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Mediazione familiare: il modello strutturato.

Proseguiamo, all’interno della nostra «serie» sulla mediazione familiare, con l’analisi dei vari modelli, occupandoci oggi di quello strutturato.

Tra i vari metodi ed approcci passati in rassegna sino ad ora, quello strutturato è quello più «burocraticizzato»: le virgolette sono d’obbligo, in quanto non si tratta di regole imposte per esigenze eterodeterminate, ma volte tutto al contrario a garantire un miglior risultato del processo di mediazione. Resta comunque il fatto che è sicuramente l’approccio dove il ruolo del mediatore è meno liberamente dispiegabile, quindi più che un approccio è sicuramente un metodo, in cui il mediatore deve rispettare alcuni precetti nell’accostarsi alla materia.

Un aspetto positivo di questo metodo è, paradossalmente, la minor ambizione rispetto ad esempio a quello sistemico passato in rassegna nel capo immediatamente precedente e quindi il fatto di essere molto più circoscritto ad uno o più obiettivi specifici. È un dato di esperienza comunque quello per cui quando il risultato o lo scopo cui tende un’iniziativa è ritagliato in modo più definito e circoscritto, tale scopo è solitamente raggiungibile più facilmente. Non si tratta solamente di semplificazione o del fatto che accontentandosi di un risultato percepibile come minore lo si rende più facile da raggiungere, dal momento che in mediazione non esistono risultati facili o difficili, dipendendo sempre dalla situazione e dall’atteggiamento delle parti, che dipende – quest’ultimo – spesso dal loro vissuto. Ha a che fare con il «posizionamento» dello scopo della mediazione nella mente dei suoi protagonisti, prendendo a prestito per descrivere questo fenomeno una categoria studiata dagli operatori del marketing, che non a caso è la scienza della vendita.

Se si «taglia» un obiettivo in modo molto circoscritto, esso penetra e si «posiziona» molto meglio nella mente dei protagonisti della mediazione. Un conto, ad esempio, è invitare le parti in conflitto ad una seduta con lo scopo di «cercare un metodo per riuscire ad andare un minimo d’accordo», tutto un altro conto è invitarli stabilendo come ordine del giorno una cosa molto più limitata, concreta e precisa come «stabilire chi tiene la casa familiare».

La differenza riguarda il modo di funzionare della nostra mente e probabilmente anche del nostro inconscio che, nel primo caso, si metterebbero presto in stand by, non sapendo bene cosa pensare a riguardo, proprio per la difficoltà di poter inquadrare e classificare un obiettivo così vago e generico, per quanto importante e, in linea di principio, condivisibile. Nel secondo caso, invece, le menti dei due protagonisti si metterebbero subito al lavoro alla ricerca di possibili, potenziali soluzioni al problema, presentandosi poi all’incontro ben focalizzate sul tema e in grado di discuterne a dovere, senza alcun imbarazzo specifico ulteriore rispetto a quello determinato dalla situazione.

Sappiamo, peraltro, che uno degli aspetti fondamentali della mediazione è quello di determinare le parti spesso recalcitranti a sedersi per la prima volta ad iniziare il percorso. Come si dice nella pratica dello yoga, l’esercizio più difficile di tutti è quello di aprire il lettino e mettersi a praticare. Così è anche per la mediazione, come abbiamo accennato anche precedentemente c’è l’esigenza di rompere il ghiaccio con l’idea di andare davanti ad uno «sconosciuto», il mediatore, a parlare di dettagli emotivi spesso anche molto intimi, cosa cui le persone si determinano solo se pensano che la cosa possa avere una qualche efficacia nella risoluzione dei loro problemi: contrariamente a quanto si pensa comunemente, è difficile che le parti si presentino davanti ad un mediatore semplicemente per potersi sfogare, anche perché nel momento in cui il conflitto raggiunge la gravità che presenta nei casi in cui di solito viene portato in mediazione difficilmente le parti hanno ancora voglia semplicemente di sfogarsi.

È sicuramente, da questo punto di vista, più allettante un obiettivo ben tagliato, circoscritto e posizionato, perché le parti si accostano alla seduta di mediazione investendo il loro tempo, denaro e carico emotivo ma sapendo che potrebbero uscire da quella seduta con intanto almeno un piccolo tassello della loro crisi messo a posto.

Lo svantaggio di questo approccio è che, come abbiamo accennato anche in precedenza, tutte le questioni che compongono la sfaccettata e poliedrica crisi familiare sono intimamente e fortemente legate l’una all’altra, per cui dal punto di vista tecnico sarebbe un grave errore per il mediatore affrontarle «a compartimenti stagni», dato che in caso di fallimento sul terzo o quarto tassello affrontato in ordine di tempo con molta probabilità verrebbero rimessi in discussione anche quelli affrontati precedentemente.

Non si intende dunque sostenere un metodo del genere, che sarebbe probabilmente poco produttivo, ma solo l’opportunità della definizione di un obiettivo ridotto e circoscritto in una prima fase iniziale della mediazione, quando è necessario rompere il ghiaccio e determinare le parti ad iniziare questo percorso di cui probabilmente hanno bisogno come del pane, per poi, una volta raggiunto un minimo di collaborazione e magari un embrione di decisione sul primo tassello proposto, passare subito ad affrontare la situazione più in generale o comunque i suoi nodi centrali.

In sostanza, sempre mutuando per comodità di esposizione dalla terminologia del mondo del marketing, il mediatore in questi casi deve fare upselling: le parti ad esempio sono venute in mediazione per decidere limitatamente a chi tiene la casa familiare, il mediatore deve proporre loro di affrontare, visto che il primo «nodo» è già stato gestito, anche le altre questioni sul tappeto. Considerato che le parti hanno trovato modo di decidere sulla casa, perché non parlare ora anche della calendarizzazione dei figli?

È proprio partendo da un obbiettivo circoscritto che poi si riesce ad affrontare il tutto mentre quasi sempre se si propone direttamente di affrontare tutta la situazione non si riesce nemmeno ad iniziare il percorso.

Ad ogni modo, e chiudendo la digressione a riguardo, per riprendere il tema in generale, in questo modello di discussione lo spazio lasciato agli aspetti emotivi, a differenza di ciò che avviene in quello sistemico, torna ad essere limitato, mentre si cerca più genericamente di ristabilire un equilibrio nella coppia che consenta la comunicazione e magari anche la collaborazione, focalizzandosi abbastanza sulla responsabilizzazione dei protagonisti del conflitto.

In questo approccio, si tendono a non fare incontri individuali, perdendo dunque quella dimensione di emotività che si aveva nell’approccio sistemico, che così viene grandemente compromessa, sacrificandola sull’altare del valore dell’equidistanza del mediatore, che, se incontrasse separatamente le parti, potrebbe essere visto con sospetto e non solo non essere ma soprattutto non sembrare più così equidistante.

Lo strumento adottato dal mediatore con la collaborazione delle parti è quello della definizione di regole.

Un esempio di regola potrebbe essere che tutte le comunicazioni tra le parti debbano avvenire per mezzo di telefono o di persona, abbandonando le comunicazioni per iscritto che tanto oggi vanno di moda ma che ancor di più di prestano a fraintendimenti, specialmente in situazioni di conflitto dove causano quasi sempre e regolarmente incomprensioni, ulteriori pregiudizi e così via. Manca, nella comunicazione per iscritto, la percezione del «tono della voce» e dell’atteggiamento dell’interlocutore, cosicchè la unica «chiave di lettura» delle comunicazione scritte di una parte sono i pregiudizi negativi ben radicati nell’altra, con i disastrosi risultati che tutti possono immaginare.

Una regola come questa può sembrare, vista da fuori, banale, stupida e persino demenziale, specialmente oggigiorno che siamo in piena rivoluzione digitale. Tutto al contrario, essa è invece sacrosanta e benedetta e può far recuperare una molto miglior comunicazione a molte parti in conflitto.

Sottoporsi all’applicazione di regole peraltro così banali e semplici può essere percepito come umiliante da una o da entrambe le parti, ma bisogna realizzare che in questi casi non ci si trova in una situazione normale, ma all’interno di un conflitto, che rende tutto più complicato; per quanto i protagonisti del conflitto stesso possano essere persone degne, istruite, colte, in gamba, di buon senso, non rispettando regole che paiono stupide riporteranno, sia essi stessi che presso la loro controparte, conseguenze negative che potrebbero anche compromettere l’intero risultato della mediazione.

Una parte del tempo dunque dovrà essere spesa dal mediatore per illustrare l’opportunità di rispettare le regole che vengono man mano definite, ma soprattutto di credere fino in fondo nella loro opportunità, capendo il senso di ognuna ma soprattutto dell’opportunità di procedere in questo modo, altrimenti le parti tenderanno sempre a pretermetterle. Quest’ultimo aspetto è tanto più vero nel nostro Paese, in cui la cifra comportamentale più diffusa è l’egoismo e la scarsa aderenza a regole dettate da altri, sulla scorta della presunzione per cui «non importa» e «basta un po’ di buon senso». Ovviamente, il mediatore non potrà affatto ottenere il rispetto delle regole con autoritarismo e nemmeno con autorevolezza – anche se quest’ultima sicuramente avrà forza persuasiva e dunque agevolerà il processo – ma semplicemente con una adeguata opera di convinzione, cercando di penetrare davvero nei cuori delle parti per convincerli che avere delle regole, anche quando possono sembrare stupide o banali, è una cosa opportuna e fondamentale per il loro interesse e per quello dei loro figli.

Altri tipi di regole di cui fino a poco fa non si sarebbe sentito il bisogno della formulazione o del concepimento riguardano ad esempio la pubblicazione delle foto dei figli, magari insieme ai nuovi compagni o addirittura ad opera degli stessi, sulle reti sociali (social network), episodi che riaccendono violentemente la gelosia del genitore per i figli e compromettono spesso gravemente il percorso di mediazione. Anche in questo caso si tratta di circostanze che sicuramente in astratto potrebbero essere rimesse al famoso «buon senso» delle parti ma va registrato che purtroppo così facendo non si impedisce affatto che accadano cose del genere, per cui è sicuramente – lo si dice proprio sulla scorta dell’osservazione della realtà – meglio prevedere una regola esplicita al riguardo.

Ovviamente oltre alle regole di condotta per le parti della mediazione, regolette semplici e molto circoscritte come quelle che abbiano appena accennato, che, come tali, possono più difficilmente essere messe in discussione o dare adito a problemi interpretativi, per cui sono di più facile applicabilità, non essendoci facili scuse per la parte che intendesse trasgredirle, ci sono tante altre regole possibili e opportune, che potremmo definire regole di procedura che riguardano gli incontri di mediazione e che, al di là della loro banalità, nascondono e tutelano importanti aspetti, come ad esempio presentarsi puntuali, frequentare costantemente le sedute, mantenersi in tema rispetto all’argomento che si sta trattando, non profferire offese nei confronti dell’altra parte né ricordare circostanze spiacevoli che non siano necessarie per l’argomento in questione e così via. Anche queste regole sono banalissime, ma chi ha mai partecipato ad un incontro di mediazione sa perfettamente quanto siano importanti e quanto sia a volte difficile non solo ottenerne il rispetto ma definirle e ottenere il consenso su di esse da parte di entrambe le parti.

Le regole possono essere auspicabilmente definite, in un primo nucleo, all’inizio delle mediazione, dalle parti con l’aiuto del mediatore. A costui spetterà il compito di proporre quelle più utili in generale ma anche in relazione al caso concreto, cosa che il mediatore valuterà dopo aver ascoltato le parti sia nel contenuto di quello che dicono sia soprattutto nel loro atteggiamento. Anche durante il percorso di mediazione si potranno ovviamente definire regole, starà al mediatore proporle, non come un legislatore che si pronuncia dall’alto ma più come un gioco, volta per volta in relazione ai problemi emersi, cercando di formularle sempre in maniera semplice e minimale, lasciando poco spazio per la loro elusione.

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Mediazione familiare: il modello sistemico.

Continuiamo l’analisi dei vari modelli di mediazione familiare diffusi nella pratica.

Il modello sistemico è quello più diffuso nella pratica, tanto che anche molti professionisti del settore, in primis ancora una volta gli avvocati, intendono inconsapevolmente come mediazione familiare la sola declinazione sistemica, spesso proprio perché le limitate esperienze che ne hanno avuto sono state con professionisti pertinenti a questa scuola di pensiero e di pratica.

Alla base di questo approccio, sicuramente più ambizioso e approfondito sotto certi versi dei precedenti, c’è la soluzione delle problematiche emotive ed affettive che stanno alla base del conflitto. Volendo esemplificare, prendendo a prestito categoria dalla psicologia, potremmo dire che mentre gli altri approcci fanno un utilizzo più strategico dello strumento mediazione familiare, così come ad esempio fa in Italia Giorgio Nardone, che cura le patologie dei suo pazienti con strumenti che prescindono dalla ricerca delle cause e, in buona sostanza, anche dall’analisi del paziente stesso, l’approccio sistemico invece è più simile ad una terapia di analisi classica, in cui si va o si tende alla ricerca dell’eventuale trauma e delle sua cause o comunque gli si conferisce adeguata rilevanza e non lo si mette da parte, ma gli si riconosce un ruolo centrale.

Toccando questa differenza possiamo capire un aspetto che avevamo accennato precedentemente e cioè che non è possibile stabilire in astratto quale sia l’approccio migliore per la mediazione familiare, ma sarebbe bene che il professionista fosse in grado, con una certa elasticità, di attingere dalla metodologia e dell’uno e dell’altro approccio a seconda della convenienza del caso concreto.

E’ il caso di fare un esempio.

Nel caso, in ipotesi, di una coppia di genitori già di mezza età, con figli già abbastanza cresciuti, può essere preferibile un approccio di tipo integrato o più semplice. Nel caso, invece, di un rapporto destinato a durare per molto più tempo, come quello tra genitori molto più giovani, a loro volta con figli molto più giovani, o addirittura tra genitori e figli o, sempre ad esempio, tra fratelli, può valer la pena spendere più tempo e lavoro per andare a identificare le cause del disagio emotivo che ha portato al conflitto. Si tratta insomma sempre di fare una valutazione del rapporto tra costi e benefici in relazione al lavoro che sarebbe necessario prodigare adottando un approccio di questo tipo, oltre che valutare, ovviamente, se la situazione concreta lo consente (in alcuni casi, non così rari purtroppo, ci sono termini imposti, tipicamente dall’autorità giudiziaria, che appunto impongono di “accontentarsi” di quei pochi risultati auspicabilmente ottenibili in poche sedute, anche quando si ha la sensazione che, potendo approfondire, si riuscirebbe a raggiungere un assetto molto migliore).

Tornando, comunque, ad esaminare le caratteristiche del modello sistemico e del relativo approccio, in questo contesto va detto che il ruolo del mediatore, oltre a quello, già indicato, di fluidificatore della comunicazione tra i protagonisti del conflitto, deve essere quello di una figura che tenda anche a riportare un po’ di armonia, quel minimo che è possibile nella situazione, tra le parti stesse, non tanto perché ci si consideri eticamente approvabile o desiderabile, ma perché la stessa armonia, recuperata nel suo contenuto minimo, è ritenuta funzionale per tutte le interazioni che le parti dovranno avere in futuro tra di loro.

Il mediatore dovrà quindi farsi lettore ed interprete dei diversi punti di vista delle parti, per illustrare quelli dell’uno anche all’altro e viceversa, demolendo o comunque intaccando quei pregiudizi e quei blocchi di cui si è già cennato e che sono alla base del deficit di comunicazione.

Una volta che sarà stato ristabilito un minimo di armonia tra le parti, si potrà cercare di agevolare tutte le decisione da adottare in dipendenza della intervenuta crisi familiare, tra cui la calendarizzazione delle visite e delle frequentazioni dei figli, l’assegnazione o comunque la gestione della casa familiare, i rapporti economici o, più correttamente, di mantenimento tra le parti e gli eventuali investimenti o aspetti patrimoniali ancora in comune tra le parti.

È evidente che ciascuna di queste decisioni può essere agevolata riavvicinando i protagonisti del conflitto, sia pure di poco, ammorbidendo le rispettive rigidità.

Proprio per questi motivi, viene concesso un largo spazio e un vasto contesto per l’espressione delle emozioni connesse al conflitto, avendo peraltro tale modello una matrice tipicamente psicologica, allo scopo di favorire la cooperazione per il futuro. Ovviamente, l’apertura agli sfoghi emozionali, specialmente nel contesto del colloquio di coppia, rischia di determinare il riaccendersi di livori ormai in via di affievolimento, ma se condotto con la giusta cautela e, auspicabilmente, per lo più in sede di colloquio individuale può consentire al protagonista del conflitto di recuperare una dimensione in cui sentirsi a più agio. Tutto ciò avviene a condizione che il mediatore sappia fornire un vero ascolto, che è un momento apparentemente inattivo, in realtà fecondissimo, tanto quanto inusuale e raro oggigiorno. Ciò in quanto le persone, generalmente, non hanno interlocutori che le ascoltino davvero. È stato calcolato che nelle discussioni delle persone ogni interlocutore interrompe l’altro dopo appena 17 secondi di discorso. In tali condizioni, più che al vecchio piacere della conversazione, che era ristoratore per il cuore e per la mente di chi ne era protagonista, viene da pensare ad un concorso di soliloqui, una gara di monologhi dove ognuno dei due «dialoganti» sembra affannarsi a riversare sull’altro il proprio copione, senza nemmeno attendere riscontro al riguardo, ma per il solo piacere di esternarlo, fine a se stesso.

Tornando al fulcro di questo approccio di mediazione, va detto che dunque il compito del mediatore è quello di consentire ai protagonisti del conflitto di superare anche emotivamente il loro blocco e non solo mentalmente come avviene di più negli altri due approcci, in cui il lato emotivo non viene tanto superato quanto messo da parte temporaneamente in vista di un bene superiore che viene concepito come ragionevole e tale da consentire di «sacrificare» la propria emotività medio tempore in vista di un risultato appunto più alto.

Lo svantaggio di questo approccio è quello ovviamente di richiedere più tempo, più lavoro e più approfondimenti – almeno nella maggior parte dei casi -, mentre per contro il vantaggio è sicuramente quello di tradursi inevitabilmente in un lavoro sulla persona che rappresenta un importante investimento per il futuro, sia per la miglior gestione della situazione in cui si è originato e si radica il conflitto, sia per la persona stessa più in generale, che potrebbe finire per affezionarsi alla mediazione concependola dapprima e sentendola poi come un importante lavoro su se stessa.

Alcuni mediatori che implementano il metodo sistemico ritengono di non far mai partecipare alle sedute di mediazione i figli, mentre altri sì, per meglio far comprendere agli stessi, specialmente nei casi in cui è necessaria la loro collaborazione, la situazione in cui si trova a vivere la famiglia. Ovviamene, anche a questo riguardo si possono fare delle valutazioni, che riguarderanno soprattutto la maturità e l’età (che, ovviamente, sono correlate) dei figli stessi: è evidente che un figlio di quattro anni non può mai essere reso partecipe di una seduta di mediazione, mentre dai dodici anni in poi, a seconda delle circostanze, e con tutte le cautele del caso, questo si può senz’altro valutare. Altrettanto ovviamente il mediatore dovrà valutare sia il tema di discussione sia la maturità degli stessi genitori per evitare ad esempio che, convocati per discutere ad esempio di come gestire la ex casa familiare, comincino a litigare per finire magari per rinfacciarsi avventure extraconiugali o altre piacevolezze consimili di fronte ai figli.

Nel caso in cui il processo di mediazione dovesse interrompersi per un ostacolo che il mediatore arriva a definire insormontabile in mediazione, lo stesso invita le parti a fare comunque tesoro dei frammenti di intesa raggiunti e di rivolgersi al tribunale per risolvere definitivamente la controversia.

La rassegna dei vari modelli proseguirà, come al solito, con il prossimo post della serie.

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Modelli di mediazione familiare: quello integrato.

Il quadro generale.

Continuiamo la nostra importante «serie» di post sulla mediazione familiare passando all’esame dei vari modelli diffusi nella pratica di mediazione, cominciando da quello integrato.

Sono infatti ormai presenti, anche nel nostro Paese, diversi modelli di mediazione familiare, che si differenziano tra loro per vari aspetti tra cui gli scopi più immediati, le tecniche tramite le quali essi vengono perseguiti e le applicazioni.

I principali sono almeno sei:

  1. il modello integrato o parziale di Emery, Marlow, Bernardini;
  2. il modello globale o operativo di Heynes e Buzzi;
  3. il modello sistemico di Irving, Ardore, Malagoli, Togliatti e Mastropaolo;
  4. il modello strutturato di Coogler e Roberts;
  5. il modello ecosistemico di Babu e Bèrubè e Parkinson;
  6. il modello transizionale – simbolico di Cigoli e Marzotto.

Il ruolo del mediatore è ovviamente destinato a variare a seconda del tipo di approccio nel cui contesto si muove, naturalmente dando conto del fatto che ogni professionista interviene in modo diverso nel caso su cui sta lavorando e che, a parte le proprie propensioni personali, derivanti da aspetti formativi o esperienziali, il mediatore può comunque integrare tecniche prese dall’uno o dall’altro approccio, se ritenute più idonee per la situazione da trattare. Così infatti come lo psicologo o psichiatra, pur essendo specializzato in un determinato tipo di metodo, può smussarlo o integrarlo con interventi presi a prestito da altri metodi a lui non congeniali ma che ben possono adattarsi alla personalità del paziente da seguire.

Ad ogni buon conto, può essere opportuno sviluppare alcuni cenni relativi ai vari metodi di mediazione familiare sopra elencati.

 Il modello integrato o parziale

In questo modello, il focus è sui problemi relativi all’affidamento e alla gestione dei figli, concentrandosi sulla definizione di un gruppo di regole, atteggiamenti e modalità riguardo al tema, ma lasciando una certa discrezionalità e forse anche libertà alle parti, anche con riguardo ai loro stati emotivi, e ampia discrezionalità di forma e interventi al mediatore.

La gestione delle sedute, di conseguenza, è abbastanza informale, non essendoci regole precostituite in modo rigido ma solo indicazioni di massima. Questo è probabilmente uno degli aspetti in base ai quali i diversi approcci alla mediazione si differenziano tra loro, ed è fondamentale per il tema che ci occupa in questa sede, che è appunto il ruolo del mediatore familiare.

Nel modello integrato, come in quello sistemico, la formalità è mantenuta al minimo livello rispetto, ad esempio ad altri modelli che in materia sono molto più rigidi: tra questi ovviamente il principale è il modello strutturato.

Il punto di riferimento dell’approccio integrato è la ricerca di una soluzione pratica, a prescindere dall’applicazione di regole di diritto, che non vengono più di tanto prese in considerazione nemmeno come riferimento culturale, ciò che causa a volte un certo disorientamento per i protagonisti della mediazione, che sono abituati a far comunque «ossequio» a quello che prevede la legge – peccato che, tuttavia, in materia familiare la legge sia assolutamente generica e limitata per lo più a dichiarazione di principi o di valori, lasciando ampissima discrezionalità agli operatori giuridici; del resto, tuttavia, non potrebbe essere altrimenti, data la molto vasta eterogeneità delle situazioni familiari e relative problematiche, cosa che mal si presta, come tutte le situazioni eterogenee, ad essere gestita tramite l’applicazione di norme di diritto costruite a maglie eccessivamente rigide e dettagliate e dove rimane assolutamente necessaria una discrezionalità attenta del magistrato o comunque dell’operatore, che, proprio in questi casi, non potrà affatto esser la bouche de la loi come avrebbero desiderato gli Illluministi.

All’inizio della mediazione, in questo tipo di approccio si chiede alle parti di effettuare una piccola «rivoluzione copernicana» rispetto alla mentalità corrente, che vede l’accostarsi alla gestione di una crisi familiare come un conflitto o un agone, dove entrambi i contendenti devono dare il meglio di sé per poter portare a casa il risultato migliore. Alle parti si chiede, tutto al contrario, di pensare a cosa intendono ancora avere in comune con l’altra parte, a quel «nocciolo» di cose in comuni che, nonostante tutti i conflitti e le emozioni negative, le parti si rendono conto di avere ancora e di poter opportunamente gestire insieme, a partire spesso dai figli.

Per questo si ritiene, generalmente, che per la praticabilità di questo tipo di approccio mediatorio sia necessario un minimo di capacità di collaborazione all’interno della coppia. In realtà, sembra che proprio nel recupero di quel minimo comun denominatore che consenta di iniziare davvero questo percorso si possano concentrare le prime sedute, i primi incontri, che oltre a saggiare meglio la situazione concreta, possono iniziare ad essere utilizzati per cercare di sciogliere le tensioni, i conflitti e vedere se man mano nasce un minimo di spirito collaborativo tra le parti.

È un dato di esperienza comune che molte persone si accostano alla mediazione con diffidenza verso lo strumento ed inoltre cariche di tensione e conflitti non sopiti verso gli altri protagonisti della mediazione stessa. Ma quando si riesce a «rompere il ghiaccio» (questa espressione, presa a prestito dal linguaggio comune, descrive davvero bene il fenomeno, tanto che difficilmente se ne potrebbe trovare una che per quanto tecnica possa essere ritenuta più appropriata), spesso sgorgano tanto inaspettate quanto abbonandanti aperture e disponibilità collaborative che anteriormente non si potevano nemmeno scorgere.

La denominazione di questo metodo come «integrato» si riferisce al rapporto che il mediatore deve mantenere con i professionisti che si occupano degli aspetti più propriamente legali, e soprattutto economici, della crisi familiare: il mediatore si incarica di fluidificare la coppia o comunque le parti del rapporto, agevolando la consensualizzazione anche dal punto di vista emotivo e psicologico, mentre il legale e cioè l’avvocato si occupa della parte, a lui più congeniale, istituzionale e burocratica.

Tipicamente, in un approccio di questo genere, le parti vengono inviate ad incontrarsi, senza la presenza di nessun avvocato, ma personalmente, con il mediatore, per riprendere la collaborazione e il dialogo tra loro; il mediatore definirà un corpus di condizioni per la gestione della crisi familiare, tramite il dialogo con le parti. A quel punto, la palla passerà al legale, o ai legali, delle parti che avrà il compito di trasfondere tali condizioni in una forma legale e giuridicamente valida e vincolante. Compito del legale è anche quello, fondamentale, di controllare la validità di quanto le parti sono arrivare a decidere, con l’aiuto del mediatore, di voler praticare, perché abbastanza di sovente le parti chiedono cose di cui non si può ottenere l’omologazione. Il caso tipico è quello delle compensazioni tra eventuali canoni di affitto o occupazione di immobili e spese di mantenimento di minori, oppure dell’esclusione addirittura di qualsiasi mantenimento a favore di minori.

In questi casi, nei casi in cui cioè il legale rileva che la negoziazione ha portato alla definizione di clausole che non sono omologabili, sia nel contesto di una separazione consensuale, sia nel nuovo contesto delle convenzioni di negoziazione assistita – che comunque sono soggette al controllo da parte della magistratura tramite deposito in Procura (e va ricordato, al riguardo, che gli avvocati che vi partecipano devono attestare che le convenzioni non sono contrarie a norme imperative di legge, di talché si può affermare che un primo controllo deve essere effettuato proprio dai legali), in tali casi, si diceva, il legale deve informare prima possibile sia il mediatore che le parti della necessità di rivedere gli accordi riformulandoli in modo da renderli compatibili con le disposizioni di legge.

Spesso, tali circostanze determinano la necessità di rivedere l’intero impianto, perché cambiare una clausola determina uno squilibrio dell’assetto complessivo che le parti avevano peraltro attraverso non poche difficoltà individuato. Per questo è importante che lo «stop» che il legale giustamente e correttamente impone a parti e mediatore in questi casi sia illustrato prima possibile e con chiarezza e abbondanza di motivazioni, in modo che la spinta, anche emotiva, che le parti, con l’aiuto del mediatore, hanno trovato verso la consensualizzazione non vada dispersa, ma anzi, tutto al contrario, venga raccolta e si ricominci a lavorare di nuovo verso una soluzione di ripiego che tuttavia sia conforme alla legge e in grado di passare al vaglio della magistratura.

Le osservazioni che si possono fare al riguardo in relazione al ruolo del mediatore sono che appunto è opportuna in capo al mediatore stesso una conoscenza di base del diritto di famiglia dell’ordinamento in cui si trova ad operare, per prevenire il più possibile situazioni di «rimpallo» come questa tra la fase di mediazione e quella davanti al legale, che, specialmente se non ben gestite, possono essere perniciose intervenendo in circostanze di crisi familiare in cui gli equilibri sono sempre precari e possono venire a mancare, già addirittura spontaneamente, in qualsiasi momento.

Queste problematiche sono ovviamente destinate ad avere minor rilievo nei casi in cui il mediatore è anche un avvocato ben preparato in diritto di famiglia, che ha adeguatamente compreso i concetti di base della materia, mentre nel caso in cui il mediatore possegga una formazione non giuridica, come spesso avviene, con anche eccellenti risultati, una integrazione specifica al riguardo non sarebbe male o comunque una particolare attenzione al dato esperienziale maturato di volta in volta nella collaborazione con il legale.

Nell’approccio in esame, si considera possibile ed auspicabile il colloquio individuale tra mediatore e parte al fine di sbloccare eventuali situazioni in quel momento ferme in attesa della fluidificazione delle parti. Il colloquio con il singolo protagonista può avere la funzione di rinsaldare il rapporto di fiducia con il mediatore e di consentire alla parte interessata di confidare quel vasto novero di cose e pensieri che sicuramente non si sente di esternare nella seduta di coppia; naturalmente, la parte cercherà di farsi «alleato» il mediatore, ciò, altrettanto naturalmente, potrà avvenire solamente a livello emotivo, nel senso che il mediatore potrà manifestarsi vicino alla sofferenza e alla difficoltà della parte, mantenendo e dichiarando sempre tuttavia la sua equidistanza e non dando mai nemmeno il sospetto di poter favorire una parte rispetto all’altra, cosa che determinerebbe il fallimento pressochè immediato della mediazione. Il colloquio individuale è uno strumento molto delicato, nel corso del quale il mediatore ha molte responsabilità, ma ha anche molte opportunità circa l’efficacia del suo intervento e delle sue sedute. Se opportunamente gestito, questo strumento può determinare l’efficacia della mediazione.

Vedremo nei prossimi post gli altri modelli di mediazione.