Premessa
Questo post rappresenta l’applicazione alla mia professione di avvocato, quindi specialista no food e figura professionale prodotta dalla «civiltà» come poche altre, delle riflessioni discendenti dal punto di vista evolutivo, punto di vista che, come ho già detto in svariate occasioni e come ben sa chi mi segue sulle reti sociali, mi sembra quello più adatto per guardare e valutare l’uomo e la società.
Più semplicemente, ed in altri termini, recentemente mi è capitato sempre più spesso, svolgendo la professione forense tutti i giorni e confrontandomi con sempre più persone e problemi diversi, di chiedermi se davvero il diritto, applicato dal sistema giudiziario e dall’apparato amministrativo statuale, sia lo strumento più indicato per la gestione dei conflitti tra gli uomini o comunque della società in generale, come i governanti hanno sempre tentato di inculcare a tutti i cittadini in generale e agli avvocati, concepiti come professionisti del diritto, deputati a collaborare alla sua applicazione, ancora di più.
O se invece il diritto non sia il solito ripiego, il palliativo, la pallida imitazione di quello di cui avremmo davvero bisogno, come sempre offerto dalla cosiddetta «civiltà» ad un uomo sempre più smarrito e sempre più lontano da sé stesso.
Fare queste riflessioni è più forte di me. Tutta la mia storia professionale pubblica e privata testimonia la mia completa incapacità di fare questo lavoro nel modo tradizionale e «meccanico», senza farmi domande, e la voglia di trovare nuove soluzioni e nuovi modi di approcciare la gestione dei conflitti, specialmente in tema di problemi familiari, aprendo tutti gli spazi di creatività possibili in un settore considerato solitamente – e con giusta ragione – molto ligio alla tradizione, sia per motivi giuridici che, soprattutto, di forma mentis della classe forense e magistratuale.
In fin dei conti, il nostro scopo come avvocati, se la nostra figura ha ancora un senso (ed è comprensibile, per certi versi, chi pure ne dubita), non è quello di applicare il diritto, che non è un sistema autoreferenziale, ma quello di aiutare le persone, che ne siano, ovviamente, meritevoli e nella misura in cui lo sono.
Allora alla fine scopriamo che è non solo possibile, ma doveroso, interrogarci sulla idoneità del diritto come strumento per la gestione dei problemi sociali e degli agglomerati umani, non foss’altro che per comprenderne i limiti e comprendere, se decidiamo di usarlo, come farlo al meglio.
Ha senso affrontate i problemi con regole concepite e scritte prima che si siano verificati?
Il primo, grosso, problema del diritto è che usarlo significa credere che sia possibile scrivere oggi determinate regole che saranno buone per risolvere problemi che insorgeranno domani…
La cattiva notizia è che purtroppo tutti i casi e le situazioni – pensiamo, ad esempio e tipicamente, ai problemi di famiglia – sono diversi, per cui ogni tentativo di definire regole universali è destinato a fallire, spesso in modo anche abbastanza ridicolo o inglorioso.
Facciamo qualche esempio.
Molti di noi hanno dei figli e una famiglia.
Cos’è successo l’ultima volta che avete provato a dare ai vostri familiari delle regole?
Le avete, voi, formulate correttamente e le hanno, loro, ben ascoltate, adeguatamente comprese, interpretate secondo buona fede, applicate in modo lineare, veloce, preciso alla prima occasione utile?
La realtà è ben diversa: essi non le hanno nemmeno ascoltate, se l’avessero fatto non le avrebbero capite, se le avessero capite non le avrebbero applicate, se le avessero applicate avrebbero fatto un errore perché probabilmente erano sbagliate nella loro formulazione originaria, proprio perché non è facile per nessuno coniare una norma destinata a risolvere fatti futuri che si devono ancora verificare!
Qualcuno pensa seriamente che sia davvero utile e fattualmente redditizio definire delle regole scritte per una famiglia, un partner, una squadra di calcio, una bocciofila, un gruppo internet?
Come vivete, ad esempio, voi stessi?
Vi date delle regole, nel senso di dire «se mi succede questo poi faccio quello» o vivete e valutate giorno per giorno, caso per caso?
Vi potrete dare al massimo dei principi, dei valori di base, delle direttive, tipo «non mi fiderò mai più degli uomini!»
Ma queste “regole” in fondo non sono altro che dei pregiudizi, meri precipitati di esperienze negative con certe persone e certe situazioni, che non è affatto detto che si ripetano con altre persone o altre situazioni, anzi.
E lo sapete benissimo voi stessi, per cui quando lo ritenete opportuno li mettete tranquillamente da parte senza farvi grandi problemi. La regola, anche in quei casi, mentalmente rimane, perché vi autoingannate dicendo «sto facendo un’eccezione, perché ne vale la pena!», ma è una farsa perché se uno può decidere volta per volta quando applicare una regola e quando fare un’eccezione non c’è nessuna regola, la vera ed unica regola è, giustamente, «decido io volta per volta in base alla situazione».
A cosa ci servono norme generiche?
Un altro problema del diritto, che deriva direttamente da quello di cui al punto precedente, è che molte norme giuridiche finiscono per essere eccessivamente generiche, proprio perché è impossibile prevedere tutti i casi in cui finiranno a dover essere applicate
Chi scrive le leggi è a volte abbastanza conscio della intrinseca inidoneità di base del diritto a risolvere i problemi dell’uomo e si limita a dettare principi generali, linee guida, direttive di massima che lasciano ampi spazi al giudice di fare quel che vuole, con la conseguenza che se è onesto e intelligente farà bene, se idiota o corrotto l’esatto contrario.
Ad esempio in caso di famiglia e separazione la legge dice che bisogna valutare prioritariamente l’interesse dei figli.
Ma a cosa serve in fondo una prescrizione del genere, assolutamente scontata?
Con una regola generale, poi, il giudice può di fatto fare quel che gli pare, a seconda del peso che attribuisce ad ogni elemento della situazione familiare che sta sa base del processo (reddito, casa familiare, motivi della separazione, era dei figli, ecc) e sai tu poi cosa puoi dirgli?
Esattamente niente!
Se lui ritiene più importante la differenza di reddito che la proprietà della casa è opinabile ma, attenzione, non è violazione in se di nessuna legge, solo interpretazione della stessa.
Ma allora possiamo risolvere i problemi del diritto con ancora più diritto?
Ogni tanto si alza qualcuno che pensa che i problemi causati dal diritto si potrebbero risolvere semplicemente producendo altro diritto, cioè formulando norme più specifiche, a maglie più strette, in modo da vincolare i giudici e tutti quelli che sono chiamati ad applicarlo.
È l’ideale illuministico del giudice bouche de la loi, un juke box dove uno inserisce il caso ed esce la risposta.
Ma come si fa a pretendere che i problemi di base di uno strumento, dovuti a suoi evidenti limiti intrinseci, si possano risolvere semplicemente utilizzandolo ancora di più? Quand’è che una cosa che ti ha dato un problema te lo risolve solo che tu insista ad usarla? Se prendi un’aspirina, non ti guarisce ma anzi ti procura una reazione di intolleranza cosa fai, la prossima volta ne prendi due?
È evidente che si tratta di un’utopia, se anche fosse possibile definire norme precise per tutto non si farebbe che aggravare l’inidoneità dello strumento di base, perché staremmo sempre decidendo la soluzione di un problema prima del suo verificarsi, non si sa bene in base a che cosa.
Scrivere norme precise non sarebbe la soluzione ai limiti ineliminabili del diritto, ma tutto al contrario sarebbe un allargamento del problema. Del resto, se una cosa ti causa un problema, insistere con quella ti potrà mai dare una soluzione?
Trasformiamo in diritto anche le sentenze.
Il problema è poi aggravato dal fatto che non di rado siamo così idioti che pretendiamo di trasformare in leggi anche le sentenze, specialmente quelle di cassazione, e ce la prendiamo anche quando su quella che riteniamo la “medesima questione” la corte si pronuncia più volte in modo diverso… senza capire che quelle pronunce risentono della diversità del caso concreto che ne sta alla base, che fa apparire iniquo o equo lo stesso principio di diritto a seconda della situazione in cui deve essere applicato.
Perché si usa ancora il diritto nonostante sia fallimentare?
Ma perché, se è tutta una farsa, essa viene portata ancora avanti?
Per lo più perché fa comodo allo Stato, la forma di organizzazione politica diffusa in quella parte del mondo in cui viviamo.
Lo Stato non vuole che le persone ricorrano alla violenza per risolvere i conflitti tra di loro, perché vuole avere lui solo il monopolio della forza, per cui offre la soluzione dell’applicazione del «diritto» per risolvere i conflitti.
Ma il diritto non è uno strumento adeguato e non rappresenta nemmeno la «giustizia» come troppe volte ci hanno voluto far credere.
A volte è giusto in generale, ma comunque ingiusto nella sua applicazione in relazione al caso concreto. Spesse altre volte è addirittura ingiusto nella sua formulazione, perché espressione di un principio di convenienza di una fetta specifica della popolazione a discapito delle altre, come ad esempio il principio possesso vale titolo, che tutela i commercianti a discapito dei normali cittadini, di cui parlo meglio in questo mio precedente post, al punto 4.
Il diritto è l’ennesimo palliativo.
La realtà è che il diritto è una delle tante aberrazioni della civiltà.
Quando un gruppo umano diventa più grande delle sue dimensioni naturali, quelle probabilmente del numero di Dunbar, si comincia a correre ai ripari cercando strumenti per la gestione di questo ammasso di persone, che oggi è diventato un vero e proprio formicaio, ma, come sempre accade, più il discorso diventa grande e più ci allontaniamo dalla verità, dall’uomo e dalle sue esigenze.
La verità è che il diritto è solo un ripiego, il massimo che la civiltà può offrire e di cui gli uomini si dovrebbero accontentare.
Che cosa si può fare.
Come sarebbe meglio gestire i conflitti tra le persone?
Lo Stato, abbiamo visto, non vuole che le persone ricorrano alla violenza, ma, parlandoci francamente, che cosa sarebbe meno stressante per noi come persone?
Risolvere anche a pugni una disputa col vicino e finirla subito, in un modo o nell’altro, o promuovere una lite che dura 20 o 30 anni in tribunale, con la necessità di – periodicamente – preparare difese, vedersi con un avvocato, pagarlo, avere il pensiero per tanti lunghi anni di come andrà a finire?
Chi ha avuto questa esperienza capisce benissimo cosa intendo e qual è la realtà di cui parlo.
La stessa legge italiana riconosce il danno morale, quindi la sofferenza, che subiscono le persone per effetto dell’essere parte di un processo per così lungo tempo tramite la legge Pinto e la possibilità di presentare ricorso per equa riparazione.
Vi dico, senza tema di smentita, che per noi uomini per la nostra specie sarebbe molto meno stressante risolvere le dispute con una scommessa, una partita a scacchi, un incontro di calcio che tramite una disputa poliennale in tribunale.
I nostri organismi, le nostre menti, che poi sono un tutt’uno, sono progettati per affrontare livelli anche altissimi di stress, ma che finiscono subito, con la classica reazione «combatti e fuggi». Possiamo fuggire da un leone a piedi, fare un balzo enorme per salvarci o salvare un nostro caro, uccidere per non venire uccisi, cacciare un animale che potrebbe sopraffarci, ma tutto deve iniziare e finire in pochi istanti.
Se, invece, veniamo sottoposti a dosi di stress anche molto minore ma costante finiamo per deperire ed ammalarci perché non lo sappiamo gestire e probabilmente potremmo imparare a contrastarlo ma non ad eliminarlo.
Questo è proprio quello che succede quando i nostri problemi vengono trattati applicando il diritto.
Il tuo coniuge ti ha tradito, sei a pezzi, chiami un avvocato, ti dà appuntamento dopo una settimana, lo paghi, lo ascolti, un po’ hai fiducia un po’ no (è normale), ti propone di fare un altro incontro tra una settimana o due. Fai un po’ di trattative con l’avvocato del tuo coniuge, passano due o tre mesi, ma le cose non si sbrigano, allora fai, su consiglio del tuo avvocato, un ricorso per separazione giudiziale, lo depositi e poi aspetti che ti dicano quando puoi andare davanti al giudice. Dopo due o tre mesi, il tuo avvocato ti chiama e ti dice la data. Allora inizi a pensare a cosa succederà. Vai davanti al giudice, entri dopo una fila di ore, fila composta da persone messe come te, stai dentro 5 minuti e hai l’impressione di essere all’ennesimo sportello burocratico, dici la tua versione, il tuo coniuge la sua, il giudice non decide subito ma «si riserva» perché preferisce non dirti niente in faccia, è più comodo e liscio e poi lui deve vedere ancora tante coppie. Nel pomeriggio, o qualche giorno dopo, o anche tre anni dopo (è successo), ti arriva un documento scritto che dice dove andranno ad abitare i tuoi figli, cosa ne sarà di parte del tuo stipendio e che dovrai andare tra qualche mese davanti ad un giudice diverso. Dopo qualche mese vai davanti a questo giudice, che vede le cose diversamente dal primo e fa piccole modifiche. E così via per altri quattro o cinque anni.
In mezzo a tutto questo ci sei tu, tutti i giorni, per non dire dei tuoi figli, che non ne hanno nessuna colpa.
Meraviglioso eh?
Come venivano gestiti i conflitti nei primi gruppi umani.
Negli agglomerati umani primitivi, gli unici che corrispondono al nostro vero modo naturale di vivere, non esisteva il diritto ma i conflitti venivano risolti in modo molto più efficiente, condiviso e sentito da tutti i membri della comunità.
Esistevano dei saggi, persone che godevano di stima e rispetto per il loro modo di vedere le cose, spesso persone più anziane e quindi con più esperienza, che presentavano una sorta di «autorità naturale» che quasi nessuno dei burocrati che attualmente ci offre lo Stato possiede neanche lontanamente.
Questi vecchi saggi che decidevano le vertenze tra i membri delle tribù non consultavano regole precostituite per farlo, si sarebbero sentiti e sarebbero stati giudicati molto stupidi se lo avessero fatto, ma decidevano secondo equità, in base a quello che ritenevano giusto in quel momento .
La gente si rivolgeva a loro proprio per quello, e ne accettava le sentenze, al contrario di quel che avviene oggi, dove quando uno perde una causa in precisa applicazione di una norma scritta, che però lui non è in grado di leggere, e che probabilmente è anche ingiusta se non in generale nel suo caso concreto, identifica come cause della sua rovina la corruzione del giudice, dell’avvocato e così via.
Questo modo di composizione delle vertenze era così sentito, spontaneo e naturale che gli antropologi ne osservano ampi residue anche in società ultra moderne e civilizzate come quella statunitense: “Persino nelle moderne società industriali vi sono ambiti in cui continuano a operare solidi meccanismi tradizionali. In molte zone rurali del Primo Mondo, come per esempio la valle del Montana dove ogni anno trascorro le vacanze estive, alcune controversie vengono tuttora risolte non davanti al giudice, bensí tramite meccanismi informali di tipo tradizionale” (Jared Diamond, “Il mondo fino a ieri”).
La ragione è molto semplice: in quelle società, “i dissapori dovevano necessariamente trovare forme di composizione che ricucissero i rapporti, o che li rendessero almeno tollerabili, perché si era comunque destinati a trascorrere tutta la vita gli uni accanto agli altri” (op. cit.). Questo vale ancor oggi per molte situazioni, come ad esempio le separazioni o crisi familiari con figli.
Cosa possiamo fare oggi.
Da tutto quanto sopra viene spiegato il perché si debba assolutamente percorrere la strada della mediazione e delle soluzioni consensuali, tutte le volte in cui è possibile, e nonostante le mille difficoltà che ci sono, spesso costituite da rapporti completamente degenerati, anche a costo di compromessi e rinunce dolorose.
E il mediatore – questo è un punto centrale e irrinunciabile – non può essere un coglione qualunque che solo perché ha fatto 20 ore di corso e imparato due tecniche di negoziazione si mette in mezzo a certe vertenze.
Il mediatore deve essere una persona la cui autorità, per preparazione, saggezza, serietà, intelligenza, sia riconoscibile da tutti, esattamente come avveniva quando ci si rivolgeva al capo villaggio, che non diventava tale a seguito di elezioni farsa ma perchè riconosciuto da tutti quello con la testa più fine.
Persino tra i lupi, i capi non sono in realtà gli esemplari più giovani e forti come si tende a pensare comunemente, ma i più anziani e più saggi.
Possibile che ci siamo allontanati così tanto da noi stessi da non capire una cosa elementare come questa?
Possibile, anche perché ci sono precisi interessi economici a tenerci così, senza identità, snaturati, buoni solo a recarci al lavoro al mattino e a comprare beni e servizi nel tempo libero.
Vi lascio con due considerazioni finali, una per i miei colleghi avvocati e una per gli utenti finali.
A) Se siete avvocati, ricordatevi di non rinunciare mai alla vostra umanità nell’esercizio della professione, e alla ricerca della soluzione giusta, al di la di tutto.
Aspettate ad aprire i libri di diritto di avere capito bene i fatti, che spesso esauriscono l’intera materia. Cercate sempre la soluzione consensuale, anche quando usate gli strumenti giudiziari, che devono essere non il fine ma il mezzo per raggiungere un assetto consensuale che «con le buone» non si riusciva a raggiungere, perché non esistono situazioni, specialmente in campo familiare, che possano essere davvero regolate a suon di provvedimenti della magistratura, mentre invece almeno un minimo di acquiescenza e condivisione da parte di tutti i soggetti coinvolti rimane sempre necessaria.
Mettete al primo posto il dialogo, la chiarezza, la serietà, in modo da essere apprezzati da tutti per il vostro modo di fare, non solo dal vostro cliente.
Lasciate stare il diritto, fate il contrario di quello che vi hanno sempre insegnato, guardate prima negli occhi le persone con cui avete a che fare, poi il diritto lo andrete a recuperare solo se non c’è modo di risolvere diversamente il problema.
Siate creativi.
Lo so che vi hanno insegnato ad essere come tanti piccoli sacerdoti laici del dio diritto e che la vostra specializzazione è setacciare i libri per trovare la soluzione dei problemi della vita, ma vi devo dare una brutta notizia: quella soluzione davvero non la troverete mai nei libri.
Non è agitando una sentenza di Cassazione che risolverete la questione del vostro cliente, lasciate perdere, non funziona quasi mai.
Fatevi venire delle idee, anche se vi hanno addestrato a reprimerle e a leggere per lo più quelle altrui.
Cambiate, cambiate, cambiate.
Del resto siamo in crisi profonda come categoria, questo paradossalmente ci agevola.
B) Se siete persone comuni ed avete un problema legale, dovete prendere un avvocato anche se costa perché vi costerebbe molto di più poi non averlo, ma fate molta attenzione a chi incaricate.
Prendete un legale portato alla mediazione, creativo, capace di sviluppare delle idee e delle strategie di base per la trattazione del vostro problema.
In secondo luogo, disponetevi al compromesso e a fare rinunce, anche se e anche quando avete ragione, anche per voi pesanti, perché è tutto relativo e uno deve sempre guardare all’alternativa che è sempre peggiore. Spesso si parla di decisioni come quella tra perdere un braccio ma continuare a vivere oppure non perderlo ma morire. Quasi tutti ovviamente darebbero la stessa riposta, meglio vivere anche senza un braccio, l’importante è che sia ben chiaro anche in ambito giudiziario.
Non è il momento e non lo sarà mai per le questioni di principio.
Andare in tribunale solo se non potete proprio farne a meno e in quel caso comunque raccomandatevi agli dei in cui credete perché l’esito sarà sempre imprevedibile, nonostante tutto.
16 risposte su “Affrontare i problemi legali mettendo da parte il diritto.”
[…] della PG e dell’autorità giudicante e degli avvocati. Detta interpretazione fa scattare o no il diritto alle particolari forme di protezione a favore delle vittime di violenza di genere e a mio avviso […]
[…] mio articolo sul diritto […]
Grazie Avvocato per la Sua risposta. Ieri ho parlato di Lei al mio compagno, non siamo distanti dal Suo studio quindi abbiamo deciso che dopo l’incontro con l’avvocato dei nonni, La contatteremo per fissare un’appuntamento. Grazie ancora e a presto.
Siete i benvenuti, grazie e a presto.
Ho sempre creduto nella Giustizia e da quando invece mi sono trovata ad avere a che fare con la Legge, le mie idee sono profondamente cambiate e purtroppo nel calderone negativo ci è finita anche la categoria degli avvocati. Leggere questo Suo pezzo mi ha riaperto uno spiraglio di speranza.
Sono più di due anni che io e il mio compagno ci ritroviamo a combattere legalmente contro i suoi genitori, prima per problemi economici riguardanti la divisione di proprietà di un’immobile tra l’altro ancora sotto mutuo e poi anche per le visite al loro nipote e figlio del mio compagno, il famoso diritto dei nonni ad avere rapporti significativi con il nipote. Abbiamo preso un avvocato, ha tentato la via stragiudiziale, siamo andati in mediazione obbligatoria. In questa sede l’accordo è saltato perchè la controparte non ha tenuto fede a quanto firmato e noi abbiamo dovuto pagare avvocato e mediazione da circa 900 euro. Il nostro avvocato ci aveva consigliato di procedere in tribunale ma quando ci siamo resi conto che, per un valore totale dell’immobile di circa 200 mila euro e con un mutuo dal quale comunque non saremmo riusciti a svincolarci neanche dopo la decisione di un giudice di mettere all’asta l’immobile, che si trattava di andare incontro ad anni di spese legali ed accessorie, abbiamo deciso di ritirarci e rinunciare ad andare in tribunale. Il nostro avvocato non è stato per nulla contento della nostra decisione rinfacciandoci le ore di lavoro sprecate per la nostra causa, come se fossero ore regalate. Risultato: rapporti interrotti bruscamente e parcella da quasi 4 mila euro da saldare. Siamo dei comuni mortali e anni di avvocato non ce li possiamo permettere, abbiamo pensato fosse meglio fermarci prima di cadere nel baratro.
Inoltre ogni due mesi circa ci arriva una lettera di un avvocato diverso, avvocati che i genitori del mio compagno assumono per continuare a rovinarci l’esistenza sbandierando questo fantomatico diritto a vedere il minore. Non abbiamo mai negato loro di vederlo e sentirlo, sono venuti più di una volta a casa nostra per passare un pò di tempo con lui ma appena non riusciamo a farglielo sentire o vedere, vanno da un avvocato a raccontare frottole e questo parte in tromba con la solita intimidazione del ricorso al tribunale dei minori. Fin’ora abbiamo dovuto rispiegare la faccenda a ben tre avvocati diversi e settimana prossima ci presenteremo senza un legale perchè non abbiamo più soldi da spendere, presso lo studio del quarto avvocato a ripetere per l’ennesima volta che siamo disponibili a mantenere il rapporto bimbo-nonni, che posso chiamarlo e vederlo quando vogliono ma nel completo rispetto della serenità e dell’equilibrio raggiunto da un bimbo che ha già dovuto sopportare la separazione dei genitori, nel rispetto della sua quotidianità e nel rispetto della nostra vita famigliare. A loro non interessa affatto vedere il bimbo, a loro interessa distruggere la nostra serenità. Siamo sull’orlo di una crisi di nervi e non sappiamo più cosa fare. L’ultima proposta del loro avvocato, fatta proprio per non potere essere accettata in alcuna maniera, è quella di vedere 4 volte al mese il bimbo con orari e modalità da stabilire man mano. Il mio compagno vede suo figlio una sera a settimana e due fine settimana al mese, accettando questa proposta vorrebbe dire che noi non saremo più liberi di uscire a cena, di andare via per il fine settimana o semplicemente di stare con il bimbo a casa nostra. Una vita ipotecata. Non posso credere che la Giustizia permetta una persecuzione che ormai dura da due anni, non posso pensare che al momento non vedo vie d’uscita se non quella di aspettare pazientemente la prossima lettera del quinto avvocato.
Fate voi il ricorso al tribunale dei minorenni perché determini una volta per tutte il calendario standard delle visite e cessino queste molestie continue.
condivido in pieno,aggiungendo che lo stesso discorso calza a pennello anche per la professione del medico.
Grazie Giancarlo. Molto vero quello che dici. Forse vale per molti settori.
Un commento valido in ogni tempo, soprattutto ora che proprio la legge ha equiparato la professione dell’avvocato ad attività di impresa, dimenticando tutte le qualità richieste all’Uomo perché sia saggio ed idoneo a comprendere il problema di qualcun altro ed a cooperare con questo con tutta la sua esperienza e professionalità prima che avere la conoscenza tecnica delle procedure o delle convenzioni degli stessi magistrati giudicanti. Probabilmente la dizione latina originariamente si riferiva proprio alla vocazione di comprendere i problemi degli altri e farli propri fino a fondare il proprio sostentamento sulla capacità di accogliere una persona e tutelarla con la propria arte oratoria.
Grazie Giulio sono molto d’accordo.
Complimenti!
Non leggevo da tempo una spiegazione così chiara del problema.
Faccio il mediatore e, col passare degli anni, ricevo sempre più conferme del fatto che le persone hanno bisogno di qualcuno che accolga, comprenda e traduca le loro emozioni e la loro relazione, piuttosto che i loro diritti; e che risolvere un problema non c’entra niente col vincere una causa…
Mi piacerebbe sapere cosa pensi, Tiziano, dei miei articoli sul tema, in http://www.iformediate.com/articoli-e-saggi-di-ricerca-su-negoziazione-e-adr.html
Un caro saluto.
Grazie Osvaldo, benvenuto nel blog. Darò un’occhiata agli articoli appena posso, ho visto che è necessaria la registrazione e al momento ho rimandato.
Come non concordare su ogni riga letta, compreso il commento di Andrea. Da tempo cerco nuove vie della professione, affiancando il diritto, che nasce proprio dalla relazione umana, con tutto quello che vi sta intorno (all’umano), accogliendo anche le emozioni, oltre che i fatti “giuridici”
Grazie Iacopo, benvenuto nel blog.
Come non sottoscrivere in pieno? Io questo pensiero l’avevo maturato da tempo e in qualche modo – seppur non esplicitamente – era già emerso nei nostri confronti telematici.
Oltre allo Stato, il conflitto “legalizzato” serve anche alle parti, quelle consunte in un conflitto doloroso in cui delegare ad altri (leggi, avvocati e magistrati) la risoluzione del proprio problema sembra dare sollievo. In realtà delegare ad altri la soluzione dei propri problemi non fa che aggravarli e complicarli: certo confrontarsi direttamente è maledettamente complicato e genera sofferenza. Ma mettere la testa nella sabbia – come dice il saggio – lascia esposta un altra parte importante del corpo :-/
Una curiosità : quanto tempo hai impiegato per riformattare il tuo concetto di avvocato-tipo? Io per circa 10 anni ho fatto l’avvocato “normale” e poi ho capito (anche grazie ad un esperienza oltreoceano con un mediatore tutt’altro che fesso, dotato di tutte le caratteristiche che tu hai indicato…) che oltre al diritto c’era molto altro..
Poi, credo come te, ho capito che si tratta solo di un palliativo, costoso (non solo in termini economici) e lungo.
Se la preparazione universitaria dell’avvocato prevedesse un po’ meno diritto e qualche studio di psicologia, neuroscienze, biologia, antropologia (etologia…sociobiologia) avremmo un professionista legale a tutto tondo, consapevole delle limitatezze di ogni diverso sistema di risoluzioni delle liti: i limti del diritto, quelli del negoziato faccia a faccia e quelli della mediazione. Sarebbe così in grado di aiutare il cliente a scegliere la soluzione adatta al suo problema che non è mai solo giuridico.
Se invece sa solo di diritto, è ovvio che dà consigli solo su quello…
La vita è ingiusta: la soluzione “ideale” che tanto ci piacerebbe, spesso non è che un illusione…
Chiudo con una chiosa etica: i clienti degli avvocati credono che si tratti di Giustizia (con G rigorosamente maiuscola): forse ci vorrebbe un De Gregori che facesse notare come in realtà si tratti solo di legge. Umana quanto a imperfezione teorica, disumana (o disumanizzante) per la sua applicazione pratica.
Commento di cui sottoscrivo ogni parola. Grazie. Sì è vero a volte ci si illude di «comprare» una soluzione pagando un avvocato, e non è una buona cosa perché poi i nodi vengono al pettine. Quanto a me, diciamo che forse l’ho sempre saputo, chiaramente sono cose che devono anche maturare e in questo sono stato molto aiutato dal progressivo ma evidente e costante decadimento di tutto quello che sta intorno alla nostra professione, a cominciare dal sistema politico e giudiziario. Comunque, direi che almeno così possiamo ripartire, da qui.