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Situazioni senza soluzione: come accettarle.

A volte, in molte situazioni della vita, l’unica vera soluzione è accettare che non ce ne sia affatto una.

Come quando in una relazione soffri, ma soffriresti ugualmente fuori da essa, decidendo di interromperla.

tragedia sentimenti

L’unica cosa da fare in questi casi é accettare la piccola tragedia che, finché non cambia – da sola – la situazione, il tuo destino è comunque soffrire.

E metterti allora subito a lavorare su di te.

Tu sei l’unica cosa che rientra nella tua sfera di dominio, in ciò che puoi cambiare.

Non smetti di amare, ad esempio, quando subisci un grave torto da parte del tuo partner. Se lo sorprendi, sempre ad esempio, a tradirti, non smetti per ciò stesso di amarlo. Sprofondi nel dolore, ma rimani bagnato, o bagnata, dei tuoi sentimenti.

Questa è appunto la tragedia dei sentimenti: che non cambiano anche se sopravvengono fatti, anche gravi, in contrasto con essi.

In questi casi, la mentalizzazione non ti serve, non ti aiuta, anzi ti fa solo stare peggio.

Pensare a quel che «dovresti fare» quando in realtà non lo puoi fare, ti fa sentire solo più inadeguato o inadeguata.

E questa sensazione di inadeguatezza che ti procuri da solo non ha nemmeno senso, perché se anche avessi la dabbenaggine di prendere decisioni di testa non risolveresti niente, anzi staresti solo peggio.

Quindi non rimpiangere di non avere più coraggio, o forza di volontà, perché non c’entra niente, saresti solo uno sconsiderato ad agire così e staresti solo peggio tu, per fare stare male tutti gli altri…

Guardati dall’alto quando produci questi pensieri. Sono solo dicerie infondate, nuvoloni grigi nella mente di una persona che soffre.

Cosa devi fare allora?

Devi accettare che al momento una soluzione per smettere di soffrire non esiste, quindi devi accettare la sofferenza, come «spiega» il grande mistico Rumi nella sua poesia «La locanda» di cui ti ho già parlato diverse volte.

Accetta il fatto che non c’è nessuna decisione da prendere, nessuna riflessione da fare.

C’è solo del lavoro da iniziare su te stesso, per creare una versione sempre migliore, per avere vibrazioni sempre più alte.

Non nego che questo sia difficile, specialmente quando si ha il cuore spezzato, ed è sicuramente una strada in salita, ma resta il fatto che è l’unica strada.

Una soluzione, una decisione arriveranno, ma non saranno mentalizzazioni, sarà la tua «pancia» a decidere quando le cose saranno sufficientemente mature.

Quindi, anche qui, devi passare dalla modalità di mentalizzazione a quella di percezione di te stesso, di quello che hai realmente in pancia. Devi fare il passaggio dal passare al sentire, per quanto il sentire possa essere, in momenti come questo, poco piacevole.

Se vuoi essere guidato in un percorso di gestione di situazioni del genere, o comunque desideri un aiuto concreto per la tua crescita personale, contattami tramite il modulo apposito oppure chiama il numero 059 761926 per concordare un appuntamento per iniziare il tuo percorso di counseling.

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Separazioni, divorzi, crisi familiari: amare è una forma di preghiera.

Le ultime riflessioni dalla trincea separazioni e divorzi sono, innanzitutto, che siamo sempre più fragili.

Se dovesse arrivare veramente l’ISIS, o chiunque l’altro, sarà sufficiente una piccola spintarella per farci cadere e andare completamente in frantumi. Magari, addirittura, non sarà nemmeno necessario, nel frattempo saremo caduti da soli.

Parliamo di noi stessi come di una civiltà e dei musulmani come di «incivili», mentre la realtà è – tutto all’opposto – che qui da noi ormai non c’è più nessuna civiltà (a meno di non ritenere segni di civiltà, ad esempio, le leggi europee sull’obbligo di mettere il cartello «toilette» sui bagni), ma solo una mandria di vacche, mentre quella islamica, per quanto da molti non condivisibile, è una vera civiltà, intesa come comunità osservante con profonda convinzione un nucleo fondamentale di regole comuni.

La mancanza di cose davvero serie e gravi da affrontare ci ha fragilizzato, ha determinato la venuta di una generazione debolissima, inadeguata ad affrontare la vita o anche solo a capirne il senso e, di conseguenza, a darsi significato, che è una cosa, per l’essere umano, irrinunciabile.

Nel grande libro magico, c’è scritta una cosa assolutamente fondamentale che oggigiorno non segue quasi più nessuno: «Per questo l’uomo abbandona suo padre e sua madre e si unisce alla sua donna e i due diventano una sola carne» (Genesi 2, 24).

Il punto irrinunciabile è dunque abbandonare la famiglia di origine, lasciare madre e padre e capire che la famiglia, dopo il matrimonio o la formazione della convivenza, è quella con il coniuge. Prendere questo estraneo, che è il partner, è diventare più che un parente di sangue con lui («una sola carne»).

I miei amici atei sostengono simpaticamente che la bibbia sarebbe solo un testo compilato da pastori ignoranti 8.000 anni fa, in realtà, se così fosse, a quei pastori andrebbe dato atto di aver capito, da ignoranti e 8 secoli fa, una cosa fondamentale, che oggi, che siamo tanto evoluti, non siamo più in grado di comprendere nè, tantomeno, interiorizzare. Quei pastori analfabeti erano molto più saggi dell’uomo occidentale medio, formato da anni di scuola, contemporaneo.

Ma torniamo al punto: abbandonare il padre e la madre. È vero, i nostri genitori ci hanno amato tantissimo, in modo assoluto, ma, per qualche strano mistero, non è a loro che dobbiamo restituire questo debito, bensì ai nostri figli, dando lo stesso amore. Senza esagerare, peraltro, chè se li amiamo troppo finiamo, anche noi, per rovinarli. Forse questo è il motivo per cui chi sceglie di non avere figli finisce poi per riempirsi la casa di gatti, o per prendere un cane e mettergli il cappottino. È per questo che la vita si vive all’avanti, senza guardarsi mai indietro, se non vogliamo diventare statue di sale come la moglie di Lot.

Il secondo punto è che amare davvero è qualcosa per la gente con le palle e purtroppo oggi ce ne sono davvero poche.

Amare non è affatto un rapporto sinallagmatico, io ti amo se tu mi ami, amare è una scelta, una promessa, un qualcosa che ha a che fare con il trascendente e ci mette in contatto con esso. Come ha detto Guillaumet, qualcosa che solo l’uomo può fare, perché l’uomo è a immagine e somiglianza di Dio. Amare davvero è sicuramente una forma di preghiera, per lo più quotidiana, costante, dolce e vera. Non è per le cose e le persone del mondo che si ama, ma per qualcosa di superiore.

Invece è lunghissima la teoria di gente che mi trovo davanti tutti i giorni che si lamenta del coniuge, perché ha fatto, o non fatto, questa o quell’altra cosa. Il fatto è che per amare non dobbiamo dipendere da nessuno fuorché da noi stessi, o da Dio per chi crede: se vogliamo amiamo, decidiamo di amare, altrimenti pace, vaffanculo, basta, evidentemente non è una cosa per noi, siamo negati, meglio lasciar perdere.

Tutti sono capaci di amare chi li ricambia, tutti. Chi ama davvero prescinde da queste cose, chi è cristiano addirittura deve essere capace di amare il suo nemico; e notare che, tra i propri nemici, spesso bisogna annoverare noi stessi, per cui anche su questo il cristianesimo vince a mani basse.

Un qualche genio ha detto che saremo giudicati per come trattiamo gli animali. Posso dire che lo saremo anche per come trattiamo il nostro coniuge, o compagno, colui che abbiamo promesso di amare, la persona che ci è stata messa accanto nella vita, quella speciale, che può essere solo una, non possono essere né due, né tantomeno tre o quattro o oltre?

E poi basta pensare solo al giudizio o al regno dei cieli. Fare certe cose, fare la cosa giusta, è un piacere e una realizzazione già qui, sulla terra, è ciò che ci dà quel significato di cui oggi abbiamo disperato bisogno, che mendichiamo in continuazione ma che ricerchiamo in cose che non ce lo possono dare, come gli oggetti, come certe ideologie assolutamente demenziali e contrarie alla nostra natura, nelle quali tuttavia ci spertichiamo per credere e alle quali siamo istericamente attaccati.

C’è un piacere squisito nel fare quello che crediamo giusto, piuttosto che quello che ci piacerebbe fare secondo gli istinti, o che sarebbe più comodo e conveniente. È il piacere di chi si vuole bene e dà significato a sé stesso, accettando la sofferenza che serve a qualcosa e dimostrando a sé stesso che vale, che è qualcosa di diverso da una bestia; o, detto in altri termini, non è il solito povero coglione che va dove lo porta il suo cuore (salvo aver regolarmente bisogno, poco dopo, che il suo cervello lo vada a riprendere).

Amare è una scelta assoluta e senza compromessi. Non è possibile giustificarsi dicendo cose come «No, ma perché lei, quando io sono stato ammalato, non è andata nemmeno a prendermi la Tachipirina!». Se facciamo così, subordiniamo noi stessi, la nostra identità e il nostro significato a delle cazzate, ma soprattutto finiamo per rendere la nostra stessa vita una cazzata. Potete dire quel che volete, ma è così.

Non è giusto nemmeno dire «Io ho le mie colpe, ma anche lei/lui…». Va bene solo, ed esclusivamente, la prima parte: occupiamoci delle nostre colpe e lavoriamo su noi stessi. Se vogliamo convincere il nostro coniuge, continuiamo a guardare nella direzione che desideriamo, ma non facciamo altro. Quanto agli altri, infatti, dovranno essere loro ad occuparsi delle proprie eventuali colpe, sono cazzi loro.

Dio non ama e non aiuta chi si lamenta, questa è un’altra cosa che la nostra generazione di immaturi, abituati a lamentarsi per invocare l’aiuto di mamma, papà e, spesso, del coniuge – coniuge che nell’immaginario malato di molti li deve sostituire -, non capirà se non in rari casi e difficilmente.

Dio aiuta chi si aiuta da solo e per primo, secondo il noto, e verissimo, adagio. Ma anche secondo il Vangelo: a chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche quel poco che ha (in questo passo c’è la chiave della vita, ci torneremo sopra).

Una volta che si sceglie di amare, comunque, bisogna farlo per sempre e fino in fondo a prescindere da quel che si riceve indietro, dalla meritevolezza dell’altro. Basta metterci sempre al centro, basta dire «Io», io ho fatto questo e quell’altro e anche lei o lui ha sbagliato. Ovviamente anche lei o lui ha sbagliato, grazie al cazzo, tutti sbagliano, non è questo il punto, il punto sono le palle che hai tu o non hai.

Le tue palle dipendono solo da te stesso, mai da nessun altro.

Non aspettate nessun altro per essere come vi sembra giusto, altrimenti la vostra vita sarà solo una processione di giustificazioni, intervallata da lamentele.

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Amare e voler bene: che differenza c’è?

«Vorrei penetrare il suo segreto, vorrei che lei venisse da me e mi dicesse: “Io ti amo”, e se non è così, se questa follia non è pensabile, allora… allora che cosa desiderare? Forse so io stesso quel che desidero? Sono anch’io come sperduto: vorrei soltanto starle accanto, essere nella sua aura, nella sua luce, eternamente, per tutta la vita. Altro non so! Potrei forse allontanarmi da lei?» — Fëdor Michajlovic Dostoevskij, Il giocatore

Oggi parliamo della differenza tra amare e voler bene, una distinzione in cui capita a tutti di imbattersi più volte nella vita, nei modi più svariati.

C’è un elemento, in particolare, una caratteristica che distingue queste due situazioni, questi due sentimenti.

Questo elemento è il desiderio di prossimità, di vicinanza, di contiguità – o spaziale e fisica, o anche solo mentale – che c’è nel primo caso, quello dell’amore, ma manca nel secondo.

Quando amiamo una persona, vogliamo stare nello stesso posto in cui c’è lei, anche se magari non sappiamo nemmeno bene perché, e se lei non c’è la pensiamo, in modo da averla e tenerla dentro di noi anche quando è lontana.

Alla fine, vogliamo sempre essere, in qualche modo, con la persona che amiamo, vogliamo esserle vicini, se non con il corpo, almeno con la mente, con lo spirito, con l’anima.

Sentiamo che questa vicinanza ci fa bene, ci soddisfa, ci illumina, ci nutre in profondità. Non esiste più un posto preferito, ma vanno tutti bene purché ci sia anche lei, anzi il posto prediletto è proprio quello in cui c’è lei.

Viceversa, se vogliamo bene ad una persona, ma non la amiamo, non abbiamo il desiderio di starle sempre vicino o in un modo o in un altro.

Certo, le vogliamo bene, se le succede qualcosa di brutto ci dispiace, e ci dispiace sinceramente, ma non ci interessa che la nostra vita e la sua vita, i tempi e gli spazi delle nostre vite, scorrano distanti tra loro, e in due posti diversi.

È proprio per questo che il “voler bene” ha sempre dentro di sé qualcosa di insoddisfacente, viene sempre percepito, almeno in parte, come qualcosa di insincero, di ipocrita, di limitato. In realtà non c’è nulla di male o di ipocrita nel voler semplicemente bene, è solo sentito come un sentimento limitato, circoscritto, confinato e noi, per nostra natura, siamo portati a diffidare da sentimenti di questo genere, perché per noi un sentimento ha senso se uno è tendenzialmente disposto a portarlo avanti nonostante tutto, a dispetto di tutto, accada quel che accada.

Il “voler bene”, specialmente se interviene quando c’era precedentemente l’amore, è perlopiù percepito come un premio di consolazione, se non come una vera e propria loser medal, la medaglia del perdente, quella che viene assegnata alla squadra che arriva seconda, un trofeo che in realtà non significa nulla: anzi nessuno lo vorrebbe mai guadagnare e sarebbe sicuramente meglio che non venisse nemmeno assegnato.

Quando amiamo una persona, vorremmo semplicemente che questa persona ci ricambiasse e sapremmo che lo fa nel momento in cui essa desiderasse stare con noi, o comunque pensasse sempre o quasi a noi.

Se non sta con noi, se non nutre questo desiderio di prossimità, non c’interessa che ci voglia bene, non c’interessa se anche le dispiace sinceramente quando ci succede qualcosa di brutto, perché questo semplicemente non è vivere insieme come invece vorremmo noi.

La differenza tra l’amore e il “voler bene” è tutta qui: il desiderio di prossimità, di vicinanza, di contiguità, di camminare insieme, di ridere insieme, di pensare all’altro quando ci succede qualcosa di bello o di brutto, di arrivare a sera e condividere una giornata, di pensare già, quando ti succede qualcosa, a quando la racconteremo a lei, di pensare «Che cosa ne penserà lei?» ancora prima di capire che cosa ne pensi tu, di rispecchiarti nei suoi occhi e nei suoi occhi intravedere la sua anima, fino a non sapere più bene dove finisci tu e dove comincia lei.

Chi ha provato questo, e lo hanno fatto tutte le persone che sono state innamorate almeno una volta nella loro vita, non sa che farsene di qualsiasi altro sentimento di grado inferiore.

Per chi è davvero innamorato, vale la realtà per cui ogni cosa gli parla della persona amata, come se tutto il mondo avesse realizzato il suo desiderio di vicinanza, di prossimità, di stringersi forte, sempre più forte, anche quando la persona amata non c’è.

È sicuramente meglio arrivare secondo che terzo, o quarto, o quinto?

Forse nello sport, non in amore, dove chi ama davvero vuole tutto, perché sa che se non ottiene tutto si ritrova semplicemente con niente.

Un’altra importante differenza è che vogliamo bene per altruismo, amiamo invece per puro egoismo.

Vogliamo bene solo perché ci va, ma potremmo benissimo farne a meno, mentre amiamo perché ne abbiamo bisogno, come di bere e di mangiare.

Per questo il voler bene è sempre un po’ falso, non ci identifica, mentre amare è sincero e vero, grandioso e pezzente, come la nostra vita.

Il modo in cui vogliamo bene non dice quasi nulla di noi, mentre quello con cui amiamo è il nostro vero nome, con cui siamo conosciuti nel mondo.

Voler bene è solo un lusso, un piccolo vizio, invece amare, e farlo con tutta la miseria che ci portiamo addosso, con tutti noi stessi, sopratutto le parti meno nobili, è un vero e puro bisogno.

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