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Divorzio: senza prova dell’accollo, anche la moglie deve corrispondere metà rate del mutuo stipulato da entrambi per l’ex casa coniugale 

Divorzio: senza prova dell’accollo, anche la moglie deve corrispondere metà rate del mutuo stipulato da entrambi per l’ex casa coniugale 

Con la recente ordinanza n. 1072/2018 (depositata il 17 gennaio 2018), la Corte di Cassazione interviene in riforma della pronuncia della Corte d’Appello di L’Aquila, con la quale i giudici di merito in sede di appello sulla sentenza di divorzio avevano modificato la decisione di primo grado e posto a carico del marito il pagamento dell’intera quota delle rate del mutuo, pur stipulato da entrambi, anche dopo la pronuncia della separazione e, per l’effetto, lo scioglimento del regime patrimoniale di comunione legale dei coniugi.

La decisione della Corte d’Appello si basava sulla presunta volontà del marito di farsi carico di questo incombente per intero, volontà desunta dal provvedimento presidenziale provvisorio con cui il Tribunale aveva stabilito le condizioni economiche del divorzio.

In sede di ricorso per Cassazione, l’ex marito contesta tale decisione per violazione, tra gli altri, degli artt. 1273, 1322, 1326, 1362 e 1299 c.c, lamentando in particolare l’erroneità di dedurre un impegno così importante quale l’accollo per intero delle rate del mutuo (in luogo della quota ordinariamente dovuta come cointestatario, cioè il 50%) in via meramente presuntiva, senza che tale volontà risultasse nè dagli atti difensivi nè dai verbali di udienza e nemmeno da altro atto.

Questa prospettazione ha trovato pieno accoglimento nella pronuncia della Suprema Corte: «[…] Non v’è dubbio, in primo luogo, che la prova dell’accollo non potesse desumersi dalle mere premesse di un provvedimento (peraltro temporaneo e destinato ad esaurire i suoi effetti col passaggio in giudicato della sentenza di divorzio) che non solo non conteneva alcuna statuizione a riguardo, ma ometteva di dare atto delle modalità attraverso le quali l’odierno ricorrente aveva manifestato l’effettiva volontà di assumere per l’intero, in via definitiva, l’obbligazione di pagamento: la prova in questione avrebbe, piuttosto, dovuto essere tratta da elementi documentali (dichiarazioni di G., verbali delle (anse di separazione e divorzio), eventualmente avvalorati (anzichè, come nel caso, palesemente smentiti) dal successivo comportamento processuale delle parti. […]».

Ciò sottolineando peraltro anche un ulteriore profilo di incongruità della sentenza d’appello, ossia la mancata valutazione del rigetto della domanda di pagamento integrale del mutuo a carico dell’ex marito: «[…] Risulta, inoltre, del tutto anodino (e sostanzialmente incomprensibile) il successivo passaggio motivazionale, con il quale la corte del merito si è limitata a rilevare che il capo della sentenza di divorzio che aveva rigettato la domanda di M. di corresponsione di un assegno divorzile non incideva sulla propria decisione, ma ha omesso totalmente di considerare che detta sentenza, dopo aver escluso (in contrasto con quanto da essa accertato) che il provvedimento presidenziale avesse tenuto conto dell’impegno assunto da G. di pagare in via esclusiva il mutuo gravante sulla casa coniugale, aveva anche respinto l’ulteriore domanda della signora, volta ad ottenere che l’obbligo di pagamento delle rate del mutuo fosse posto a carico esclusivo dell’ex coniuge. […]».

Pertanto la Cassazione conferma come dopo la separazione le rate del mutuo vadano pagate in egual misura dai cointestari e se così non fosse chi adempie per intero va rimborsato dall’altro, fatta salva una specifica e precisa volontà di accollo da parte dell’ex coniuge (che deve essere dimostrata). Oppure, che tale obbligo di pagamento venga posto a carico sì di uno degli ex coniugi, ma in funzione di misura sostitutiva dell’assegno divorzile (nel caso di specie non accordato).

 

 

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Whistleblowing: si possono denunciare liberamente illeciti?

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Incentivata la delazione o promossa la protezione del luogo di lavoro e della legalità?

Molto discussa la nuova normativa sul c.d. “Whistleblowing”, istituto che permette di “proteggere” i dipendenti che segnalano illeciti, sia nel pubblico che nel privato. Obbligo di aggiornamento e modifica dei modelli 231.

A qualche anno dall’introduzione della prima forma di “Whistleblowing”, che riguardava unicamente i dipendenti pubblici e nata con la Legge anticorruzione n. 190/2012, il Parlamento ha ora approvato la proposta di legge C.3365-B “Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato”. L’obiettivo del legislatore è quello di incentivare i dipendenti, ora sia pubblici che privati, a segnalare le condotte e i fatti illeciti di cui siano testimoni rimuovendo timori di possibili ripercussioni, quali ad esempio il demansionamento o il licenziamento. La nuova normativa infatti estende la tutela prevista per i dipendenti pubblici dall’art. 54-bis del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 – Testo unico sul Pubblico impiego – anche ai dipendenti di enti pubblici economici, dipendenti di enti di diritto privato sottoposti a controllo pubblico, nonché ai lavoratori e ai collaboratori delle imprese fornitrici di beni o servizi e che realizzano opere in favore dell’amministrazione pubblica (così all’art. 1. c. 2-3 DDL C. 3365-B).

I destinatari della nuova disciplina – Le forme di tutela del “segnalatore” (o c.d. “Whistleblower”) sono ora previste: 1. per tutte le amministrazioni pubbliche, inclusi gli enti pubblici economici e quelli di diritto privato sotto controllo pubblico, nonché ai dipendenti delle imprese che forniscono beni e servizi alla Pubblica Amministrazione; 2. Anche per il settore privato, con l’introduzione dell’obbligo di prevedere nei c.d. “Modelli 231” (ossia i modelli organizzativi e di gestione, predisposti dalle società ai sensi del decreto 231/2001 sulla responsabilità degli enti, adottati per adottare le migliori pratiche per ridurre il rischio di reati e prevenirne la commissione) il divieto di atti di ritorsione o discriminatori e specifici canali di segnalazione (di cui almeno uno con modalità informatiche) che garantiscano la riservatezza dell’identità. I modelli inotre dovranno anche adottare sanzioni nei confronti di chi viola la tutela del segnalante e di chi (con dolo o colpa grave) effettua segnalazioni infondate.

Diviene perciò di fondamentale importanza per le imprese e gli enti, affinché i Modelli 231 siano idonei, effettivi e tutelanti, provvedere (al più presto) ad un aggiornamento del modello e dei relativi protocolli.
Le novità sulla tutela del segnalatore – Il dipendente autore della segnalazione relativa ad illeciti noti per via dell’attività lavorativa non potrà essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito o sottoposto ad altre misure ritorsive; in aggiunta il legislatore prevede espressamente la nullità degli atti discriminatori compiuti verso il lavoratore, con l’obbligo di reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento, sia per i dipendenti pubblici che privati.

Con un’ulteriore forma di tutela a livello probatorio: la novella prevede espressamente l’inversione dell’onere della prova, ponendo in capo all’ente dimostrare l’estraneità della misura adottata rispetto alla segnalazione (nuovo comma 7 dell’art. 54bis. – Tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti, d. lgs. n. 165/2001, per i dipendenti pubblici; nuovi commi 2-bis, 2-ter e 2-quater dell’art. 2 – Tutela del dipendente o collaboratore che segnala illeciti nel settore privato, d. lgs. n. 231/2001). È inoltre vietato rivelare l’identità del whistleblower, mentre restano sempre inammissibili le segnalazioni anonime; va segnalato che il divieto di rivelazione dell’identità, in caso di processo penale, viene meno alla chiusura delle indagini preliminari. Ovviamente, le forme di tutela del dipendente non si applicano in caso di condanna per calunnia (o diffamazione) anche in primo grado per le vicende segnalate; in questo caso, peraltro, potranno-dovranno essere previste sanzioni nei suoi confronti.

Sanzioni anche a carico dell’ente – Oltre alla responsabilità personale per gli atti o fatti che dovessero venire accertati a seguito delle segnalazioni, la nuova normativa conferisce all’ANAC il potere di sanzionare l’ente a seguito del ricevimento della segnalazione di atti discriminatori; se l’ente verrà ritenuto responsabile la sanzione ammnistrativa pecuniaria potrà arrivare sino a trentamila euro. In aggiunta, qualora la segnalazione non venga nemmeno verificata o l’ente non sia dotato di procedure adeguate per la verifica delle segnalazioni, l’ente è sanzionabile – sempre a livello pecunario – fino a cinquantamila euro.

Mancano meccanismi premiali – Forse questo profilo presterà il fianco alle critiche che vedono nel “Whistleblowing” più un sistema di “delazione” che un meccanismo a tutela delle imprese e della legalità, ma per rendere questo nuovo istituto un sistema effettivo ed efficace, manca il “la” motivazionale. Perché, pur vero che dovrebbero essere motivi sufficienti da un lato il dovere del pubblico ufficiale di denunciare (per la gran parte dei dipendenti pubblici) e dall’altro in generale il senso etico e morale, questo spesso rischia di non essere sufficiente a garantire il flusso informativo, cioè la presenza di segnalazioni. In numerosi ordinamenti, infatti, i segnalatori conseguono anche un vantaggio diretto (economico) quando la loro denuncia si riveli veritiera ed importante. Ad esempio negli Stati Uniti, dove questo istituto è nato e da cui prende il nome, la legislazione prevede veri e propri premi in denaro al segnalatore: il Dodd-Frank Act nel caso in cui la segnalazione porti ad un accertamento positivo della condotta illecita a seguito di indagini della Commissione SEC (Securities And Exchange Commission), riconosce al segnalatore una somma tra il 10 e il 30 percento della sanzione comminata, se superiore ad un milione di dollari (quindi solo per fattispecie ritenute gravi). Al contempo, però, si ritiene che oltre al sistema premiale dovrebbe essere previsto un altrettanto serio (e rigido) meccanismo sanzionatorio per le segnalazioni che si rivelassero poi infondate, specialmente nei casi di dolo e colpa grave.

Infine, numerose le critiche secondo cui questo nuovo sistema sarebbe o inutile o dannoso, in quanto incentiverebbe la “delazione” o comunque un clima di sfiducia sul posto di lavoro; un meccanismo per attaccare superiori e dirigenti. Tuttavia, a parere dello scrivente, proprio con un adeguato sistema premiale da un lato e sanzionatorio dall’altro tutte queste note critiche sarebbero superate, responsabilizzando adeguatamente segnalati e segnalatori.