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Parto anonimo e stato abbandono: come funziona?

La tutela della madre e del minore nella nascita indesiderata. Conquista di civiltà e democrazia. Come fare per tutelare la nascita e la vita di un figlio che non si può crescere ma che si è deciso di far nascere?

Forse non tutti sanno che l’abbandono del minore alla nascita non è una scelta inevitabile per la madre, coniugata o no, che non voglia o non possa per le più varie motivazioni, provvedere a suo figlio.

Recenti fatti di cronaca narrano vicende figlie di dolore ed ignoranza che forse potrebbero essere evitate o ridotte se solo si diffondessero meglio le informazioni su queste situazioni. Le donne non devono essere lasciate sole o stigmatizzate in queste situazioni, ma possono scegliere di partorire al sicuro in ospedale.

E’ bene che si sappia e si diffonda infatti che, lo stato italiano, tutela le donne che non vogliono o possono tenere con sé il proprio bambino. Ciò avviene in prima battuta consentendo loro di portare a termine la gravidanza in strutture ospedaliere nelle migliori condizioni possibili tutelando la loro salute e quella del nascituro e poi consentendo loro di non essere nominate, senza che vi sia la possibilità per il nato di risalire alla loro origine, sebbene tale possibilità sia stata in parte sdoganata da una recente pronuncia delle Sezioni Unite della Suprema corte di Cassazione.

Ma andando con ordine è necessario sapere che:

-il Decreto del Presidente della Repubblica del 3 novembre del 2000 n. 396 all’art. 30 secondo comma, entrato in vigore nel nostro ordinamento a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127, per la semplificazione dell’ordinamento civile, recita, all’art. 30 per quanto concerne la dichiarazione di nascita, che 1. La dichiarazione di nascita e’ resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l’eventuale volonta’ della madre di non essere nominata.

-Si è ritenuto doveroso occuparsi della materia per l’esigenza di tutelare la salute e la vita sia del figlio che della madre, avendo come obiettivo, da un lato, quello di garantire che il parto avvenisse in condizioni ottimali, dall’altro, quello di evitare che la donna potesse ricorrere a decisioni irreparabili e ben più gravi per il nascituro, quali aborti e infanticidi. Dagli ultimi dati statistici ottenuti si parla infatti di circa 200 neonati all’anno che vengono abbandonati nelle prime ore di vita. Il problema quindi è quanto mai attuale.

  • Preso atto di ciò, essendo sancita chiaramente la possibilità per la madre di non essere nominata, questa legge consente alla madre di non riconoscere il bambino e di lasciarlo nell’ospedale dove è nato affinché ne sia assicurata l’assistenza e anche la sua tutela giuridica. L’istituto del “parto anonimo” consente alle donne che non vogliono riconoscere il figlio, di partorire nel più totale anonimato e di non poter essere rintracciate. Il nome delle madri, infatti, in tali casi, rimane segreto, e sul certificato di nascita del bambino, la cui dichiarazione viene fatta dal medico o dall’ostetrica, viene scritto “nato da donna che non consente di essere nominata”
  • Qualora vi sia comunque la volontà di portare a termine la gravidanza ma non si riesca o non si voglia raggiungere l’ospedale è bene sapere che, per le medesime motivazioni della tutela della nuove vite, è stato “rispolverato” l’antico sistema delle “ ruote degli esposti” cioè di luoghi in cui è possibile lasciare il proprio bambino al caldo e in prossimità di un ospedale ove personale specializzato potrà offrirgli tutto il necessario adottando le modalità di intervento per i casi del genere. Questi luoghi sono rappresentati da culle termiche, esattamente identiche a quelle presenti nei reparti di neonatologia. Il sistema è meccanico con una porta a “ribaltina” che consente di riporre il neonato dall’esterno all’interno dell’edificio senza essere visti. Ciò può apparire una modalità dura da accettare ma è utile senza dubbio a scongiurare gli abbandoni traumatici di feti di poche ore o giorni di vita nei luoghi più impensati.

  • Il soggetto nato da persona che “non vuole essere nominata” è immediatamente segnalato alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni competente per territorio. In seguito ciò permetterà di avviare le procedure per l’adozione del minore dichiarato in stato di abbandono, in modo da consentirgli di essere adottato da una coppia disponibile e di godere delle migliori condizioni di vita possibili.

-Il diritto del minore e del soggetto in generale nato da una persona che non vuole essere nominata era fino a pochi anni fa assolutamente contratto e sclerotizzato a favore del diritto della madre anonima. Si riteneva infatti che fosse maggiormente meritevole di tutela l’interesse della madre anonima a volere rimanere tale a scapito dell’interesse del soggetto che avesse desiderato conoscere le proprie origini.

-La Corte Costituzionale infatti, con sentenza del 2013 (Corte Costituzionale sentenza n° 278 del 2013), dichiarava illegittimità costituzionale della disposizione in materia di adozione (l.184/1983) nella parte in cui, nel prevedere il diritto del minore ad avere una famiglia, non prevedeva che vi fosse la possibilità per il soggetto adottato stesso di conoscere le proprie origini tramite una modalità, ancora non esistente nell’ordinamento, in cui il giudice avesse potuto chiedere alla madre anonima se avrebbe acconsentito ad essere rintracciata dal figlio.

-Dichiarando l’illegittimità di questa fattispecie, la Corte Costituzionale apriva una possibilità al legislatore per colmare la lacuna legislativa in questo senso. Sulla scorta di tale pronuncia il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, nel 2017, in un caso in cui un soggetto maggiorenne nato da madre anonima voleva conoscere le proprie origini, ha chiesto alla Suprema Corte di enunciare un principio di diritto in tema di parto anonimo, stante il solco che era stato lasciato dalla Consulta circa quattro anni prima a seguito del quale rimaneva lacunoso un importante aspetto del diritto dei figli a conoscere le proprie origini.
-La Corte Costituzionale infatti, aveva sancito, nel silenzio del legislatore in materia, che non vi fossero gli estremi per consentire ad un figlio di conoscere le origini da cui proveniva, qualora la madre avesse scelto di non essere nominata al momento del padre, per rispettare il supremo diritto alla privacy della donna. Ciò però lasciava privo di tutela il diritto del figlio a conoscere della propria storia.
-Sulla scorta di queste considerazioni si è stabilito che il giudice potrà procedere ad interpello della donna, quando la richiesta provenga da persona maggiorenne. La Corte di Cassazione quindi, ma solo a livello interpretativo, nel senso di tutelare di più l’interesse del figlio di madre anonima, ha ammesso la possibilità che un giudice, su impulso del figlio che sia divenuto maggiorenne, possa chiedere alla madre che aveva chiesto di rimanere anonima se ha cambiato idea sul fatto di mantenere l’anonimato e se vuole incontrare il figlio. (SSUU Cass. Sent. Del 25 gennaio 2017 n. 1946) Ad oggi però non vi è una norma che disciplini tale ipotesi, e pertanto andranno contemperati gli interessi rispettivamente della madre anonima a mantenere la privacy e del figlio nato da non nominata a conoscere delle proprie origini.

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Coordinatore genitoriale: che roba è?

Che cos’è il coordinatore editoriale.

La figura del c.d. Coordinatore genitoriale o familiare non è attualmente disciplinata in Italia e non vi sono ancora molti corsi di studio o di specializzazione in questo ambito. E’ una figura professionale traslata dal mondo anglosassone della quale si sta parlando attualmente, specie dopo il disegno di legge 735 2018, c.d. DDL Pillon, attualmente in discussione, per facilitare la risoluzione dei contrasti tra genitori separati o divorziati; potrebbe, infatti, accadere che questi ultimi siano coinvolti in dinamiche conflittuali tali da non avere una lucidità adatta per la gestione della prole in regime di separazione e di divorzio.

Il coordinatore familiare dovrebbe essere, quindi, un soggetto terzo ed imparziale che aiuta e coadiuva le parti ad attuare un programma di genitorialità (evitando anche quelle che possono essere le conseguenze dannose del conflitto per i figli) ed allo stesso tempo facendo in modo che possa essere favorita la cooperazione tra i genitori (riducendo drasticamente quelli che potrebbero essere i contrasti tra di loro). Per queste ragioni, la finalità da perseguire sarà quella di salvaguardare l’interesse del minore coinvolto nel conflitto genitoriale; difatti, l’intervento avrà come unico scopo quello del benessere psicofisico del bambino a cui dev’essere garantita la più amplia tutela.

Egli dovrà e potrà supportare i genitori litigiosi e cercare di dirimere e superare i contrasti. Il Coordinatore familiare, quindi, dev’essere necessariamente una persona super partes; una persona che non abbia avuto alcun rapporto con la coppia in qualità di consulente legale, terapeuta , consulente tecnico di parte , consulente tecnico d’ufficio o mediatore familiare. Il coordinatore familiare avrà la possibilità di dare assistenza al giudice esclusivamente nell’ambito del proprio ruolo, senza diventare un vero e proprio suo ausiliario o perito e fornire consulenza medico-legale o psicologica sui figli e sulla famiglia di cui si sta occupando.

Questa figura viene però considerata da alcuni a volte una risorsa inutile e strabordante, che può anche fuorviare il lavoro del giudice, dei servizi sociali e delle parti, creando caos e confusione di ruoli, specie nelle situazioni più complesse. Se i genitori sono già in difficoltà a prendere decisioni per i figli e se già un giudice ha disposto una consulenza tecnica ed ha coinvolto nelle scelte per la vita del minore i servizi sociale è comprensibile e ragionevole che si ritenga non opportuno coinvolgere una ulteriore figura professionale. E’ proprio dalla necessià di comprendere le funzioni ed i ruoli di tutte le figure coinvolte che sarebbe opportuno partire per utilizzare al meglio questa risorsa che forse proprio perchè non è ancora compresa nel sistema della gestione dei conflitti familiari giudiziali e stragiudiziali, appare ad essa estranea.

La sentenza di Bologna.

Un caso emblematico sull’effettiva utilità del coordinatore genitoriale è stato il recente provvedimento del Tribunale di Bologna.

Nella gestione di rapporti fra genitori non coniugati di un figlio minore nato nel 2015, per individuazione e definizione di provvedimenti del giudice in favore della miglior gestione dello stesso prende atto una diatriba complessa e conflittuale nella quale in breve viene a determinarsi una potenziale confusione di ruoli e competenze che mal si presta al raggiungimento di una serena situazione fra le parti.

Secondo il giudice, che ha già provveduto alla nomina di CTU ed ha disposto l’affidamento del minore ai servizi sociali proprio per l’inadeguatezza genitoriale delle parti, l’essere affiancati anche da un coordinatore complicherebbe non poco la gestione della quotidianità in quanto i genitori, già molto conflittuali fra di loro, sarebbero potenzialmente esasperati dalla figura del coordinatore genitoriale, avendo già da seguire i consigli e le indicazioni fornitegli dai Servizi sociali ed essendo sotto valutazione nell’ambito della consulenza tecnica di ufficio disposta dal giudice.

Il minore viene affidato ai servizi sociali con collocazione presso la madre con previsione di periodi di frequentazione con il padre dapprima in incontri protetti con i servizi sociali alla presenza di un operatore ed eventualmente in seguito, qualora vi siano miglioramenti nell’approccio con il padre, anche senza. Si spera così di non appesantire ulteriormente la situazione e di far si che le parti arrivino ad una genitorialità migliore e più consapevole. Sembra impossibile che a volte i genitori non sappiano fare i genitori e che il correre ai ripari successivamente sia così inadeguato e inefficace.

Forse un aiuto alla genitorialità che precede la crisi o che la contiene sarebbe sicuramente di aiuto a molte coppie tramite consultori, distretti sociali, scuole, e tutti gli ambiti in cui la famiglia vede muovere i propri riferimenti, senza arrivare allo scontro diretto e senza fine, che danneggia inevitabilmente i minori.

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Divorzio romeno: che valore ha in Italia?

Rapporti fra sentenze di divorzio di paesi membri dell’Unione Europea. Lo strano caso Italia – Romania. Sentenza Corte Ue causa 386-17 del 16 gennaio 2019.

Recentemente è stata posta alla Corte di Giustizia europea la questione pregiudiziale in materia di riconoscimento di sentenze pronunciate da autorità di diversi stati membri in unione europea. Nel caso di specie si tratta di una questione di diritto di famiglia e del riconoscimento di una sentenza di divorzio pronunciata da un tribunale romeno mentre era pendente presso il tribunale italiano il procedimento per la separazione dei coniugi. La coppia si sposa in Italia nel 2005 e dopo un anno, con la nascita del primo figlio, entra in crisi. La donna torna nel suo paese portando con sè il figlio. L’uomo, italiano, chiede dunque la separazione presso il Tribunale territorialmente competente in Teramo e la ottiene nel 2012 con disposizioni in merito all’affidamento del minore e condizioni specifiche di separazione. La donna però, aveva intrapreso azione per la pronuncia di divorzio dal marito italiano già nel 2009, dato che l’istituto della separazione non esiste nella disciplina romena.

In sostanza il Tribunale di Bucarest disponeva molto più velocemente in merito alla condizione dello status dei due coniugi e in merito all’affidamento del minore quando nel tribunale italiano si disponeva solo sulla separazione e non sul divorzio. Il Tribunale italiano nel 2013 invece riconosce affido esclusivo del minore al padre e dispone in merito alla separazione e rigetta la domanda della donna la quale, forte della pronuncia ottenuta in Romania, chiede al tribunale competente per territorio in Italia il riconoscimento della sentenza di divorzio con affido esclusivo del minore come era stato previsto, in quanto sentenza straniera di paese UE suscettibile di avere valore in Italia. L’uomo cerca di far riconoscere gli effetti della pronuncia italiana anche in Romania dato che il Tribunale italiano è stato il primo ad essere adito,sollevando eccezione di litispendenza,ma la corte rumena ritiene non sussista violazione delle regole della litispendenza poichè in Italia era stata pronunciata sentenza di separazione ed in Romania invece sentenza di divorzio, non sussistendo l’istituto della separazione in Romania. La donna invece ricorre in appello in Italia e questa volta la Corte ribalta il verdetto di primo grado, riconoscendo la sentenza di divorzio romeno con le conseguenti disposizioni sull’affido esclusivo del figlio alla stessa. Questa giustificazione non piace all’uomo che fa ricorso in Cassazione per ottenere riconoscimento del corretto procedere del Tribunale di merito in ragione della violazione delle regole della litispendenza da parte della Romania.

La Suprema Corte solleva però questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia europea sull’applicazione dei regolamenti di riconoscimento delle sentenze straniere, in particolare sul divieto di procedere al riesame della competenza giurisdizionale dell’autorità giurisdizionale d’origine. In questo caso infatti l’autorità romena avrebbe violato le regole della litispendenza soggettiva, pronunciandosi su una questione con le medesime parti in causa e su un fatto di causa attinente alla situazione fra coniugi.

Dall’esame della CGE deriva però che non vi sia stata violazione delle regole sulla litispendenza in quanto all’articolo 19 del regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio, del 27 novembre 2003, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento (CE) n. 1347/2000, devono essere interpretate nel senso che, qualora, nell’ambito di una controversia in materia matrimoniale, di responsabilità genitoriale o di obbligazioni alimentari, l’autorità giurisdizionale successivamente adita abbia adottato, in violazione di tali norme, una decisione poi divenuta definitiva, esse ostano a che le autorità giurisdizionali dello Stato membro cui appartiene l’autorità giurisdizionale preventivamente adita neghino, per questo solo motivo, il riconoscimento di tale decisione.

In sostanza, anche se sono state violate delle norme sulla litispendenza, perchè era pendente in un altro paese una causa con le medesime parti, ciò non significa che l’autorità adita per prima, cioè quella italiana, possa rifiutarsi di riconoscere una pronuncia definitiva di un altro stato membro. Secondo la Corte Europea, l’autorità giurisdizionale rumena ha in effetti violato le regole sulla litispendenza, visto che in Italia pendeva già il procedimento di separazione ma questo tuttavia non significa che la violazione delle norme europee sulla litispendenza siano di ostacolo al riconoscimento di una decisione per contrarietà alle regole di ordine pubblico, che, in questa fattispecie, non sono state violate.

Non rilevando violazioni di regole di peso inerenti l’ordine pubblico quindi, la definitività del provvedimento fa sì che quello romeno di divorzio prevalga su quello italiano. Detto precedente non lascia liberi da perplessità, poichè la differenza fra i giudizi di separazione e divorzio sussistenti in Italia e non presente in Romania dovrebbe dare spazio ad un confronto fra i paesi e ad una analisi più approfondita degli strumenti giuridici di tutela in materia di diritto privato internazionale, anziché limitarsi a riconoscere direttamente la pronuncia romena solo, di fatto, in nome di una maggiore rapidità del procedimento.

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Mantenimento figli maggiorenni: si paga a loro?

Problema comune che affligge molti genitori separati o divorziati e? il mantenimento dei figli. Anche se maggiorenni infatti, i giovani non diventano improvvisamente con il compimento dei diciotto anni autosufficienti economicamente ma anzi, spesso hanno piu? bisogni di quando erano piccoli. I figli secondo la Costituzione devono essere mantenuti dai genitori (art. 30) e secondo il codice civile devono essere tutelati nelle loro aspirazioni nel rispetto delle loro capacita?, delle inclinazioni naturali, secondo quanto previsto dall’articolo 315 bis. (art 147). L’Istat ci dice che i giovani italiani in media rimangono a vivere con i genitori, o con un genitore in caso di separazione, anche molti anni dopo la maggiore eta?. La recente giurisprudenza di merito e legittimita? nel corso degli anni ha dovuto correre per assestarsi a questi nuovi indici.

I figli, secondo le ultime pronunce della Corte di Cassazione e secondo un orientamento consolidato anche nei vari tribunali d’Italia, possono considerarsi ancora non autosufficienti almeno sino ai 34 anni in media…
Questo indicatore, che, da un lato allunga di quasi il doppio gli anni di mantenimento dei figli, (che comunque gia? erano stati superati dal riferimento al termine del corso di studi universitari, dal concetto cioe? che i figli, qualora si fossero iscritti all’universita?, avrebbero dovuto essere mantenuti dai genitori almeno sino al termine del corso legale di studi) dall’altro pone un limite all’obbligo dei genitori al mantenimento dei figli, che altrimenti, nelle condizioni di economia attuale in cui faticano a trovare un’occupazione che li renda del tutto autonomi, diverrebbe “perpetuo”.

Stante la premessa, sull’obbligo dei genitori di mantenere i figli anche se maggiorenni, e? stata introdotta da qualche anno la disposizione 337 septies del codice civile ex l. 154 del 2013. Quest’ultima disposizione consentirebbe apparentemente al genitore non collocatario, cioe? a quello che non vive con i figli, di poter versare loro direttamente le somme che il giudice aveva stabilito all’epoca della fine del matrimonio, in modo da evitare passaggi di denaro all’ex, i quali a volte non creano problemi ma spesso sono fonte di disagio, in quanto forieri di antipatici ricatti o ripicche. Spesso infatti ci si chiede se non sarebbe meglio dare direttamente i soldi ai figli ormai grandi, anziche? versarli all’ex, che non sempre potrebbe spenderli per loro….La legge effettivamente, affermando che “Il giudice, valutate le circostanze, puo? disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico. Tale assegno, salvo diversa determinazione del giudice, e? versato direttamente all’avente diritto” da? questa possibilita? al genitore Ma e? necessario specificare che questa norma, per consolidata prassi applicativa, subisce una deroga quando il figlio continui a vivere con uno dei genitori. In questo caso infatti, le somme devono continuare ad essere corrisposte al genitore con il quel il figlio convive, salvo specifica azione legale del figlio nei confronti del genitore tenuto al versamento, che potrebbe richiedere ed ottenere, la corresponsione delle somme anche nei propri confronti. L’art 337 septies c.c. introdotto dalla legge 154 del 2013 pertanto, ha conferito la possibilita? al genitore di pagare il mantenimento ai figli direttamente, ma solo dietro loro azione giudiziale esplicita, in quanto titolari di diritto autonomo e concorrente. Cio? pero? non fa venire meno il diritto dell’altro genitore che vive con i figli a percepire i soldi. Il rischio e? quello di dover pagare due volte. Sia l’ex con il quale i figli convivono e i figli maggiorenni che abbiano esercitato un’azione legale contro il genitore tenuto al loro mantenimento, per far si? che le somme vengano versate direttamente a loro. Pertanto si?, e? possibile dare i soldi direttamente ai figli maggiorenni, qualora questi lo richiedano con azione giudiziale, ma se comunque continuano a vivere con l’altro genitore bisognera? continuare a corrispondere le somme anche a quest’ultimo.

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Amministrazione di sostegno: cosa c’è da sapere.

Di Amministrazioni di sostegno si parla molto, forse troppo e spesso nemmeno in modo preciso. Cosa è l’amministrazione di sostegno? Quali sono i presupposti per la sua applicazione? E soprattuto cosa implica nelle vite delle persone che in qualche modo hanno a che fare con questo strumento, ancora oggi non del tutto compreso e “digerito”, come beneficiari, parenti, o anche operatori dei servizi principali di cui tutti usufruiamo come ospedali, banche o uffici postali, solo per fare un esempio?

Definizione: La legge sulle Amministrazioni di sostegno (ADS per brevità) è la n° 6 del 2004, presente nel nostro ordinamento da ormai quattordici anni. Ancora molti però sono i dubbi e le incertezze che ha creato con la sua entrata in vigore.
L’ADS Ha principalmente “la finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente (Art 1).La caratteristica fondamentale di questa misura di tutela è la possibilità che possa essere disposta anche in modo temporaneo. L’Ads infatti può essere disposta in modo “elastico” per permettere alla persona di riuscire a recuperare le capacità e le autonomie che avesse temporaneamente perduto (ad esempio a seguito di infortunio).

Presupposti dell’ADS: Necessita dell’ADS La persona che, “per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi (Art 2)” Elemento essenziale è che vi sia un interesse attuale e concreto al compimento di atti per i quali è fondamentale l’amministratore di sostegno e che il soggetto interessato non sarebbe in grado di compiere da solo. (ad esempio, gestione delle pratiche per assunzione di badante, o per inserimento in case di riposo, contratti di utenze o di locazione, gestione quotidiana delle spese per la casa o dei risparmi, qualora ve ne siano). Importante anche è sottolineare che il “sostegno” dato sarà previsto solo per determinate attività. Non si avrà una totale sostituzione del soggetto debole da parte dell’ads in tutte le attività ma un aiuto specifico ove vi sia reale necessità Questa specificità è indicata specificamente nel decreto di nomina di amministratore di sostegno emesso dal giudice tutelare competente per territorio.

Chi può chiedere l’ADS:
1)lo stesso beneficiario, cioè la persona che ne avrà poi bisogno (anche se minore, interdetto o inabilitato); Il coniuge; la persona stabilmente convivente; i parenti entro il 4° grado, che sono poi i genitori, i figli, i fratelli o le sorelle, i nonni, gli zii, i prozii, i nipoti e i cugini; gli affini entro il 2°grado, che sono i cognati, i suoceri, i generi,le nuore;
Possono chiedere l’ADS anche il pubblico ministero; il tutore o il curatore del soggetto fragile.

Il procedimento per avere un ADS:
L’ads si ottiene sulla base di un ricorso presentato all’Ufficio del giudice tutelare del Tribunale competente per territorio, cioè del luogo in cui la persona è residente.
Per ottenere la nomina di un amministratore di sostegno ci si deve rivolgere quindi al Tribunale competente ma per avere informazioni e maggiori indicazioni si possono contattare senza dubbio i distretti sociali di zona. Infatti i responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona, se sono a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna l’apertura del procedimento di amministrazione di sostegno, sono tenuti a proporre al giudice tutelare il ricorso o a fornirne comunque notizia al pubblico ministero.
Il procedimento vero e proprio viene introdotto con un ricorso, la modulistica può essere reperita presso gli uffici URP dei Tribunali di zona o reperita sui rispettivi siti internet di riferimento sotto la voce “volontaria giurisdizione”. Per la presentazione del ricorso non è necessaria l’assistenza di un avvocato. Il procedimento è esente dal pagamento del contributo unificato ma è richiesto il versamento di una marca da bollo che ad oggi è di 27 euro. L’amministratore di sostegno viene nominato con un decreto del giudice tutelare. Tuttavia in particolari situazioni più complesse in cui vi siano difficoltà trasversali nella gestione dei soggetti, come ad esempio per esposizioni debitorie del beneficiario, dichiarazioni di successione, gestioni di beni immobili o situazioni di carattere di disagio sociale o economico, è bene chiedere consulenza legale per comprendere se lo strumento dell’ads sia quello più idoneo per la propria situazione. Molte amministrazioni di sostegno infatti nascono perchè vengono considerate necessarie ed urgenti in carenza di rete familiare o sociale ma spesso una attivazione di queste reti possono evitare questo strumento che è si di tutela ma anche limitativo delle attività della vita quotidiana del beneficiario, il quale non sempre ha necessità di essere vincolato. L’Ads nominato dal giudice tutelare, infatti, anche se provvisoriamente, ha poteri di fatto concreti della vita del soggetto sottoposto ad amministrazione di sostegno, che vanno dal controllo e gestione del conto corrente bancario e dei risparmi nel precipuo interesse dello stesso, ad esempio scegliendo di assumere una persona che lo aiuti in casa, occupandosi del pagamento delle utenze e delle tasse, delle assemblee di condominio…oppure, ove ve ne siano i presupposti, scegliendo di farlo vivere in una casa di riposo e aiutandolo a fare scelte sulle cure alle quali sottoporsi o sugli specialisti da consultare per le determinate patologie. Tutti i poteri dell’ads su tutto quel che può fare o anche che lo stesso amministrato può fare con l’aiuto dell’amministratore o anche da solo sono espressi chiaramente nel decreto di nomina del giudice tutelare.

Cosa contiene il decreto di nomina?: Il decreto di nomina dell’amministratore di sostegno deve contenere l’indicazione:
delle generalità della persona beneficiaria e dell’amministratore di sostegno
della durata dell’incarico, che può essere anche a tempo indeterminato
dell’oggetto dell’incarico e degli atti che l’amministratore di sostegno ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario
degli atti che il beneficiario può compiere solo con l’assistenza dell’amministratore di sostegno
dei limiti, anche periodici, delle spese che l’amministratore di sostegno può sostenere con utilizzo delle somme di cui il beneficiario ha o può avere la disponibilità
della periodicità con cui l’amministratore di sostegno deve riferire al giudice circa l’attività svolta e le condizioni di vita personale e sociale del beneficiario.

Quali sono i doveri dell’amministratore di sostegno?: L’Amministratore di sostegno deve rendere conto al giudice tutelare, con la cadenza temporale prevista nel decreto di nomina. Con la stessa relazione e rendiconto con allegata la documentazione relativa alla situazione medica, economica e in generale alla situazione di vita del beneficiario, almeno a seconda delle prassi dei singoli tribunali italiani, l’Ads può richiedere il riconoscimento di una indennità per l’attività svolta in quel periodo, che verrà riconosciuta dal Giudice tutelare ove ne vengano identificati i presupposti e sarà a carico del beneficiario dell’amministrazione di sostegno. Ove l’amministrato non abbia proprie sostanze l’amministratore di sostegno nominato, in linea di massima non potrà ricevere indennità dal giudice e pertanto avrà prestato la sua attività pressochè gratuitamente e spesso anche in perdita data l’impossibilità in determinati casi di poter rientrare delle spese sostenute.

Come si sceglie l’amministratore di sostegno?: La scelta dell’amministratore di sostegno avviene con esclusivo riguardo alla cura ed agli interessi della persona del beneficiario. Qualora vi siano le disponibilità di una rete familiare solida l’incarico può essere assunto da un parente. Ove vi siano contrasti fra le parti o non venga ritenuto nell’interesse del beneficiario che l’ads sia un familiare, l’incarico può essere affidato ad un terzo, anche professionista. La legge dice che, nella scelta della persona da nominare amministratore di sostegno, il giudice tutelare preferisce, se possibile:
il coniuge che non sia separato legalmente
la persona stabilmente convivente
il padre, la madre
il figlio
il fratello o la sorella
il parente entro il quarto grado
il soggetto designato dal genitore superstite con testamento, atto pubblico o scrittura privata autenticata.

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Nuovo 570 bis codice penale: e i figli di conviventi?

1)Il principio della “riserva di codice”, contenuto nel Decreto legislativo, 01/03/2018 n° 21, pubblicato in G.U. 22/03/2018 ed entrato in vigore dal 6 aprile, ha voluto unificare in un unico alveo tutte le disposizioni in materia penale già contenute in diverse previsioni legislative allo scopo di dare maggior protezione a beni di rilievo costituzionale. L’essenziale ratio del principio è stata quella di migliorare la conoscenza dei precetti e delle sanzioni da parte dei soggetti e, conseguentemente, tentare di concretizzare la effettività della funzione rieducativa della pena. Il principio viene attuato mediante l’inserimento, all’interno del codice penale, di tutte le fattispecie criminose previste da disposizioni di legge già in vigore, per dare più forza alle stesse e per evitare la dispersione delle tutele. Oggetto della riserva di codice, fra le altre, sono state le norme sanzionatorie per il mancato pagamento dell’assegno di divorzio e delle somme stabilite in sede di separazione dei coniugi;

2)Fra le conseguenze dell’introduzione del ridetto principio vi è, per l’appunto, l’introduzione nel codice penale dell’art 570 bis, che così dispone “Le pene previste dall’articolo 570 si applicano al coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione di ogni tipologia di assegno dovuto in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio ovvero vìola gli obblighi di natura economica in materia di separazione dei coniugi e di affidamento condiviso dei figli

3)Detta previsione è stata al centro di numerose polemiche e non è attualmente scevra dal rischio di pronuncia di incostituzionalità dato il riferimento esclusivo alla famiglia “tradizionale” evidenziato dal primo comma. Nel riferirsi al coniuge ed esclusivamente ad esso, la norma riprende la tutela che era prevista dalla disposizione ex art. 12-sexies della legge 898/1970, (abrogandolo) in materia di divorzio e perciò espressamente riferita al coniuge ed alla crisi del matrimonio, ma, allo stesso modo, non include anche la tutela che era prevista dalla legge dall’articolo 3 della legge 54/2006 nei confronti di tutti i figli naturali anche se non riconosciuti, o comunque di coppie non sposate. L’art 570 bis infatti è espressamente abrogativo dell’art 3 citato, come anche delle altre tutele previste in materia di famiglia non contenute nel codice penale, in virtù del principio della riserva di codice. L’articolo 570 bis pertanto, seppur voglia concentrare e specificare tassativamente la punibilità del soggetto che viola gli obblighi familiari, concentrando la censurabilità della condotta solo nei confronti del coniuge, implicitamente ammette che il medesimo comportamento, cioè la violazione degli obblighi familiari, da parte di un soggetto non coniugato, ma che ha procreato, non possa essere perseguita proprio perchè in assenza di vincolo giuridico di coniugio, superando tutte le agognate e raggiunte condizioni di uguaglianza fra figli naturali e riconosciuti che si erano attestate da poco tempo nell’ordinamento.

Conseguenze

Per il principio di tassatività dell’ordinamento penale quindi, che, a tutela del cittadino, obbliga il giudice ad applicare solo ed esclusivamente ciò che viene sancito dalla norma, l’art. 570 bis configura come soggetto punibile solo ed esclusivamente il coniuge che non provvede ai figli, non essendo prevista altra figura punibile dalla lettera della previsione normativa. La tutela della posizione di figli di persone non coniugate però continua e continuerà ad essere effettiva ricorrendo all’art. 570 c.p. che, riferendosi indifferentemente a violazione di obblighi familiari, punisce chi abbandona il domicilio domestico, o comunque serba una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie e si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla responsabilità genitoriale.

Il riferimento alla responsabilità genitoriale mette in luce tutte le possibili applicazioni ampie del concetto di famiglia, potendo farvi riferimento indifferentemente per coppie coniugate o non coniugate. Condotta contraria alla morale della famiglia è certamente rappresentata dalla violazione degli obblighi di mantenimento dei figli, legati indissolubilmente dal rapporto genitoriale che è immutabile nel tempo. I genitori sono tali a prescindere dai rapporti fra loro, ed hanno specifici obblighi che non possono essere limitati od esclusi da nessuna definizione normativa. Il passaggio auspicato dal concetto civilistico di “potestà genitoriale”di stampo fortemente ottecentesco e privatistico, che conferiva la proprietà dei figli ai genitori, a quello più moderato e costituzionalmente orientato di “capacità genitoriale”, che conferiva un rapporto più equilibrato fra genitori e figli, a quello più moderno e completo di “responsabilità genitoriale” non può e non deve subire limitazioni o bruschi arretramenti culturali, da nuove previsioni che apparentemente ampliano le tutele per le famiglie ed i figli ma che in realtà non modificano alcunchè ed addirittura possono limitarle.

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diritto

Nonni e nipoti: novità dalla CGUE.

Problema spesso comune, che si aggiunge alla conflittualità ed alla crisi dopo la fine del matrimonio o della relazione è la possibilità dei minori di continuare ad avere rapporti e frequentazioni non solo con il genitore con cui, di fatto, non vivranno più, ma anche con la di lui o di lei famiglia. 
Nonni, zii, cugini, sono il tessuto familiare della persona e spesso con la crisi dei genitori questi rapporti si degradano sino a sfaldarsi.
L'interesse del minore a mantenere però rapporti e relazioni con tutti i familiari anche dopo la crisi della coppia genitoriale degli stessi è stato considerato essenziale e rilevante. 
In Italia la tutela del diritto dei nonni a continuare a frequentare i nipoti anche dopo crisi matrimoniale o rottura della coppia è prevista ex art.317 bis c.c. - come sostituito dall’art. 42, D.Lgs. n. 154/2013, in esecuzione della delega prevista dall’art. 2, L. n. 219/2012- che prevede in capo agli ascendenti una legittimazione ad agire in giudizio, nel caso in cui l’esercizio del diritto venga impedito, "affinchè siano adottati i provvedimenti più idonei nell'esclusivo interesse dei minori", con azione dei nonni da proporre dinanzi al Tribunale per i Minorenni. 
Il diritto dei nonni è qui inteso non come un vero e proprio diritto di visita ma come il diritto a mantenere rapporti significativi con i nipoti.
 
Con una recente sentenza del 31 maggio 2018, CGUE Causa C 335/17,  la Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha però inteso ampliare a livello comunitario la nozione di diritto di visita contenuta nel Regolamento c.d. Bruxelles II (Regolamento (CE) n.2201/2003) in materia di tutela della vita privata e familiare dei cittadini membri, intesa solitamente come relativa al rapporto genitori-figli anche applicabile al rapporto nonni-nipoti.
Una nonna bulgara voleva continuare a vedere il nipote, un giovane di sedici anni, che, dopo il divorzio dei propri genitori, madre bulgara e padre greco, era stato affidato al padre, cittadino greco, ed era andato a vivere con lui. 
La Corte bulgara rinviava pregiudizialmente la questione alla Corte di Giustizia europea per comprendere se fosse applicabile anche al rapporto fra nonni e nipoti il diritto di visita analogo a quello fra genitori e figli e quindi se fosse il giudice nazionale a poter decidere in materia. 
Partendo dall’importanza per un minore di intrattenere rapporti personali con i propri nonni, nei limiti in cui tali contatti non siano contrari al suo interesse, ma anzi siano fondamentali per il suo sviluppo e la sua crescita emotiva e relazionale, la Corte interpreta il regolamento n. 2201/2003 in materia di responsabilità genitoriale nell’ottica del principio del primato dell’interesse superiore del minore e dichiara applicabile il detto regolamento anche nei rapporti fra nonni e nipote.
Infatti il presente regolamento disciplina tutte le decisioni in materia di responsabilità genitoriale, incluse le misure di protezione del minore, indipendentemente da “qualsiasi nesso con un procedimento matrimoniale».
Secondo tale decisione quindi “è opportuno che le regole di competenza in materia di responsabilità genitoriale accolte nel presente regolamento si informino all’interesse superiore del minore e in particolare al criterio di vicinanza”. 
Ciò significa che la competenza giurisdizionale appartiene anzitutto ai giudici dello Stato membro in cui il minore risiede abitualmente, “salvo ove si verifichi un cambiamento della sua residenza o in caso di accordo fra i titolari della responsabilità genitoriale” 
L’individuazione delle persone, oltre ai genitori, con cui il minore possa intrattenere relazioni personali, nella misura in cui ciò non sia contrario al suo interesse superiore, è «d’importanza capitale». Infine, viene ribadito dalla stessa pronuncia. che la tutela di cui all’articolo 8 della CEDU, tutela alla vita privata e familiare dei cittadini degli stati membri, si estende al mantenimento delle relazioni personali tra un nonno e i suoi nipoti “ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare”. La Corte EDU ha dichiarato che «i legami tra nonni e nipoti rientrano nei legami famigliari ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione». 
Il diritto di visita quindi rientra quindi anche nel diritto dei nonni e dei nipoti di continuare a vedersi anche dopo la frattura dei rapporti matrimoniali o genitoriali che hanno dato origine al legame.

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diritto

Il criterio del «tenore di vita» è davvero finito?

Interessante resistenza dei tribunali di Matera e Mantova rispetto all’imminente e per alcuni già iniziata modifica dell’orientamento della Cassazione in materia di diritto alla corresponsione dell’ assegno divorzile.

Tribunale di Matera 7 marzo 2018 Tribunale di Mantova, 24 aprile 2018

A) Nella causa per la modifica o revoca dell’assegno divorzile instaurata da un uomo nei confronti dell’ex moglie, nanti il Tribunale di Mantova, viene citata fra gli elementi a supporto della richiesta la considerazione che l’importo dell’assegno, pari all’epoca (2004) ad € 350,00.= ad oggi rivalutato in € 411,47 era stato determinato sul parametro del “tenore di vita” tenuto dalla stessa in costanza di matrimonio.

Dato l’allontanamento o presunto tale da detto parametro dopo la pronuncia del maggio del 2017, l’uomo riteneva di essere probabilmente nel sicuro alveo della modifica o esclusione del riconoscimento economico alla sua ex signora. Le richieste dell’uomo erano supportate anche dal fatto che la ex aveva anche ottenuto una quota del tfr, e che ad oggi godesse di pensione propria, pertanto non avesse più diritto a percepire anche assegno divorzile quantomeno in tal misura.

I giudici di merito respingono però con forza le richieste dello stesso, specificando che il requisito dell’assegno divorzile determinato per tenore di vita non debba per forza ritenersi superato per il nuovo orientamento detenuto dalla sentenza della Suprema Corte nel maggio del 2017 ma che anzi non può qualificarsi come giustificato motivo ai sensi dell’art. 9 della legge sul divorzio il mero mutamento di giurisprudenza in ordine ai criteri con cui deve attualmente essere commisurato l’assegno di divorzio.

L’esclusione della rilevanza del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio non significa che vengano quindi modificati i parametri che sono a fondamento dell’an della misura. (cfr. sul tema Cass. n. 11504/2017). “atteso che, in caso contrario, si verrebbe ad estendere a rapporti esauriti, perché coperti dal giudicato,una diversa interpretazione della regola giuridica a suo tempo applicata ma con efficacia retroattiva ciò che non è consentito nemmeno alla legge (perlomeno in via generale: v. art.11 disp prel cc) e che produrrebbe un risultato valutato come irragionevole dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. sul tema Cass. n. 15144/2011);- ritenuto inoltre che non può neppure essere invocato il principio del c.d. “prospective overruling” atteso che il mutamento di giurisprudenza ha riguardato una norma di carattere sostanziale e non processuale (cfr. Cass. n. 6862/2014).”Iil ricorso pertanto non viene considerato meritevole di accoglimento.

B) Pronuncia ancora più solida nell’incardinamento alle norme è il provvedimento del Tribunale di Matera, sent. del 7 marzo 2018. Facendo esclusivamente riferimento alla norma sul divorzio, 898 del 1970 ed ai suoi articoli che disciplinano la regolamentazione della fine del rapporto matrimoniale.

La sentenza analizza sistematicamente che la previsione dell’assegno divorzile va intesa come un’eccezione alla drastica chiusura dei rapporti fra marito e moglie alla cessazione del rapporto di coniugio. Come tale, è un’elemento tassativo che non può e non deve essere soggetto alla valutazione di questo o quel parametro giurisprudenziale, come quello del tenore di vita mantenuto in costanza di matrimonio. Il requisito per beneficiare di assegno divorzile deve fondarsi sulla oggettiva mancanza di mezzi di sussistenza o sull’impossibilità di procurarseli da parte di chi lo richiede.

Ci si chiede allora, se questo rigido criterio di valutazione, assolutamente legittimo perchè legato indissolubilmente al dato normativo, possa riuscire a risolvere i conflitti o a ridurli almeno, oppure non porti gli scontri al punto di dover ridefinire il concetto di cosa sia per il singolo individuo un “mezzo di sussistenza”, un elemento cioè che per un soggettto è di essenziale importanza. Come tre pasti al giorno per qualcuno o il cellulare di ultimo modello per qualcun altro.