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Divorzio: senza prova dell’accollo, anche la moglie deve corrispondere metà rate del mutuo stipulato da entrambi per l’ex casa coniugale 

Divorzio: senza prova dell’accollo, anche la moglie deve corrispondere metà rate del mutuo stipulato da entrambi per l’ex casa coniugale 

Con la recente ordinanza n. 1072/2018 (depositata il 17 gennaio 2018), la Corte di Cassazione interviene in riforma della pronuncia della Corte d’Appello di L’Aquila, con la quale i giudici di merito in sede di appello sulla sentenza di divorzio avevano modificato la decisione di primo grado e posto a carico del marito il pagamento dell’intera quota delle rate del mutuo, pur stipulato da entrambi, anche dopo la pronuncia della separazione e, per l’effetto, lo scioglimento del regime patrimoniale di comunione legale dei coniugi.

La decisione della Corte d’Appello si basava sulla presunta volontà del marito di farsi carico di questo incombente per intero, volontà desunta dal provvedimento presidenziale provvisorio con cui il Tribunale aveva stabilito le condizioni economiche del divorzio.

In sede di ricorso per Cassazione, l’ex marito contesta tale decisione per violazione, tra gli altri, degli artt. 1273, 1322, 1326, 1362 e 1299 c.c, lamentando in particolare l’erroneità di dedurre un impegno così importante quale l’accollo per intero delle rate del mutuo (in luogo della quota ordinariamente dovuta come cointestatario, cioè il 50%) in via meramente presuntiva, senza che tale volontà risultasse nè dagli atti difensivi nè dai verbali di udienza e nemmeno da altro atto.

Questa prospettazione ha trovato pieno accoglimento nella pronuncia della Suprema Corte: «[…] Non v’è dubbio, in primo luogo, che la prova dell’accollo non potesse desumersi dalle mere premesse di un provvedimento (peraltro temporaneo e destinato ad esaurire i suoi effetti col passaggio in giudicato della sentenza di divorzio) che non solo non conteneva alcuna statuizione a riguardo, ma ometteva di dare atto delle modalità attraverso le quali l’odierno ricorrente aveva manifestato l’effettiva volontà di assumere per l’intero, in via definitiva, l’obbligazione di pagamento: la prova in questione avrebbe, piuttosto, dovuto essere tratta da elementi documentali (dichiarazioni di G., verbali delle (anse di separazione e divorzio), eventualmente avvalorati (anzichè, come nel caso, palesemente smentiti) dal successivo comportamento processuale delle parti. […]».

Ciò sottolineando peraltro anche un ulteriore profilo di incongruità della sentenza d’appello, ossia la mancata valutazione del rigetto della domanda di pagamento integrale del mutuo a carico dell’ex marito: «[…] Risulta, inoltre, del tutto anodino (e sostanzialmente incomprensibile) il successivo passaggio motivazionale, con il quale la corte del merito si è limitata a rilevare che il capo della sentenza di divorzio che aveva rigettato la domanda di M. di corresponsione di un assegno divorzile non incideva sulla propria decisione, ma ha omesso totalmente di considerare che detta sentenza, dopo aver escluso (in contrasto con quanto da essa accertato) che il provvedimento presidenziale avesse tenuto conto dell’impegno assunto da G. di pagare in via esclusiva il mutuo gravante sulla casa coniugale, aveva anche respinto l’ulteriore domanda della signora, volta ad ottenere che l’obbligo di pagamento delle rate del mutuo fosse posto a carico esclusivo dell’ex coniuge. […]».

Pertanto la Cassazione conferma come dopo la separazione le rate del mutuo vadano pagate in egual misura dai cointestari e se così non fosse chi adempie per intero va rimborsato dall’altro, fatta salva una specifica e precisa volontà di accollo da parte dell’ex coniuge (che deve essere dimostrata). Oppure, che tale obbligo di pagamento venga posto a carico sì di uno degli ex coniugi, ma in funzione di misura sostitutiva dell’assegno divorzile (nel caso di specie non accordato).

 

 

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Diffamazione via internet: come si identifica l’autore del reato?

Un caso recentemente deciso dalla Cassazione fornisce utili elementi per capire come può essere identificato l’autore di un reato commesso tramite internet in un processo penale. La cosa avviene in modo molto diverso da quello che generalmente si immaginano le persone comuni, per cui vale la pena dare un’occhiata.

La Suprema Corte infatti, con la sentenza, sez. V Penale, del 8 giugno – 6 agosto 2015, n. 34406,  riconosce l’attendibilità degli accertamenti tecnici che consentono, con il supporto di argomentazioni logico-deduttive, di identificare l’autore del reato di diffamazione a mezzo web.

In particolare, nel provvedimento citato, la Corte ritiene incontestabili gli accertamenti tecnici eseguiti dagli organi giudiziari, diretti ad identificare il dispositivo – contraddistinto dall’ IP (Internet Protocol Address) – associato al router per l’accesso alla rete, dal quale l’annuncio diffamatorio è stato creato e diffuso; nonché il preciso arco temporale in cui l’azione si è svolta.

La Corte di Cassazione rigetta ogni eccezione di insufficienza probatoria sollevata dal difensore dell’imputato; viene, infatti, rilevato che non avrebbe avuto alcun senso svolgere indagini sull’indirizzo e-mail, in quanto gli indirizzi IP non sono associati alle caselle di posta elettronica, ma ai dispositivi (router, PC, palmare, ecc.) collegati alla rete.

Non rileva, neppure, il fatto che non siano stati effettuati accertamenti sul computer dell’imputato, dal momento che il collegamento alla rete potrebbe essere stato effettuato con qualsiasi Personal Computer collegato alla terminazione di rete (modem o modem/router) della linea telefonica fissa, istallata nel luogo di abitazione.

Irrilevante, inoltre, l’affermazione che i router possono presentare più di un’interfaccia, giacché per la tipologia di impianti normalmente utilizzati presso le utenze domestiche, le diverse interfacce utilizzano indirizzi IP privati diversi, ma condividono un unico indirizzo IP verso la rete pubblica che consente l’identificazione del dispositivo cui è assegnato (in una determinata finestra temporale).

Quanto alla prospettata eventualità che terzi abbiano profittato del router wifi, privo di password, dell’imputato (wardriving), per la Suprema Corte non è che una mera ipotesi, soverchiata dalla considerazione che nessuno, ad eccezione dell’imputato, aveva interesse a diffamare la persona offesa nel caso di specie.

La decisione dimostra una particolare fiducia nelle regole tecniche che – seppur ostacolata da lacune normative – trova conforto nell’iter argomentativo seguito dal giudice.

 

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Il pernotto dall’altro genitore può essere escluso fino ai 4 anni di età del bambino.

Bimbo che dorme

 

Ha suscitato un certo interesse una recente sentenza della Cassazione che tocca il tema del pernotto di bambini ancora molto piccoli, un problema che si presenta in alcune separazioni più conflittuali delle altre, dove venendo a mancare un po’ di buon senso, il genitore non affidatario o collocatario pretenderebbe di tenere con sé a dormire bambini ancora molto piccoli. Con questa pronuncia, la Cassazione sembra suggerire come limite per consentire il pernotto l’età di 4 anni, che sembra corrispondere a quello che viene per lo più praticato nelle famiglie disgregate in cui non ci sono conflitti al riguardo. Riportiamo di seguito il testo della sentenza, che magari può essere utile sia a qualche collega che alle persone toccate da questo problema. A queste ultime ricordiamo come sempre che … è solo una sentenza, non una legge dello Stato, vale come eventuale argomento di convincimento o persuasivo per il giudice che si occupa concretamente del caso, ma non è vincolante; questo non significa che non valga nulla, è un argomento a favore di una certa soluzione, anche se non un obbligo a decidere in quel senso.

 

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 14 giugno – 26 settembre 2011, n. 19594
Presidente Luccioli – Relatore FelicettiSvolgimento del processo1. La sig.ra P.E. con ricorso ex art. 317 bis cod. civ., notificato il 3 agosto 2009 al sig. A.L. – con cui aveva avuto una relazione dalla quale era nato il figlio A. , riconosciuto da entrambi i genitori – chiedeva al tribunale per i minorenni di Perugia di regolamentare il diritto di visita del padre e di determinare l’assegno a suo carico per il mantenimento del minore. Analogo ricorso, che con il primo veniva riunito, veniva proposto dal sig. A..
Il tribunale, con decreto 5 febbraio 2010, disponeva l’affido congiunto del minore, il suo collocamento presso, la madre, le modalità di frequentazione del padre e dei nonni paterni (con diritto anche di quest’ultimi di tenere il bambino presso di sé) con il minore e un assegno di mantenimento a carico del padre di Euro 1000,00 mensili. La sig.ra P. proponeva reclamo avverso tale provvedimento alla Corte d’appello di Perugia, sezione per i minorenni, chiedendo la modifica del provvedimento del tribunale, in particolare restringendo gli orari di visita del padre ed escludendo il diritto a tenerlo presso di sé anche la notte fino al compimento del quarto anno di età, nonché escludendo il diritto di visita dei nonni. Il sig. A. chiedeva il rigetto del reclamo e l’ampliamento della propria frequentazione con il minore, confermando quello dei nonni. La Corte d’appello, con decreto depositato in data 25 marzo 2010, limitava il diritto del padre a tenere presso di sé di notte il minore e revocava il diritto autonomo di visita dei nonni. Il sig. A. ricorre a questa Corte avverso il decreto, con atto notificato alla controparte il 23 aprile 2010, nonché al P.G. presso la Corte d’appello di Perugia. La parte intimata resiste con controricorso notificato il 19 maggio 2010 e memoria.
Motivi della decisione
1.1. Con il primo motivo si denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 317 bis c.p.c., nonché della legge n. 54 del 2006 e delle Convenzioni internazionali. Si deduce al riguardo che le limitazioni agl’incontri fra il ricorrente e il figlio, con l’autorizzazione al l pernottamento una sola notte a settimana, sono state motivate con la tenera età del bambino e la mancata convivenza del gruppo familiare dopo la sua nascita, che gli impedirebbe la piena identificazione della figura paterna quale figura di riferimento. Tale motivazione si fonderebbe sull’erroneo presupposto che non vi sia stata convivenza fra i genitori del minore, mentre il ricorrente in effetti dormiva nella casa familiare, anche dopo la sua nascita, quattro notti su sette e dopo la separazione dalla madre del bambino aveva affittato una casa a pochi chilometri di distanza da quella. Comunque detta convivenza non poteva essere assunta dalla Corte di merito quale motivo per la sua decisione, non prevedendolo alcuna legge, così come non è valido motivo per la su detta decisione la tenera età del bambino.
1.2. Il motivo è inammissibile.
Vero è che in tema di affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio la legge n. 54 del 2006, dichiarando applicabili ai relativi procedimenti le regole da essa introdotte per quelli in materia di separazione e divorzio, ha reso impugnabili con il ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., i provvedimenti emessi dalla Corte d’appello, sezione per i minorenni, in sede di reclamo avverso i provvedimenti adottati ai sensi dell’art. 317-bis relativamente all’affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio ed alle conseguenti statuizioni economiche (Cass. 30 ottobre 2009, n. 23032). Ma la relativa impugnazione deve essere mantenuta nei precisi limiti previsti dall’art. 360 c.p.c., cosicché dinanzi a questa Corte non possono essere rimessi in discussione né gli accertamenti di fatto compiuti dalla Corte d’appello, se non con precise censure di ordine motivazionale, né le valutazioni di stretto merito, che sono del tutto estranee al giudizio di legittimità.
Nel caso di specie, sotto il profilo formale della violazione di legge, in effetti si contesta, senza indicare risultanze probatorie delle quali sia stato omesso l’esame, ovvero vizi di ordine logico nella motivazione, l’accertamento della Corte d’appello secondo il quale “nel caso in esame una reale convivenza fra i genitori non vi è mai stata in quanto, a prescindere da alcuni punti di divergenza nelle relative versioni, è pacifico che l’avv. A. svolge la sua attività lavorativa professionale a Milano e che alcuni giorni si intrattiene anche a Firenze, ove risiedono i suoi genitori, cosicché la convivenza è stata non solo sicuramente breve ma anche del tutto sporadica se non occasionale”. Parimenti si contesta la valutazione di merito della Corte d’appello secondo la quale, tenuto conto dell’assenza di una convivenza del padre con il bambino prima della rottura del rapporto con la madre, nonché della situazione lavorativa, con i su detti spostamenti, del padre, la permanenza notturna del minore presso di lui andava ridotta, sino all’età di quattro anni,ad una sola notte la settimana.
Ne deriva che, essendo gli accertamenti compiuti di mero fatto e i criteri usati dalla Corte d’appello finalizzati a una valutazione di opportunità, il motivo va dichiarato inammissibile, risolvendosi nella censura di valutazioni riservate in via esclusiva alla Corte di merito in relazione alle quali non vengono prospettati vizi motivazionali.
2.1. Il secondo, il terzo e il sesto motivo vanno esaminati congiuntamente.
Con il secondo motivo si denuncia ancora la violazione delle medesime norme di legge – applicabili anche ai figli naturali – in quanto queste elevano la bigenitorialità a principio cardine del sistema familiare vigente, in attuazione degli artt. 29 e 30 Cost. e del principio di uguaglianza, in forza del quale il figlio ha diritto ad avere un rapporto continuativo con entrambi i genitori, anche ove si separino. La motivazione della Corte d’appello violerebbe tale principio.
Con il terzo motivo si denuncia la violazione della Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989 che impone agli Stati di rispettare il diritto del fanciullo “di mantenere relazioni personali e contatti diretti in modo regolare con entrambi i genitori, salvo quando ciò sia contrario all’interesse superiore del fanciullo”.
Con il sesto motivo si lamenta la violazione degl’interessi paterni e di quelli del minore, costituzionalmente garantiti, compromessi dalla compressione della concreta esplicazione della potestà genitoriale del padre a vantaggio della madre.
2.2. I motivi sono infondati, disponendo l’art. 155 cod. civ. che il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato con entrambi i genitori, ma la sua attuazione è rimessa al giudice, il quale (art. 155, comma 2) per realizzare la finalità su detta “adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa”, determinando esclusivamente in relazione a tale interesse “i tempi e le modalità” della sua presenza presso ciascun genitore”, prendendo atto solo se non contrari all’interesse del figlio degli stessi accordi fra i genitori. Parimenti la Convenzione citata dal ricorrente indica quale metro di valutazione l’interesse del minore.
Ne deriva che la Corte d’appello non ha violato le norme di riferimento nel determinare e limitare – sino al compimento del quarto anno di età – il pernottamento del minore presso il padre nella maniera che ha ritenuto più conforme al suo interesse in relazione all’età, non risultando affatto compromessa da tale limitazione alle disposizioni dettate dal tribunale, per il resto confermate, la realizzazione di un rapporto equilibrato anche con il padre, nei primissimi anni di vita del bambino.
3. Con il quarto motivo si denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 16 Cost., in quanto il decreto impugnato nel disciplinare i pernottamenti del minore con il padre li limita al territorio della città di Perugia, cosi violando la libertà di circolazione del ricorrente.
Il motivo è infondato, nessuna limitazione essendo apportata dal decreto impugnato – con il disporre che i pernottamenti del bambino dovranno avvenire in Perugia, dove il minore risiede – al diritto del ricorrente di spostarsi a suo piacimento sul territorio nazionale, ma avendo detto decreto legittimamente regolato, nell’interesse del figlio in tenerissima età, le modalità di frequentazione del padre, stabilendo il luogo in cui potrà tenerlo con sé anche la notte secondo le modalità previste nel decreto.
4. Con il quinto motivo si denunciano vizi motivazionali su un punto decisivo, deducendosi che la decisione della Corte d’appello sarebbe disancorata dagli accertamenti, compiuti dal giudice di primo grado, con particolare riferimento a quelli dei servizi sociali, basandosi su considerazioni del tutto astratte.
Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza, non riportandosi in esso le specifiche risultanze istruttorie che la Corte d’appello avrebbe omesso di esaminare.
7. Con il settimo motivo si denuncia la violazione del diritto dei nonni a vedere il nipote, garantito dall’art. 155 cod. civ..
Il motivo è infondato, attribuendo l’art. 155 cod. civ. al minore il diritto di “conservare rapporti significativi” anche con i nonni, pur se nato fuori dal matrimonio, ma rimettendo comunque al giudice di regolarne l’attuazione, tenendo conto dell’interesse del minore, cosa che nel caso di specie la Corte d’appello, con valutazione non incongrua e come tale incensurabile in questa sede, ha fatto regolamentando i suoi incontri con i nonni.
Il ricorso deve essere rigettato con la condanna del ricorrente alle spese del giudizio di cassazione, che si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte di cassazione
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del giudizio di cassazione, che liquida nella misura di Euro duemilasettecento, di cui Euro duecento per spese vive, oltre spese generali e accessori come per legge.

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Cassazione, sezioni unite civili, ordinanza 16 marzo 2010, n. 6306

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Ordinanza 16 marzo 2010, n. 6306

Svolgimento del processo

    • B.L. ha proposto alla corte d’appello di Perugia una domanda di equa riparazione.

Ciò per la non ragionevole durata del processo di merito a suo tempo iniziato davanti al pretore di La Spezia, proseguito in appello e pendente, alla data della domanda, davanti a questa Corte.

La corte d’appello di Perugia ha dichiarato il proprio difetto di competenza per territorio.

Ha indicato come giudice competente la corte d’appello di Torino, che a sua volta ha chiesto il regolamento di ufficio della competenza.

    • La prima sezione – in seguito alla discussione dell’istanza in camera di consiglio – ha rimesso il procedimento al primo presidente, che lo ha assegnato alle sezioni unite.

Motivi della decisione

    • La questione su cui le sezioni unite si debbono pronunciare riguarda l’interpretazione della norma sulla competenza dettata dalla L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 3, comma 1.

La disposizione è così formulata:

  • “La domanda di equa riparazione si propone dinanzi alla corte di appello del distretto in cui ha sede il giudice competente ai sensi dell’art. 11 c.p.p., a giudicare nei procedimenti riguardanti i magistrati nel cui distretto è concluso o estinto relativamente ai gradi di merito ovvero pende il procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata”. 2. – La disposizione ha conosciuto sin qui un’interpretazione che ne ha progressivamente ristretto l’ambito di applicazione ai soli casi di giudizio presupposto svoltosi davanti ai giudici ordinar, per il resto dando spazio alle regole processuali di diritto comune (così, tra le altre, Cass. 5317 del 2008, 4480 del 2006, 11300 del 2004).

Un’ulteriore contrazione del possibile spazio applicativo la disposizione l’ha conosciuta a proposito delle domande di equa riparazione a fondamento delle quali è stato dedotto il ritardo occorso davanti alla Corte di cassazione, in quanto giudice non localizzato in un distretto (Cass. 20271 e 15842 del 2005).

La competenza ne è risultata attratta alla disciplina comune.

2.1. – La sezione semplice, appunto in un caso di questo tipo, nel chiedere che sulle questioni sorte in sede di interpretazione della disposizione prima richiamata intervenissero le sezioni unite, ha svolto le considerazioni che seguono.

L’applicabilità delle norme ordinarie di competenza ordinaria va considerata alla luce del principio, secondo il quale la L. n. 89 del 2001, art. 2, delinea in modo unitario il diritto all’equa riparazione, e correlativamente l’azione con cui il diritto è fatto valere, senza autorizzare frazionamenti o scissioni con riferimento a vicende o fasi del processo.

Pertanto, benchè sia possibile individuare degli standard di durata media ragionevole per ogni fase del processo, si deve sempre procedere ad una valutazione complessiva, anche quando il processo si è articolato in gradi e fasi e questo può fare escludere la sussistenza del diritto, qualora il termine di ragionevole durata di una fase risulti violato, senza però che lo sia stato quello concernente l’intera durata del processo, nelle due fasi di merito e di legittimità. Nè va sottaciuto che non rientra nella disponibilità della parte riferire la propria domanda ad uno solo dei gradi di giudizio, optando per quello in cui sia stato sforato il limite interno di ragionevolezza, segmentando a propria discrezione la vicenda processuale presupposta.

A proposito poi di una tesi prospettata in dottrina, per cui nel caso in cui la violazione sia riferibile alle fasi di merito si dovrebbe applicare la norma speciale, mentre andrebbe applicata quella comune quando l’eccessiva durata si sia verificata nella fase di legittimità, la sezione ha osservato che la tesi incontra oltre all’ostacolo costituito dalla configurazione unitaria del giudizio, quello per cui, per determinare in concreto la regola di competenza applicabile, sarebbe prima necessario delibare a quale segmento processuale riferire la violazione del termine di ragionevole durata.

La sezione ha concluso osservando che il carattere unitario del giudizio e la valorizzazione del luogo di conclusione del medesimo (in relazione ad una delle sue fasi), anche ai fini della identificazione del giudice competente per territorio a conoscere della domanda, potrebbero realizzare una sostanziale alterazione del criterio stabilito nell’art. 3, comma 1, della legge, tenuto conto del numero non infrequente di processi che si svolgono in tutte le fasi.

    • Le sezioni unite ritengono che della disposizione sia da accogliere una interpretazione, che non incompatibile con il suo dato letterale, ne coglie le ragioni ed al tempo stesso assicura una uniforme applicazione della norma per tutta l’area del contenzioso originato dalla L. n. 89 del 2001.

Interpretazione, quella che si accoglie, che considera in modo unitario il giudizio presupposto nel quale si è determinato il superamento della durata ragionevole; assume a fattore rilevante della sua localizzazione la sede del giudice di merito distribuito sul territorio, sia esso ordinario o speciale, davanti al quale il giudizio è iniziato; ed al luogo così individuato attribuisce la funzione di attivare il criterio di collegamento della competenza e di individuazione del giudice competente sulla domanda di equa riparazione, che è stabilito dall’art. 11 c.p.p., ed è richiamato nell’art. 3, comma 1, della legge.

4.1. – Diversamente da quanto pure si è ritenuto in precedenza, tutto ciò non può trovare ostacolo sul piano lessicale nel fatto che la disposizione faccia uso di un termine (distretto), che è proprio della distribuzione sul territorio delle corti di appello.

Ciò che ha costituito argomento per restringerne l’ambito di applicazione ai soli casi in cui il giudizio presupposto si svolga davanti al giudice ordinario e d’altra parte ha favorito la formazione d’una giurisprudenza volta ad escludere che l’art. 3, comma 1, della legge si applichi al caso che il segmento di giudizio presupposto dedotto a fondamento della domanda si sia svolto davanti a questa Corte.

E’ agevole osservare che il termine distretto appartiene alla descrizione del criterio di collegamento, che il legislatore importa dalla disposizione processuale penale e che la sua valenza di delimitare un certo ambito territoriale può funzionare in modo identico, quale che sia l’ufficio giudiziario davanti al quale il giudizio presupposto è iniziato e l’ordine giudiziario cui appartiene, perchè dell’ufficio giudiziario viene in rilievo la sede e non l’ambito territoriale di competenza.

4.2. – E’ agevole ancora osservare che, quando si è trattato di disciplinare la legittimazione passiva rispetto alla domanda di equa riparazione, il legislatore ha previsto una serie di distinzioni, appuntando la legittimazione sulle amministrazioni governative di riferimento per gli aspetti organizzativi delle diverse giurisdizioni (art. 3, comma 3, della legge).

E non è allora giustificato ipotizzare che un legislatore il quale affida ad una legge destinata a regolare gli effetti del fenomeno della durata non ragionevole del processo, quale che sia il giudice davanti al quale si svolge, abbia espresso la volontà di statuire una diversità di disciplina della competenza mediante l’impiego della parola “distretto” anzichè con una specifica disposizione intesa a far salva l’applicazione della norma processuale civile.

4.3. – Il dilatarsi del contenzioso innescato dalla L. n. 89 del 2001, che fa ricadere sul bilancio dello Stato un onere sempre più gravoso a causa del perdurare del fenomeno della eccessiva durata del processo, in diverso modo comune alle varie giurisdizioni, rende a questo punto ragionevole l’interpretazione qui accolta, che i giudici ordinari che debbono deciderne non sia prossimi a quelli speciali davanti ai quali il ritardo si manifesta e consente di ritenere superate le considerazione svolte nella sentenza 17 luglio 2007 n. 287, dove la Corte costituzionale ha ritenuto non fondate le preoccupazioni, che invece danno ragione del perchè la norma speciale debba applicarsi al posto di quelle ordinarie.

4.4. – L’interpretazione accolta favorisce poi la diffusione del contenzioso sull’intero sistema delle corti di appello, anzichè una sua elevata concentrazione su quella di Roma, resa possibile dal fatto di avervi sede gli organi di vertice dei diversi ordini giudiziari, ordinario e speciale.

    • La decisione sul regolamento di ufficio chiesto dalla Corte di appello di Torino è che la competenza a decidere sulla domanda le spetti.

P.Q.M.

La Corte dichiara la competenza della Corte di appello di Torino ed assegna per la riassunzione davanti alla stessa il termine di 90 giorni dalla comunicazione della presente ordinanza.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di Cassazione, il 1 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 16 marzo 2010.