La mediazione familiare è, come noto, un intervento, da parte di un professionista, rivolto tipicamente alle coppie, quasi sempre genitoriali, ma praticabile anche in altri ambiti familiari, come ad esempio tra fratelli, tra figli e genitori, e, volendo, estensibile anche a contesti dove non esiste una situazione definibile come familiare in senso stretto, ma che rappresentano aggregazioni in cui, come è naturale nell’esperienza umana, possono svilupparsi conflitti; a questo ultimo riguardo, la pratica offre numerosi esempi riguardo agli ambienti di lavoro: in questi ultimi casi, l’applicazione delle pratiche di negoziazione civile ha mostrato tutti i suoi limiti nel momento in cui gli operatori hanno dovuto riconoscere che la radice del conflitto non è in questioni materiali, ma in aspetti personali e nei rapporti tra i loro protagonisti, caso classico il rapporto tra dipendente e responsabile ma anche quello tra colleghi di ufficio.
Siccome alla base di pressoché ogni conflitto, specialmente in ambito familiare o parafamiliare, c’è un deficit più o meno vasto di comunicazione, l’obiettivo della mediazione dovrebbe essere in primis quello di «sbloccare» il dialogo tra i protagonisti del conflitto, fluidificando il confronto tra di loro, precedentemente ingessato in modo grave.
La mediazione familiare, si scopre così, ha a che fare con uno dei tanti paradossi che costellano l’esperienza dell’uomo su questa terra:
Come sempre, è la letteratura che ci fa comprendere la vita, anticipandone e codificandone i movimenti. Infatti, questo paradosso era ben noto, come abbiamo già detto in un altro post, a Tennesse Williams, autore del dramma teatrale «Un tram chiamato Desiderio» (in lingua inglese: A Streetcar named Desire), che fa pronunciare alla protagonista, Blanche DuBois, la celebre battuta «Ho sempre confidato nella gentilezza degli sconosciuti».
Blanche, donna dai molti lati oscuri, provata dalla vita, messa di fronte alla bassezza di quelle relazioni familiari nelle quali dovremmo in teoria cercare protezione, rifugio e ristoro, finisce dunque per rendersi conto della difficoltà della famiglia e per, appunto, vedere di buon occhio gli estranei, gli sconosciuti. Se tanto ci dà tanto…
Orbene, la mediazione serve dunque anche a superare questo paradosso, che non è una immagine della sola letteratura, ma un fatto reale, un’esperienza concreta, che dalla letteratura viene ripresa.
Dobbiamo però anche chiederci come mai si verifica questo, cioè come è possibile che persone che condividono scelte, affetti importanti e totalizzanti come quelli dei figli, esperienze, spesso anche affinità, finiscano per riuscire a comunicare peggio tra di loro che quando lo fanno con estranei?
Lo vedremo nel prossimo post della serie, i cui protagonisti sono i pregiudizi, una particolare forma di lavoro della nostra mente.