensivi nè dai verbali di udienza e nemmeno da altro atto.

Questa prospettazione ha trovato pieno accoglimento nella pronuncia della Suprema Corte: «[…] Non v’è dubbio, in primo luogo, che la prova dell’accollo non potesse desumersi dalle mere premesse di un provvedimento (peraltro temporaneo e destinato ad esaurire i suoi effetti col passaggio in giudicato della sentenza di divorzio) che non solo non conteneva alcuna statuizione a riguardo, ma ometteva di dare atto delle modalità attraverso le quali l’odierno ricorrente aveva manifestato l’effettiva volontà di assumere per l’intero, in via definitiva, l’obbligazione di pagamento: la prova in questione avrebbe, piuttosto, dovuto essere tratta da elementi documentali (dichiarazioni di G., verbali delle (anse di separazione e divorzio), eventualmente avvalorati (anzichè, come nel caso, palesemente smentiti) dal successivo comportamento processuale delle parti. […]».

Ciò sottolineando peraltro anche un ulteriore profilo di incongruità della sentenza d’appello, ossia la mancata valutazione del rigetto della domanda di pagamento integrale del mutuo a carico dell’ex marito: «[…] Risulta, inoltre, del tutto anodino (e sostanzialmente incomprensibile) il successivo passaggio motivazionale, con il quale la corte del merito si è limitata a rilevare che il capo della sentenza di divorzio che aveva rigettato la domanda di M. di corresponsione di un assegno divorzile non incideva sulla propria decisione, ma ha omesso totalmente di considerare che detta sentenza, dopo aver escluso (in contrasto con quanto da essa accertato) che il provvedimento presidenziale avesse tenuto conto dell’impegno assunto da G. di pagare in via esclusiva il mutuo gravante sulla casa coniugale, aveva anche respinto l’ulteriore domanda della signora, volta ad ottenere che l’obbligo di pagamento delle rate del mutuo fosse posto a carico esclusivo dell’ex coniuge. […]».

Pertanto la Cassazione conferma come dopo la separazione le rate del mutuo vadano pagate in egual misura dai cointestari e se così non fosse chi adempie per intero va rimborsato dall’altro, fatta salva una specifica e precisa volontà di accollo da parte dell’ex coniuge (che deve essere dimostrata). Oppure, che tale obbligo di pagamento venga posto a carico sì di uno degli ex coniugi, ma in funzione di misura sostitutiva dell’assegno divorzile (nel caso di specie non accordato).

 

 

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Avvocati: perché, nonostante tutto, è preferibile che siano felici.

Tutte le volte che faccio girare questo post, in cui dico quanto sia per certi versi ancora bello fare l’avvocato, salta puntualmente fuori gente che dice cose del tipo «Sì però a mio cuggino dieci anni fa gli avvocati e i giudici e gli assistenti sociali hanno dato un’inculata! Aveva ragione da vendere, decine di testimoni e camion di documenti, però ha perso la causa in tutti e tre i gradi e ha dovuto pagare più di 20.000 euro di spese legali! Tutti gli avvocati e i giudici di … sono corrotti! È un sistema! L’ordine degli avvocati non fa niente, cane non morde cane! Fate girare. Svegliaaaaaaa!».

Se non ci credete, guardate anche solo i commenti lasciati in calce al post stesso, alcuni dei quali davvero fuori di testa e assurdi.

Ad uno di questi ho chiesto cosa c’entrasse questa inculata che lui o suo cuggino si sarebbero presi con la piacevolezza con cui io ed altri facciamo il nostro lavoro e mi ha risposto che si voleva solo sfogare, come se si potessero commentare a cazzo i contenuti solo per «sfogarsi».

Allora io metto su facebook la foto di una torta che mi sono appena cucinato o mangiato e uno sotto, solo perché sono un avvocato, scrive «A me 20 anni anni fa i giudici e gli avvocati e gli assistenti sociali mi hanno truffato per questo e quello è terribile è inammissibile è anticostituzionale…».

Con questi atteggiamenti, tocchiamo il cuore del carattere italiano: l’italiano medio non sopporta la felicità altrui.

Siccome lui è stato inculato una volta, magari anche con giusta ragione, e magari non da un avvocato ma da un giudice, o altro, non importa: tutti gli avvocati devono almeno vivere infelici. Se si azzardano e dire che loro, tutto sommato, sono sereni e contenti di fare questo mestiere, allora ecco che per loro si riaprono vecchie ferite…

Io credo che l’unico modo corretto di rispondere a questo sia proprio chiedere: «Ma che cazzo volete?».

Se una persona fa il suo dovere e lo fa con cuore lieto, liberi voi di lamentarvi, vedere tutto nero e rovinarvi la vita per le tragedie che sono accadute, decenni fa, nella vostra famiglia.

Io però scelgo di costruire, di non fare di tutta l’erba un fascio, di cercare di aiutare davvero le persone, cosa per la quale l’ottimismo e la felicità mi servono, come il cibo che ingerisco tutti i giorni, come i computer che uso, come le cose che leggo, le famose sentenze, i libri, gli articoli.

Ma soprattutto ricordatevi anche che quando vi troverete di nuovo nella merda – cosa che peraltro non vi auguro affatto – l’unico che potrà provare a tirarvi fuori sarà un bravo avvocato che fa ancora con piacere, e magari addirittura con passione, questo mestiere sempre più difficile.

Tutto il resto sono solo lamentele con le quali vi trascinate solo sempre più in basso. Da soli, quasi come perfetti idioti. Pensate di aver capito tutto dalla vita, ma la tristissima realtà è che l’esperienza negativa che avete avuto non vi è servita nemmeno a questo. Tutto questo è un vostro diritto, sicuramente, stai tuttavia a voi decidere se e come esercitarlo.

Resta il mio diritto di svolgere serenamente e con piacere questa professione, nell’interesse mio ma soprattutto di tutti coloro che mi pagano per farlo, che si traduce in quello di ignorarvi e andare per la mia strada.

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Kafka: un civilista.. in fila

C’è un avvocato che frequenta poco il tribunale e quelle poche volte che partecipa ad un’udienza civile prova la stessa strana sensazione: quella di essere l’unico ad accorgersi che … qualcosa non va.

Si chiede come sia possibile passare una mattinata intera per fare 5 minuti di verbale… E “produrre”, magari, solo 2 o 3 verbali in una mezza giornata lavorativa..

Tutti gli avvocati a fare la fila parlando del più e del meno; qualcuno scrolla stancamente lo schermo del telefono vagabondando sui social network, quasi nessuno con un computer o un tablet, magari per controllare le email, leggere
documenti o sentenze, aggiornarsi…

Una intera massa di professionisti che avanza alla velocità di un bradipo verso un giudice sopraffatto dai fascicoli e dalla ressa.

Si chiede – sorpreso ed anche un po’ preoccupato il nostro – come si possano passare giornate del genere. “Ma che produttività si ha in questo modo? I  clienti per cosa pagano, davvero, gli avvocati..?

Questa situazione genera irrequietezza, conducendo infine ad una allarmata constatazione: tutti quelli che sono in fila sembrano quasi… “assuefatti” …!

Non può credere che si possa godere a stare in quella situazione ed a sentirsi realizzati; non riesce a vedere la loro autostima che cresce. E nemmeno il loro conto in banca: ormai gli avvocati si pagano a “fasi” e non a minuti (tranne che si sia pattuita una parcella con tariffa oraria..).

Eppure stanno tutti lì, come se ci fosse un qualcosa di ineluttabile, immodificabile; quasi un arrendersi ad una realtà che non si può cambiare.

Ad ascoltarne i discorsi, tutti si lamentano delle performance della giustizia civile, eppure tutti continuano a farne parte, volenti o nolenti: la metafora che va per la maggiore in questi casi è quella del tribunale che sarebbe una sorta di autobus con gli avvocati come passeggeri e non autisti o proprietari delle strade…

Dunque tutti si lamentano, ma tutti continuano a prendere lo stesso autobus. Se non ogni giorno, probabilmente ogni settimana.

D’altronde è il loro lavoro – continua a pensare – poi si ferma chiedendosi: “Ma è davvero così?
Non è che, invece, i veri passeggeri sono i clienti e che gli avvocati sono più o meno i bigliettai (nel senso che vendono e controllano il titolo di viaggio)?
E non è forse vero che, senza biglietto, sull’autobus in effetti non si sale (o non si dovrebbe salire…)?”
Non è che si potrebbe prendere, insieme ai clienti, un altro autobus?

La fregatura è che per fare i bigliettai per questo autobus, ci sono voluti anni di studi universitari, di pratica, impegno, soldi, “sottomissione” ai dominus, alle cancellerie ed alle fotocopiatrici..per non parlare dell’ufficio notifiche..

Dunque visto che si è sudato tanto, non si può riconoscere a se stessi che … non ne è valsa la pena e quindi, obtorto collo, tutti ordinatamente in fila sapendo che (purtroppo?) domani.. ricominceranno.

Non l’ha ordinato il medico di fare l’avvocato, sia chiaro, e per giunta “civilista”, ma ad un certo punto, qualcuno con una voce un po’ soffocata insinua: “O la smettiamo di lamentarci del sistema che critichiamo, oppure smettiamo di usarlo, …almeno quando è possibile…

Il fatto è che gli avvocati non pensano a verificare quali pratiche potrebbero essere risolte fuori dal tribunale: non solo quelle da chiudere in transazione col collega, perché quelle sono le più facili, ma quelle che invece si sarebbe voluto definire con un accordo che non si è raggiunto e che invece di finire sul tavolo
del giudice, dovrebbero andare altrove…

L’alternativa è costituita da uno dei diversi sistemi ADR che per comodità possiamo identificare in due procedure; la mediazione e l’arbitrato.

Quest’ultimo assicura tempi brevi e certi (specie se irrituale), una decisione vincolante e un decisore esperto della materia; per converso è più costoso (ma solo nell’immediato..) del processo in tribunale e potenzialmente “pericoloso” se i soggetti nominati come arbitri non sono completamenti autonomi e all’altezza del compito. Nel nostro Paese non ha sinora dimostrato di essere un’alternativa ad alto impatto. Evita di certo quasi tutti i problemi di burocratizzazione descritti sinora.

La mediazione che in altri paesi ha una grande efficacia, in Italia soffre un problema culturale e in parte ideologico: gli avvocati che non sono riusciti a trovare un accordo – ritenendosi esperti in materia di negoziazione – pensano che nessun altro sarà in grado di trovare una soluzione stragiudiziale. Non viene dunque riconosciuta alla mediazione alcun valore aggiunto anche perché, purtroppo, talvolta nemmeno mediatori sono all’altezza. L’obbligatorietà in questo senso ha creato l’effetto opposto a quello che si cercava di raggiungere: un cambiamento di paradigma, soprattutto mentale, non può essere generato a colpi di decreto.

La soluzione c’è, ma richiede una piccola rivoluzione:

  • riconoscere che il processo dovrebbe essere l’ultima spiaggia, non la prima;
  • l’atteggiamento avversariale tipico del processo è controproducente al tavolo negoziale
  • negoziare in tre è meglio che in due
  • i problemi delle persone non sono puri problemi giuridici
  • le decisioni umane (dei clienti e degli avvocati) hanno una base emotiva
  • senza etica il diritto è in grado di produrre risultati nefasti.

Rivoluzione che passa per la formazione continua: quel che è stato insegnato all’università può e deve essere superato. Certo se poi ai convegni e seminari si va solo per prendere crediti e tutti escono con le stesse identiche idee che avevano quando sono entrati, ogni cambiamento è impossibile…

La colpa non sta ovviamente tutta da una parte: dunque c’è la responsabilità degli organizzatori che continuano ad offrire solo convegni su contenuti giuridici e processuali e quella dei partecipanti che hanno quasi paura a cambiare da soli, magari leggendo qualcosa in materia di comunicazione, gestione del conflitto, negoziazione, problem solving, decision making.

Ricordando Blade Runner: “Io ne ho viste cose che voi avvocati non potreste immaginarvi.. oltre i bastioni di codici e giurisprudenza. E’ tempo… di cambiare.

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Avvocati dal volto umano diventa una rete / network sul territorio.

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Da anni, per via del blog, sempre più persone e aziende lontane da Vignola mi chiedono di consigliare loro un avvocato.

Ho sempre declinato, perché non mi andava di dare garanzie per altri legali il cui metodo di lavoro non conoscevo e non potevo controllare.

Le richieste, però, sono continuate, costanti nel tempo, e ultimamente si sono addirittura intensificate, tanto che mi va sempre meno di rispondere con cose come «mi dispiace, non ti posso aiutare».

Credo molto nel «flusso» e penso che ogni occasione che ci offre la vita vada sfruttata per cercare di aiutare gli altri…

Questo bisogno diffuso di assistenza di qualità penso possa essere considerato per fare sia il bene dei clienti che quello di quei, per la verità non così tanti, ma comunque esistenti, avvocati in gamba e umani che ci sono.

Per questi motivi, sto valutando di far diventare «avvocati dal volto umano» un network di professionisti.

In modo da poter avere un referente sul territorio da poter indicare a tutte quelle persone e aziende che mi chiedono un legale operante nelle loro zone.

Ma anche per poter condividere conoscenza giuridica all’interno del nostro circuito. Molti avvocati mi chiedono quotidianamente consigli su come affrontare i casi che devono gestire, penso che potrebbe essere bello far parte di un network, una rete, in cui ogni membro è disposto ad aiutare tutti gli altri.

Si potrebbero definire alcune, poche e chiare, regole di base, dirette a garantire un minimo di qualità e di uniformità nel presentarsi al pubblico e nell’assistere la clientela. Già sarebbe un enorme passo in avanti. Pensiamo solo alla prassi dei preventivi scritti e delle tariffe di tipo flat, che offrono tantissima chiarezza, una cosa di cui l’utente ha assoluto bisogno quando si parla di servizi professionali.

Penso anche, onestamente, ad una quota annuale da pagare per far parte del network, in modo da finanziarne lo sviluppo, il mantenimento degli strumenti di collaborazione e così via. Magari da differenziare in base all’anzianità professionale.

Sei un avvocato o un altro professionista? Pensi che ti piacerebbe far parte di questo network? Entra nel centro di discussione che abbiamo organizzato su slack: compila questo modulo e riceverai un invito.

Sei un utente, cioè un privato o un’azienda? Pensi che un network del genere potrebbe essere utile? Come lo vorresti, più nel dettaglio? Leggerò volentieri ogni tuo suggerimento.

La condivisione di questo post nei vostri account social, gruppi, mailing list, messaggi privati e quant’altro è ovviamente ed assolutamente gradita.

 

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Perché fare l’avvocato è bellissimo.

Mai lamentarsi; ma soprattutto mai, mai, mai lagnarsi.

Vivo in mezzo a colleghi che si lamentano, e spesso si lagnano, a volte addirittura anche i colleghi maschi, di come sia difficile, brutto, insoddisfacente, demotivante, mortificante e così via esercitare oggigiorno la professione forense, per questo o quell’altro motivo.

Purtroppo, nella nostra società l’infelicità generalizzata è sostenuta da un marketing terribile e onnipresente, sembra quasi che sia di moda mettere sempre e comunque l’attenzione sulle cose che non vanno, piuttosto che su quelle che invece funzionano, che vengono date, per lo più, per scontate, senza alcun senso di gratitudine per quello che, a differenza di milioni di altre persone che vivono sulla terra, comunque abbiamo.

Forse uomini e donne credono, mantenendosi sempre lagnosi, polemici e imbronciati, di poter avere più chances di accoppiarsi con persone appartenenti all’altro sesso…

 

In realtà, i lagnosi sono persone che fanno stare male gli altri per stare sempre peggio loro stessi, moltiplicando all’infinito la loro tristezza e quella del loro prossimo.

Una persona – e specialmente se è di sesso maschile, per come la vedo io – potrebbe lamentarsi molto raramente, e solo con ottime ragioni, ma lagnarsi, quello non dovrebbe farlo mai.

Eppure di lagnosi quanti ce ne sono anche tra gli avvocati e sembra che il fenomeno aumenti sempre più.

Perché gli avvocati si lamentano così tanto?

Perché fanno così? Che problemi hanno gli avvocati, una categoria percepita dagli estranei alla stessa come piena di benessere, non solo economico?

Voglio richiamare al riguardo una constatazione di Martin Seligman, coniatore del «concetto» geniale della psicologia positiva, psicologia che non si occupa solo di patologie, come avveniva per tradizione, ma di incrementare il benessere delle persone senza particolari problemi, citando parte di un articolo di Silvia de Santis apparso sull’Huffington post:

«Come mai gli avvocati hanno il 3,6% di probabilità in più di cadere in  depressione o divorziare rispetto alla norma? Martin Seligman, professore di psicologia alla UPenn e autore di “Authentic Happiness” 1 spiega che ciò dipende dal fatto che, per lavoro, hanno abituato la propria mente a pensare in negativo. Gli avvocati migliori, infatti, sono i più pessimisti. “Il pessimismo è visto come un “plus” tra i legali, perché vedere problemi ovunque è un tipico atteggiamento della prudenza, fondamentale per chi svolge questa professione. Essere previdente permette a un avvocato di considerare tutte le trappole e le situazioni negative in cui può incorrere il proprio assistito. La capacità di calcolare in anticipo una serie di conseguenze, difficili da immaginare per chi è digiuno di legge, consente all’avvocato di costruire al meglio la difesa. Se non si possiede tale attitudine per natura, ci pensa l’università a fare da maestra. Peccato, però, che un requisito così prezioso nel lavoro non renda altrettanto felici nella vita privata”»

Dunque, il pessimismo per l’avvocato è una specie di deformazione professionale.

Ma non mi sembra mica una cosa da poco o che possa essere trascurata come invece fanno tutti…

Queste parole di Seligman andrebbero probabilmente distribuite a tutti quelli che si iscrivono all’albo, insieme alla conseguente raccomandazione di essere prudenti sul lavoro, usando il pessimismo solo come uno strumento, senza farlo diventare un punto di vista, e rimanendo rigorosamente ottimisti nella vita privata, pena l’eventualità di finire per rovinare l’uno e l’altra, dal momento che il pessimismo è devastante per le nostre vite e tutti gli ambiti in cui si esplicano.

Questo tra l’altro è tanto vero che secondo gli studi di un altro psicologo, Kevin Dutton, dell’Università di Oxford, la professione di avvocato si colloca al secondo posto come quella che comporta il maggior rischio per chi la svolge di sviluppare disturbi psicotici.

Ma se questa situazione fosse colpa non della professione in sé, ma degli avvocati stessi e del modo in cui loro la vivono?

Non lo so, in fondo, non sono né uno psicologo né un sociologo, so solo che, come avvocato, non intendo lasciarmi coinvolgere, né diventare pessimista – l’ottimismo lo devo, ad esempio, ai miei figli, ma anche a me stesso e a tanti altri – né tantomeno psicopatico.

Forse la prima rivoluzione che dovremmo fare è proprio quella della felicità, dell’ottimismo, di trovare da essere contenti con quello che si ha, vedendo sempre il bicchiere mezzo pieno anziché mezzo vuoto, come vorrebbero i più.

Questo tra l’altro ci consentirebbe di svolgere il nostro mestiere con più produttività, facendo lavorare all’unisono tutte le nostre intelligenze, e non usando solo quella razionale, che è la più recente, e più debole in fondo, ma usando anche quella emotiva (vi dice qualcosa il mio payoff di «avvocati dal volto umano»?), che ci fa essere molto più creativi, e ogni avvocato sa che di creatività c’è tantissimo bisogno in questa professione.

Quel che piace a me.

Sono discorsi che meriterebbero ben altri approfondimenti e sui quali magari avremo occasione di ritornare, nel frattempo faccio un elenco dei principali motivi per cui è bello fare l’avvocato, essere un avvocato, oggigiorno.

Questi sono i miei motivi, ognuno avrà i suoi, coincidenti solo in parte coi miei.

Parlo comunque delle cose che ti danno soddisfazione, ti fanno sentire felice nel momento stesso in cui le fai, come, in altri ambiti, un vestito nuovo, una doccia al mattino o a fine giornata, una gita, fare un dono, insomma le cose che ti piacciono, ti danno un godimento, sia pur piccolo, per il momento stesso di farle, o pensarle.

Mia moglie – ed associata nello studio – Franca è ad esempio sempre stata una campionessa dell’ottimismo e dell’affrontare le cose con fiducia, ed io l’ho sempre adorata per questo.

Interpellata sul tema su facebook, ha scritto, a mio giudizio molto giustamente, che «il lato positivo della professione sono le pause caffè e i pranzi con i colleghi tra un’udienza e l’altra». Perché no? Se questo è quello che ti fa andare volentieri in udienza… Non snobbiamo mai le cose semplici, non diamo niente per scontato, anzi focalizziamoci su quelle…

Ecco le cose che piacciono a me, in ordine rigorosamente sparso.

  • Perché, quando inizi una nuova vertenza, a volte la controparte nomina un legale di grande buon senso col quale riesci a trovare soluzioni in 5 minuti. Ricordo ad esempio una separazione fatta al telefono in 5 minuti con un collega di Vignola con cui lavorare è un piacere perché ci si capisce ed organizza subito al volo, senza bisogno di sprecare alcuna parola in più.
  • In questa professione, non devi fare turni di notte, che sono una delle cose che fa peggio per la salute, rompendo i ritmi circadiani dell’organismo, quelli endocrini e danneggiando, spesso irrimediabilmente, il sonno e il benessere, percepito e reale. Ricordo che oggigiorno molti lavoratori sono costretti ai turni di produzione. Oltre a questo, lavori, solitamente, al caldo d’inverno e al fresco d’estate, a differenza di tanti altri lavoratori che, ad esempio, con ogni condizione atmosferica devono andare per strada.
  • Hai a che fare con la burocrazia, sei in parte anche tu un burocrate, che però può dare un volto umano e parole di conforto in seno a pratiche difficili, essendo di vero aiuto, se non alto psicologico, alle persone. Puoi dare loro luce, conforto, sicurezza, chiarezza. Non è così poco.
  • Puoi trasformare i problemi in opportunità come ad esempio abbiamo fatto con le pratiche di equa riparazione. Con i ricorsi per equa, facciamo avere un risarcimento alle persone vittime delle lungaggini del sistema giudiziario italiano. È giusto che loro abbiano questi risarcimenti, è bello aver trasformato un problema in una opportunità di business, ma anche di servizio, per noi.
  • Puoi frequentare un ambiente, quello forense, composto da persone interessanti e con una certa cultura, sviluppando relazioni professionali, amicizie e altro di qualità. È quello che diceva Franca sopra: le relazioni sociali che puoi sviluppare e mantenere nell’ambiente del tribunale, in quello forense.
  • Sai che comunque il tuo «business forense», diciamo così, non avrà mai fine perché è basato sugli idioti, che sono una risorsa inesauribile, a differenza di quelle dei combustibili fossili. Gli antichi, con maggiore eleganza, esprimevano questo concetto con il brocardo «ubi societas ibi jus», che tra l’altro non è nemmeno vero, perché in molte aggregazioni sociali il diritto non esiste affatto e i conflitti vengono composti tramite il ricorso ad una figura di riferimento che decide in base a quello che gli sembra giusto in quel momento, quindi con equità e senza nemmeno sapere che esiste una cosa come il diritto. Non che tutte le vertenze legali richiedano necessariamente la presenza di un idiota, ma in una buona parte, almeno da un lato, se ne riscontra la ricorrenza.
  • Difficilmente, svolgendo questo mestiere, ti puoi annoiare. Non esiste, se non in minima parte, routine, perché ogni caso è diverso dall’altro quindi il rischio di annoiarsi come in altri mestieri è, generalmente, abbastanza basso. Conosci un sacco di persone, ognuna con una propria storia, quasi sempre interessante o quantomeno curiosa, che ti mettono davanti le loro vite con fiducia e completezza. Raccogli le confidenze di molte persone, quasi come un frate i peccati… Questo mestiere ci permette di conoscere persone ed entrare in contatto con situazioni e casi che altrimenti non avremmo mai conosciuto, toccare da vicino le miserie umane e vedere le cose sotto diversi aspetti e punti di vista.
  • Questo mestiere non possono, per legge, farlo tutti, ma è necessario superare un esame di abilitazione abbastanza impegnativo, superare il quale conferisce una certa soddisfazione e aumenta la tua autostima, inoltre devi essere titolare di una laurea magistrale in giurisprudenza, che spesso diamo per scontata ma che costa anni di studio e di sacrifici a noi e alle nostre famiglie.
  • Puoi tenere allenata la tua mente. Ti occupi di cose che stimolano la tua curiosità. Questo significa che è più difficile che tu possa rimanere vittima di una truffa, sei più preparato di fronte a spam, truffe, inganni, cose poco chiare. Significa inoltre che puoi sviluppare una tua cultura generale, non solo giuridica, in relazione ai casi che affronti, ma anche sfruttando il tempo libero che hai a disposizione. Rischi molto meno la demenza senile, l’Alzheimer e altre malattie degenerative e scusate se questo è poco… Credo che il desiderio fondamentale di ognuno di noi sia propri quello di rimanere lucido sino alla fine, oppure morire prima di rimbambirsi del tutto, diventando un peso per se stesso e per gli altri (live longer, drop dead).
  • Guadagni del denaro, che ti è utile per mantenere la famiglia e molte altre cose. Non è vero che i clienti non pagano e che il fisco e la cassa forense ti prendono tutto. Personalmente, lavoro da molti anni oramai solo sulla base di preventivi scritti e ho visto che dando la massima chiarezza al cliente sui costi prima di iniziare il lavoro, non ci sono quasi mai sorprese. Basta organizzarsi e fare anche noi la nostra parte. Il denaro non è così importante per me, rimane solo uno strumento per fare le cose che mi piacciono o accontentare le persone cui voglio bene, ma è innegabile che, proprio per questo, il denaro serva e che sia soddisfacente guadagnare, perché è uno dei tanti modi in cui viene riconosciuto il valore del tuo lavoro.
  • La tua professionalità cresce man mano che affronti casi nuovi, portandoti a diventare un avvocato sempre più bravo e sempre più «sul pezzo» man mano che lavori e affronti situazioni diverse.
  • Puoi aiutare davvero la gente, essere al suo servizio, non solo gli utenti finali, ma anche il personale di cancelleria, i magistrati, gli studiosi, gli studenti e così via
  • Hai un sistema previdenziale separato che è sempre meglio dell’INPS
  • Puoi studiare un sistema meraviglioso, ricco di tradizione, riferimenti, approfondimenti, aspetti interessanti come il diritto civile italiano. Paolo Borsellino è entrato in magistratura proprio per la passione del diritto civile, finendo poi a fare tutt’altro. Da questo punto di vista, l’Italia è stata davvero la culla del diritto, il sistema giudiziario fallimentare è un altro paio di maniche, ma chi conosce il codice civile e le leggi italiane, anche solo in parte, sa quanta ricchezza, anche culturale, ci sia al suo interno.
  • Puoi usare una penna stilografica, un taccuino di pelle e una scrivania antica, puoi arredarti lo studio e lo spazio di lavoro come ti pare… Puoi anche usare uno standing desk, come faccio io. Non ci sono molti altri lavori che ti danno la possibilità di organizzarti in questo modo lo spazio… Puoi usare una macchina bellissima, il Mac, per fare tutto quello che ti serve nel tuo lavoro. Poi l’iPhone, l’iPad, godendo di ottime scuse per comprare giocattoli come questi…
  • Da quanto sopra, discende anche che puoi lavorare da qualsiasi posto con le tecnologie oggi disponibili, rendendo il lavoro più liquido e di conseguenza diluito: puoi fare una telefonata, scrivere o rispondere ad una mail anche alla sera, alla domenica, al sabato quando sei più rilassato, meno incalzato; puoi rispondere ad un cliente con apple watch mentre sei in auto oppure sdraiato a prendere il sole, non sei vincolato ad una scrivania o ad un posto specifico per fare il tuo lavoro, sei, in fin dei conti, in qualche modo più libero.
  • Puoi usare i social network per farti conoscere, approfondire, studiare, essere aggiornato. Puoi tenere un blog, come questo, con cui comunicare con la generalità del pubblico e fare conoscere le tue idee.
  • Puoi, specialmente se ti associ con altri colleghi, avere un’assistente che ti aiuta con la gestione degli appuntamenti, le telefonate, il deposito degli atti al processo civile telematico e un sacco di altre cose…
  • Puoi essere creativo anche nel marketing…
  • Hai a che fare e devi lavorare per lo più con la strategia, che con il diritto.
  • Puoi gestire con più elasticità i tuoi figli senza bisogno di lasciarli con baby sitter puoi prenderti del tempo per stare con loro, qualche volta puoi anche farli venire sul posto di lavoro per fargli vedere concretamente quello che fai, una cosa che per molti figli di lavoratori dipendenti specialmente di grandi aziende resta impossibile ed è un peccato perché per i figlio vedere scomparire tutti giorni per tutto il giorno il padre senza sapere dove va o cosa fa non è bello.
  • Frequenti il tribunale, uno dei pochi contesti rimasti in cui la gentilezza rende moltissimo e questo a me piace molto.
  • Puoi applicarti e risolvere, spesso elegantemente, problemi, impostando strategie, tracciando strade e raggiungendo soluzioni. Riesci a volte a risolvere un problema all’ultimo istante grazie ad una intuizione vincente e tutte queste sono sfide stimolanti.

Conclusioni.

Come si può vedere, le cose positive non sono poi così poche, una volta che si rinuncia a dare per scontate tutte le altre cose.

Queste, cose dicevo, sono solo le mie cose, quelle che mi fanno andare avanti, che mi danno piacere nello svolgere questo mestiere.

Se vuoi, puoi scrivere anche tu le tue, o i tuoi commenti sulle mie, lasciando qualche riga qui sotto…

Cerchiamo tutti insieme di trovare gli aspetti positivi del nostro mestiere 😉

Buona vita, e buona professione, a tutti.

E chi invece non riesce a trovarsi bene?

Per i colleghi avvocati che, nonostante tutto, si trovano in difficoltà, e di conseguenza a disagio, ho scritto in seguito questo post, alla cui lettura invito tutti, specialmente coloro che appunto non riescono ad individuare le cause dei loro problemi e dunque anche le cose da fare per migliorare la loro situazione.

Fare l’avvocato è bellissimo è diventato una scuola e un libro.

Questo post è uno dei più letti e commentati da quando esiste il blog, segno che ha colpito nel segno e nella ferita dell’insoddisfazione e della percepita inadeguatezza di molti legali oggigiorno.

Cercando di volgere in positivo tutto questo, ho aperto una scuola di pratica forense, che insegna agli avvocati come migliorare il loro modo di lavorare in modo da ottenere soddisfazione personale ed economica, e ho scritto un libro, che si chiama proprio come il post, «Fare l’avvocato è bellissimo», per dare anche per iscritto quelle indicazioni che fornsico ai miei studenti e consentire così a tutti di avere gli strumenti per poter essere un bravo e soprattutto felice e soddisfatto avvocato.

Per maggiori informazioni sulla scuola e sul libro, clicca sui collegamenti seguenti:

Evviva noi.


  1. Tradotto e reso disponibile in Italiano col titolo «Costruire la felicità». Il libro è attualmente fuori catalogo e a quanto pare superato dal più recente e disponibile «Fai fiorire la tua vita» . ?
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Atti legali: 3 regole per farli bene.

Premessa.

Questo è un post più che altro per i colleghi avvocati e contiene le tre regole di base che, se rispettate, possono consentire di redigere un atto processuale con qualche speranza di essere letto e, poi, avere qualche influenza sulle decisioni del giudice.

A qualcuno sembreranno banali, ma vi posso assicurare che l’aria degli atti processuali depositati nei tribunali è molto lontana da questi standard qualitativi minimi.

1) L’atto deve essere sintetico.

Questo è fondamentale. Il codice del processo amministrativo lo prevede espressamente, i codici degli altri rami del diritto ancora n,o ma è una regola non scritta assolutamente necessaria e imprescindibile.

I giudici non leggono, hanno tantissimo lavoro da fare. Se un avvocato gli espone la materia senza costringerli a leggere 20 pagine (o a far finta di averle lette) gli sono grati.

Un atto di 2 pagine ha inoltre molte più possibilità di essere letto di uno di 20.

2) L’atto deve riguardare per lo più i fatti.

Sul diritto i giudici hanno, di solito, già le loro idee ed è poco realistico pensare di potergliele cambiare.

Bisogna esporre i fatti di causa in modo chiaro, lasciando perdere tutte le cose meno importanti, sia per la esigenza di sintesi di cui abbiamo già detto, sia perché le cose stupide, quelle che alcuni avvocati inseriscono tanto per far contenti i loro clienti, col loro rumore impediscono alle cose importanti di emergere. Occorre invece esporre con semplicità i principali fatti di causa, dai quali si ritiene che debbano derivare conseguenze giuridiche. Al diritto, si può riservare uno spazio molto più limitato, un accenno con le richieste che si fanno in relazione ai fatti esposti.

Fanno eccezione solo le cause in cui si discute di una questione giuridica, in quei casi il quadro cambia completamente, anche se le indicazioni sulla chiarezza e la sintesi intorno ai temi fondamentali valgono anche per quelle.

3) La indicazione dei fatti deve essere comprovata pressoché esclusivamente con documenti.

I documenti sono a tutt’oggi, e credo lo rimarranno ancora per molto tempo, assolutamente centrali e fondamentali per la dimostrazione delle proprie ragioni.

Scordiamoci per lo più di poter usare dei testimoni, che, quando va bene, spesso sono sentiti dopo anni dai fatti o dall’inizio della causa e a quel punto non si sa bene che cosa possano dire o che cosa possa, di quel che dicono, ritenere affidabile il giudice.

La legge dice che il processo civile è orale, ma è una balla colossale, una delle più gigantesche menzogne della storia dell’umanità.

Dovete avere dei documenti, anche un principio di prova, cioè anche un documento che non prova il fatto in modo diretto ma lo rende verosimile.

Uno può pensare che sia difficile reperire documenti, in realtà non è mai stato facile come oggigiorno, specialmente nelle cause familiari: email, sms, messaggi facebook… Di moltissime cose oggigiorno c’è almeno una traccia scritta.

Molti, infatti, commettono proprio l’errore di produrre troppi documenti. Ad esempio, se si hanno degli sms o delle email come «prova», non bisogna assolutamente produrre 10 pagine contenenti tutti i messaggi che i protagonisti della vicenda si sono scambiati, perché il giudice non li leggerà mai, ma occorre selezionare quei 4 o 5 più significativi. La maggior parte degli avvocati (ma anche clienti, per la verità) a volte, per pigrizia, buttano tutto nel mucchio: secondo voi il lavoro di selezione che avrebbero dovuto fare l’avvocato e il suo cliente lo farà il giudice per loro? Se vi piace la fantascienza, accomodatevi pure.

Sui documenti è necessario fare un lavoro preciso, minuzioso, accurato e per fare questo è indispensabile la collaborazione tra cliente e avvocato: gli avvocati devono essere precisi e dedicare abbastanza tempo al tema, i clienti devono essere rapidi nel reperire quello che gli viene chiesto e nel trasmetterlo all’avvocato nel modo indicato (io ad esempio ho un metodo particolare di gestire la documentazione che mi fa risparmiare molto tempo prezioso e chiedo ai miei clienti di conformarcisi, se possono).

I documenti, poi, bisogna «farli parlare» [1] non è assolutamente sufficiente affastellarli nel fascicolo, ma bisogna richiamarli nel corpo dell’atto, riportandone le parole più significative e, se del caso, commentandoli.

Conclusioni.

Queste sono le tre regole di base per la redazione di un atto processuale che abbia la possibilità di essere letto (che già non è poco) e di influire sulla decisione del giudice.

Attualmente, circa il 70-80%, la stragrande maggioranza quindi, degli atti depositati nei tribunali non è conforme a queste indicazioni, per vari motivi, tra cui anche la cifra stilistica degli avvocati, un genere di professionisti abbastanza poco propensi ad innovare.

In realtà, dove ci sono spazi per un legale deve essere considerato un dovere essere creativo e innovare.


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Allegati PEC su iPhone: la soluzione.

  

Con il varo di iOS 8, purtroppo in Apple Mail è stato introdotto un baco che rende impossibile leggere gli allegati contenuti nei messaggi di posta elettronica certificata. 

La cosa rappresenta un problema piuttosto grave per tutti gli avvocati che utilizzano periferiche Apple, considerato che si ricevono fondamentali messaggi PEC pressoché tutti i giorni, adesso che è stato implementato il processo civile telematico. 

La cosa è ancora più fastidiosa se si considera il fatto che molti avvocati, me compreso, ormai lavorano più con il telefono che con il Mac.

Il baco consiste nel fatto che cliccando sull’allegato… Non succede assolutamente niente, è in sostanza impossibile aprirlo. 

Per ovviare a questo problema sono state proposte alcune soluzioni in realtà dei workaround, cioè più che una soluzione un modo per aggirare il problema,  come ad esempio l’utilizzo di client di e-mail alternativi, uno dei più gettonati dei quali è Altamail.

A me tuttavia questa soluzione non piace: la grafica del programma è assolutamente orribile, inaccettabile per gente innamorata del design come solitamente gli utenti Apple, inoltre si tratta di un’applicazione a pagamento con il sistema del in-app purchase che non consente nemmeno la condivisione in famiglia.

Una soluzione a mio giudizio molto migliore è quella di usare un’altra applicazione di terze parti, tuttavia dedicata non tanto alla gestione della posta elettronica, bensì a quella dei files: si tratta di Goodreader

Non tutti sanno che GoodReader può accedere anche ai files che si trovano ad essere allegati a messaggi di posta elettronica dentro cartelle IMAP. 

Ecco ad esempio il mio elenco di server configurati. Accanto a fornitori classici di files come dropbox ho configurato anche il mio account pec (su Aruba):

  

Cliccando sul server, si accede all’elenco delle cartelle:

 

Entrando nella Inbox si vede l’elenco di tutti i messaggi e, infine, selezionandone uno, se ne vedono tutti gli allegati, come in questo esempio: 

 

Voilà. È sufficiente a questo punto fare clic sul PDF per scaricarlo in locale. Dopo sarà possibile scompattarlo, quindi leggerlo, eventualmente annotarlo, evidenziarne alcune parti, sottolinearlo e c. sempre con Goodreader che, appunto, è un ottimo reader ed editor di PDF. 

Al termine, si potrà inviarlo tramite mail oppure caricarlo direttamente su Dropbox, che è il file system nella nuvola di molti avvocati, me compreso.