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Accertamento del passivo e domande pregiudiziali.

Pubblicato da Avv. Domenico Rosati

 

Indice

  • L’esclusività del rito dell’accertamento del passivo: le eccezioni previste dalla legge.
  • La sentenza della Cassazione n. 3953 del 29 febbraio 2016 sulla procedibilità della domanda pregiudiziale nelle sedi ordinarie.
  • L’ambito di applicazione del principio di esclusività del giudizio di accertamento dello stato passivo.
  • Il rapporto tra le domande che possono proseguire nelle sedi ordinarie e la verifica del passivo.

 

L’esclusività del rito dell’accertamento del passivo: le eccezioni previste dalla legge.

 

A molti sarà capitato, nelle more di un qualsiasi giudizio, di trovarsi di fronte a controparti dichiarate fallite.

Innanzitutto, in questo caso (così come il caso della morte di una parte), il processo va interrotto, ai sensi dell’art. 43 della Legge Fallimentare.

Orbene, una volta interrotto il procedimento, la parte che ha interesse alla prosecuzione dello stesso, come si deve comportare? Deve riassumere il giudizio nei confronti della Curatela? O insinuarsi al passivo, giusta l’esclusività del giudizio di accertamento del passivo di cui all’art. 52 L.F.?

 

A più di dieci anni di distanza dalla riforma organica della legge fallimentare (D. Lgs. 5/2006), i rapporti tra i processi “pendenti” alla data della dichiarazione di fallimento e la verifica del passivo continuano ad essere oggetto di incertezze e di indirizzi interpretativi contrastanti.

Il problema si pone più in generale ogni volta che, alla data dell’apertura della procedura fallimentare, penda un processo avente ad oggetto una questione dalla quale dipende il riconoscimento di un credito da fare valere al passivo fallimentare.

La questione può sintetizzarsi in questi termini: dal momento che ogni pretesa restitutoria o risarcitoria nei confronti del fallito deve essere sottoposta, per forza di cose, alla cognizione del giudice delegato, le domande proposte nelle sedi ordinarie prima della dichiarazione di fallimento che abbiano per oggetto gli antecedenti logico-giuridici di quelle pretese possono essere decise in quelle sedi o debbono essere attratte, anch’esse, alla sede della verifica?

 

Si era in precedenza sempre sostenuto che anche le domande pregiudiziali, rispetto al diritto di credito vantato contro il fallito, dovessero essere trasferite nella sede della verifica dei crediti, eccezion fatta per i casi nei quali la sentenza che avesse pronunciato su quelle domande fosse destinata ad essere fatta valere in sedi diverse da quella concorsuale, ad esempio per l’escussione di un fideiussore.

Una riflessione più articolata ed alcuni importanti distinguo si rendono peraltro opportuni, soprattutto perché, nel corso del 2016, la Cassazione è intervenuta in argomento due volte, con due pronunce, a brevissima distanza l’una dall’altra, giungendo ad opposte conclusioni (Cass. 29 febbraio 2016, n. 3953 ha affermato la procedibilità della domanda pregiudiziale nelle sedi ordinarie, mentre Cass. 21 gennaio 2016, n. 1083 si è pronunciata nel senso dell’attrazione di quella domanda al rito dell’accertamento del passivo, in una liquidazione coatta amministrativa).

 

Conviene muovere dall’analisi dell’art. 72, 5° comma, L.F.; norma, questa, introdotta con la Novella del 2006 e diretta a disciplinare la sorte dell’azione di risoluzione contrattuale, promossa prima della dichiarazione di fallimento di una delle parti.

Con questa disposizione, il legislatore ha inteso risolvere un problema che, nel vigore della previgente disciplina, aveva ricevuto la seguente soluzione:

  1. dal punto di vista sostanziale, la risoluzione del contratto ed il risarcimento del danno, ancorché riferiti a pregressi inadempimenti della controparte, non potevano essere richiesti – in alcuna sede – se la risoluzione non fosse stata domandata dalla parte in bonis prima della dichiarazione di fallimento, stante l’indisponibilità dei beni acquisiti al fallimento ed a tutela dei principi che regolano la ripartizione dell’attivo;
  2. dal punto di vista processuale, l’azione di risoluzione proposta anteriormente all’apertura della procedura sarebbe potuta proseguire nelle sedi ordinarie, sebbene per le eventuali e consequenziali pretese risarcitorie restasse funzionalmente competente il tribunale fallimentare, per cui ogni domanda sarebbe dovuta essere proposta nelle forme e secondo il rito dell’accertamento del passivo.

 

L’art. 72, 5° comma, L.F. oggi così dispone: “l’azione di risoluzione del contratto promossa prima del fallimento nei confronti della parte inadempiente spiega i suoi effetti nei confronti del curatore, fatta salva, nei casi previsti, l’efficacia della trascrizione della domanda”, ed aggiunge che “se il contraente intende ottenere con la pronuncia di risoluzione la restituzione di una somma o di un bene, ovvero il risarcimento del danno, deve proporre la domanda secondo le disposizioni di cui al Capo V”.

 

Il richiamo alle “disposizioni del Capo V” è da intendersi riferito alle norme che disciplinano il procedimento di accertamento del passivo e dei diritti reali dei terzi, caratterizzato dal canone dell’esclusività, in forza del novellato art. 52, 2° comma, L.F., che prevede che “ogni credito, anche se munito di diritto di prelazione o trattato ai sensi dell’articolo 111, I° comma, n. 1, nonché ogni diritto reale o personale, mobiliare o immobiliare, deve essere accertato secondo le norme stabilite

dal Capo V, salvo diverse disposizioni della legge”.

Il combinato disposto dell’art. 72, 5° comma, con l’art. 52 L.F. consente di elaborare due principi sui quali gli indirizzi interpretativi sono univoci:

  • dal punto di vista sostanziale, l’azione di risoluzione ha effetti nei confronti della curatela solo qualora sia stata promossa prima dell’apertura della procedura e sempre che, ove la domanda sia trascrivibile, le relative formalità siano state adempiute prima della dichiarazione di fallimento;
  • dal punto di vista processuale, le domande di restituzione e di risarcimento danni che conseguono alla risoluzione del contratto non possono proseguire nelle sedi ordinarie ma devono essere proposte sotto forma di domande di ammissione al passivo o, a seconda dei casi, di rivendicazione o di restituzione.

 

L’art. 72, 5° comma, non chiarisce però quale sia la sorte delle domande che abbiano per oggetto le questioni che costituiscono l’antecedente logico-giuridico della pronuncia risarcitoria o restitutoria, ossia quelle inerenti alla risoluzione del contratto.

La norma non prevede espressamente se anche queste domande debbano essere sottoposte al rito dell’accertamento del passivo ovvero se possano proseguire nella sede processuale in cui sia stata introdotta, mediante riassunzione del processo, che è stato interrotto dalla dichiarazione di fallimento ex art. 43 L.F..

 

Il fatto che, a seguito della riforma del 2006, l’art. 52, 2° comma, L.F. stabilisca che “ogni credito, anche se munito di diritto di prelazione o trattato ai sensi dell’articolo 111, I° comma, n. 1, nonché ogni diritto reale o personale, mobiliare o immobiliare, deve essere accertato secondo le norme stabilite dal Capo V, salvo diverse disposizioni della legge”, dimostra come il dogma dell’esclusività dell’accertamento del passivo sia stato ribadito e finanche rafforzato dalla Riforma: questo principio, infatti, è stato mantenuto, come dimostra l’incipit della previsione, che è rimasto invariato (“ogni credito, anche se munito di diritto di prelazione, deve essere accertato secondo le norme stabilite dal Capo V, salvo diverse disposizioni della legge”), ma è stato oltretutto rafforzato (ed ampliato) perché, fra i crediti soggetti alla verifica fallimentare, ricadono oggi quelli prededucibili (come dimostra il riferimento all’art. 111 L.F.), e i diritti reali immobiliari (che l’abrogato art. 24 L.F. lasciava fossero conosciuti secondo le ordinarie regole di competenza); a ciò si aggiunga l’espressa previsione, contenuta nel comma terzo dell’art. 52 L.F., secondo cui anche i crediti esentati dal divieto di azioni esecutive individuali ex art. 51 L.F. (in particolar modo i crediti fondiari) devono essere accertati secondo le disposizioni del Capo V.

 

A mio modesto parere, l’art. 52 L.F., nel sottoporre ad un determinato rito, e nell’attribuire in via esclusiva ad un certo organo giurisdizionale, la decisione sui crediti che possono trovare spazio nella procedura fallimentare, attribuisce a quell’organo e sottopone a quel rito anche la cognizione di tutti gli antecedenti logico-giuridici che ne costituiscono il presupposto.

 

Tuttavia, l’art. 52, 2° comma, L.F. contiene una clausola di chiusura che fa salve le “diverse disposizioni della legge”.

Fra di esse si rammenta ad es. l’art. 111-bis, I° comma, L.F., che espressamente esclude dall’obbligo di verifica i crediti prededucibili non contestati per collocazione ed ammontare, ovvero l’art. 56 L.F., che consente la compensazione, al di fuori dal concorso, dei crediti e debiti del fallito verso lo stesso soggetto.

 

Ci si deve chiedere pertanto se anche l’art. 72, 5° comma, L.F. rappresenti una di queste eccezioni, esonerando dal rito dell’accertamento del passivo la domanda di risoluzione del contratto proposta prima della dichiarazione di fallimento, assoggettando a quel rito solo le consequenziali domande risarcitorie e restitutorie.

Se la risposta fosse affermativa, la questione descritta in apertura dovrebbe evidentemente risolversi nel senso della proseguibilità della domanda di risoluzione nelle sedi ordinarie.

Io sono di contrario avviso.

 

Si è già detto che l’art. 72, 5° comma, L.F., disponendo che “l’azione di risoluzione del contratto promossa prima del fallimento nei confronti della parte inadempiente spiega i suoi effetti nei confronti del curatore, fatta salva, nei casi previsti, l’efficacia della trascrizione della domanda”, non fa altro che tradurre in legge il principio consolidato secondo il quale il diritto di agire in giudizio per la risoluzione del contratto non può essere esercitato dopo la dichiarazione di fallimento della parte inadempiente, e che, se si tratta di rapporti soggetti a trascrizione, la domanda, oltre a precedere l’apertura della procedura, deve essere anche trascritta in data anteriore. La norma non contiene, quindi, nessuna deroga alle regole procedurali; essa individua soltanto le condizioni per rendere opponibile al curatore la domanda risarcitoria, conseguente alla risoluzione del contratto.

 

Nessuna eccezione, inoltre, può trarsi dal secondo periodo dell’art. 72, 5° comma, L.F. ove si legge che “se il contraente intende ottenere con la pronuncia di risoluzione la restituzione di una somma o di un bene, ovvero il risarcimento del danno, deve proporre la domanda secondo le disposizioni di cui al Capo V”.

La norma si occupa soltanto delle domande restitutorie e risarcitorie, senza prevedere espressamente che la domanda di risoluzione possa proseguire nelle sedi ordinarie; al contempo, l’art. 72, 5° comma, L.F., limitandosi ad affermare che è soggetta alla verifica dei crediti “la domanda”, non chiarisce se in quella locuzione sia compresa, oltre alla domanda risarcitoria o restitutoria, anche quella di risoluzione che, rispetto alla prima, si pone come pregiudiziale.

 

Nell’impossibilità di individuare, all’interno dell’art. 72, 5° comma, L.F., un’eccezione alla regola generale sancita dall’art. 52, 2° comma, della medesima legge, bisogna ora chiedersi se sia coerente con il rito dell’accertamento del passivo l’innesto nella verifica fallimentare dei crediti di ordinari giudizi di cognizione, destinati a riverberarsi con efficacia vincolante sulla decisione di ammissione, come accadrebbe se l’azione di risoluzione intrapresa anteriormente alla dichiarazione di fallimento potesse proseguire nelle sedi ordinarie.

 

A mio avviso la risposta deve essere, almeno in linea di principio, negativa.

 

La legislazione concorsuale contiene, infatti, una norma che disciplina espressamente un caso di deroga parziale al principio del concorso formale: si tratta dell’art. 96, 3° comma, n. 3, L.F., che prevede l’ammissione al passivo con riserva dei “crediti accertati con sentenza del giudice ordinario o speciale non passata in giudicato, pronunciata prima della dichiarazione di fallimento”, precisando poi che “il curatore può proporre o proseguire il giudizio di impugnazione”.

 

Questa disposizione (che ha sostituito l’abrogato art. 95, penultimo comma, L.F., in forza del quale “se il credito risulta da sentenza non passata in giudicato, è necessaria l’impugnazione se non si vuole ammettere il credito”), deroga al principio dell’esclusività del rito dell’accertamento del passivo, ma con una ratio ed una regola ben precisa.

Quanto alla ratio, il legislatore ha voluto riconoscere autorità alla pronuncia giurisdizionale anteriore alla dichiarazione di fallimento, anche se non passata in giudicato, lasciando al curatore la scelta di impugnarla o di proseguire l’impugnazione già proposta dal debitore in bonis.

Quanto poi alla regola, si è prevista l’ammissione del credito con riserva, ossia una decisione sul credito che subordina lo scioglimento della riserva al passaggio in giudicato del provvedimento emesso nelle sedi ordinarie (che comporterà l’ammissione al passivo pura e semplice, se verrà confermato in sede di gravame, ovvero lo scioglimento della riserva, con esclusione piena o parziale

a seconda della riforma integrale o pro-parte del provvedimento).

 

Si tratta di una disciplina ben difficilmente esportabile al caso della domanda di risoluzione del contratto “pendente” alla data della dichiarazione di fallimento, per più concorrenti ragioni.

Prima di tutto, l’interpretazione analogica dell’art. 96, 3° comma, n. 3 L.F. è impedita dalla natura eccezionale della norma.

In secondo luogo, essa si fonda su un presupposto (l’opponibilità al fallimento di una sentenza che si è pronunciata positivamente sul credito prima della dichiarazione di fallimento), che può mancare nel caso di risoluzione del contratto, vuoi perché la causa pende ancora in primo grado, vuoi perché il giudizio di prime cure potrebbe essersi concluso senza una pronuncia che abbia accertato il credito (ad esempio – per rimanere nell’ambito che ci occupa – ogniqualvolta la parte che ha chiesto la risoluzione non abbia accompagnato la domanda ad una pronuncia risarcitoria o restitutoria). Infine la norma de qua prevede che il credito venga ammesso al passivo con riserva, il che, nell’attuale situazione normativa, non può avvenire quando non sia stata emessa ancora una pronuncia che abbia accertato come esistente il credito, pur non essendo ancora passata in giudicato.

 

Dall’esame congiunto dell’art. 96, 3° comma, n.3 e dell’art. 72, 5° comma, L.F., peraltro, si possono trarre le seguenti regole:

  1. quando la pronuncia di risoluzione del contratto sia passata in giudicato prima della dichiarazione di fallimento e, con essa, sia stato riconosciuto il credito restitutorio o risarcitorio, o il diritto alla restituzione di un bene, il giudice della verifica deve accogliere negli esatti termini la domanda del creditore o del titolare del diritto (considerazione ovvia, visto che non si è neppure in presenza di un “processo pendente”, e pertanto l’art. 72, 5° comma, L.F. non opera);
  2. quando la pronuncia di risoluzione del contratto sia passata in giudicato prima della dichiarazione di fallimento senza alcuna pronuncia accessoria di risarcimento o restituzione, il giudice della verifica è vincolato quanto alla risoluzione disposta nelle sedi ordinarie e può essere investito della decisione sulla restituzione di somme o di beni o sul risarcimento del danno (anche in questo caso il processo non è più pendente, almeno quanto alla risoluzione, e per il resto l’obbligatorietà del rito dell’accertamento del passivo è pacifica);
  3. quando la pronuncia di risoluzione del contratto non sia passata in giudicato prima della dichiarazione di fallimento e, con essa, sia stato riconosciuto il credito restitutorio o risarcitorio, o il diritto alla restituzione di un bene, il giudice della verifica, deve ammettere al passivo ex art. 96, 3° comma, n. 3 L.F., la domanda di insinuazione, avente per oggetto quel credito, con riserva, da sciogliersi all’esito dell’impugnazione.

 

In tutti gli altri casi, e cioè qualora:

  1. il giudizio sulla risoluzione penda ancora in primo grado;
  2. ovvero si sia concluso in primo grado con il rigetto della domanda di risoluzione;
  3. o ancora quest’ultima sia stata accolta in primo grado, senza che in questo contesto fosse stata chiesta la condanna al risarcimento del danno o alla restituzione della prestazione;

il problema rimane aperto.

 

La sua soluzione non può prescindere dalla considerazione che il legislatore della riforma fallimentare ha modellato la disciplina della verifica dei crediti in senso spiccatamente acceleratorio, per consentire la conclusione in tempi brevi (o comunque ragionevoli) sia della fase “necessaria”, davanti al giudice delegato, sia di quella “eventuale”, di impugnazione (in tutte le sue forme) del decreto di accertamento del passivo.

 

La situazione, dunque, nella legge fallimentare vede un solo caso, in cui l’accertamento del passivo cede il passo ad un giudizio ordinario, instaurato prima del fallimento: si tratta dell’art. 96, 3° comma, n. 3 L.F. al quale abbiamo già fatto richiamo.

Al di fuori di questa ipotesi e di quella, pure espressamente prevista dalla legge, dei crediti tributari contestati, da ammettere anch’essi con riserva da sciogliersi ai sensi dell’art. 88, 2º comma, D.P.R. n. 602 del 1973 allorché sia stata definita la sorte dell’impugnazione esperibile davanti al giudice tributario, nessun’altra eccezione.

Se quanto precede è corretto, è evidente che pare frutto di una forzatura pretendere la prosecuzione in sede ordinaria della (sola) domanda di risoluzione del contratto, quando nessun indice normativo in tal senso può ricavarsi neanche dall’art. 72, 5° comma, L.F..

Tenuto conto, poi, che il sistema dell’accertamento del passivo nel fallimento è spinto verso l’accelerazione, obiettivo, di certo, non perseguibile in caso di necessario coordinamento tra giudizi pendenti davanti a giudici diversi.

Ciò era predicabile nell’assetto normativo anteriore alla riforma, ed infatti la giurisprudenza ammetteva la procedibilità dell’azione di risoluzione nelle sedi ordinarie; ma all’epoca, lo stesso giudizio di accertamento del passivo conosceva alcune fasi nelle quali trovava applicazione il rito ordinario di cognizione (rammentiamo le fasi contenziose delle insinuazioni tardive ed i giudizi di opposizione, impugnazione e revocazione dei crediti ammessi): caratteristica, questa, del tutto assente nel sistema novellato.

 

La sentenza della Cassazione n. 3953 del 29 febbraio 2016 sulla procedibilità della domanda pregiudiziale nelle sedi ordinarie.

 

Si è fatto cenno, in premessa, ad una recente pronuncia di Cassazione (Cass. 29 febbraio 2016, n. 3953), che si è espressa in senso opposto sul tema che ci occupa.

 

La sentenza, resa in un giudizio di simulazione e risoluzione di un contratto preliminare di compravendita immobiliare con la domanda debitamente trascritta al momento della dichiarazione di fallimento di una delle due parti, ha riconosciuto la prosecuzione del processo nella sede ordinaria.

 

La conclusione è stata argomentata invocando, in primo luogo, proprio il fatto che la domanda, avendo ad oggetto beni immobili, fosse stata trascritta anteriormente alla dichiarazione di fallimento, e pertanto attribuendole effetti “prenotativi”.

 

Ora, nessuno nega una siffatta efficacia alla trascrizione della domanda ed è lo stesso art. 72, 5° comma, L.F. ad esigerla, quando prevista, per rendere opponibile la domanda di risoluzione al fallimento.

Tuttavia, come già visto, si tratta di prenotare gli effetti sostanziali della futura risoluzione, se la domanda verrà accolta; ma questo non ha nulla a che vedere con il rito nell’ambito del quale la domanda deve essere decisa, una volta dichiarato il fallimento.

 

In secondo luogo, i Giudici di legittimità invocano il principio della ragionevole durata del processo.

 

A mio avviso, invece, proprio il principio della ragionevole durata del processo avrebbe dovuto indurre a devolvere al giudice fallimentare anche la domanda di risoluzione. È, infatti, la prosecuzione della domanda di risoluzione nelle sedi ordinarie a ritardare la decisione sulla pretesa risolutoria o risarcitoria, mentre non è vero il contrario, perché le domande di ammissione al passivo vengono decise in tempi sensibilmente più rapidi rispetto ai giudizi ordinari, e nulla osta che siano corroborate, sotto l’aspetto probatorio, dal materiale acquisito nel giudizio ordinario, venendo decise dal Giudice delegato secondo il suo libero convincimento, esattamente come nella controversia ordinaria.

 

Infine la Suprema Corte afferma che la domanda di risoluzione/simulazione e quelle accessorie di restituzione o risarcitorie andrebbero assoggettate a riti diversi “previa separazione delle cause”. Dal punto di vista processuale, ciò genera una situazione complessa: anche a volere fare applicazione degli articoli 103, 2° comma, e 104 c.p.c. (ai quali, verosimilmente, i Giudici di legittimità hanno implicitamente fatto riferimento), non si vede come il giudice ordinario potrebbe emettere un’ordinanza di rimessione delle domande restitutorie o risarcitorie al Giudice delegato.

 

Al di là del fatto che le domande di ammissione al passivo devono, da un lato, essere veicolate e seguire l’iter procedimentale stabilito dall’art. 93 L.F., dall’altro contenere la domanda di partecipazione al concorso.

Requisito, questo, che la domanda restitutoria o risarcitoria promossa prima della dichiarazione di fallimento non può contenere per definizione.

 

L’ambito di applicazione del principio di esclusività del giudizio di accertamento dello stato passivo.

 

Fin qui si è detto della domanda di risoluzione contrattuale promossa prima della dichiarazione di fallimento.

Va ora puntualizzato l’ambito applicativo dei principi in tal modo individuati.

 

In primo luogo, l’idea che la cognizione dell’intera causa (e non solo delle domande di risarcimento o di restituzione) debba essere devoluta al giudice delegato, non riguarda solo il caso della domanda di risoluzione, del quale si occupa espressamente l’art. 72, 5° comma, L.F., ma tutte le ipotesi in cui, al momento dell’apertura della procedura fallimentare, siano pendenti giudizi che hanno per oggetto domande pregiudiziali al riconoscimento di crediti da fare valere nel passivo fallimentare: la nullità del contratto, l’annullabilità, la rescissione, la simulazione, l’usucapione, etc.

La stessa sentenza di legittimità, sopra richiamata, pur sposando la tesi della prosecuzione dell’azione di risoluzione in sede ordinaria, dà per scontato che anche l’azione di simulazione sia assoggettata alla stessa regola.

 

A mio avviso, invece, per le ragioni sopra esposte non può che essere il Giudice Delegato colui che si pronuncia sull’antecedente logico-giuridico della pretesa creditoria.

 

Se questo è vero, è però altrettanto vero che il principio dell’esclusività del rito fallimentare può e deve riguardare le domande pregiudiziali solo se esse siano strumentali al conseguimento dell’ammissione al passivo quale unico “bene della vita” cui la parte in bonis, a seguito della dichiarazione di fallimento, tende.

Con questa precisazione – che comporta un significativo ridimensionamento dell’enunciato principio – si intende dire che il Giudice Delegato, nella verifica concorsuale, può bensì pronunciarsi sulla pretesa creditoria, con efficacia endo-fallimentare, ma non può emettere altri tipi di pronunce alle quali la domanda pregiudiziale mira, per scopi che (come accade il più delle volte) sono del tutto estranei ai poteri del Giudice della verifica, e che per l’appunto sono sottratti alla sua competenza.

 

Più precisamente, va osservato che vi sono, prima di tutto, una molteplicità di situazioni nelle quali la domanda pregiudiziale (di risoluzione, annullamento o quant’altro), non ha alcuna attinenza con il passivo fallimentare.

Ciò accade quando la controparte in bonis del fallito agisce o intende proseguire l’azione nelle sedi ordinarie per finalità del tutto estranee alla partecipazione al concorso.

Tra gli esempi abbiamo:

  1. quello della pretesa risolutoria finalizzata a provocare la mera liberazione della parte in bonis dagli obblighi contrattuali;
  2. quella destinata ad essere fatta valere nei confronti del fallito tornato in bonis, magari a seguito della revoca della dichiarazione di fallimento;
  3. ancora, si pensi all’ipotesi della risoluzione contrattuale, che sia necessaria per escutere una garanzia di terzi, ovvero per liberare la parte in bonis da una garanzia in conseguenza dell’altrui inadempimento.

In tutti questi casi, predicare l’attrazione della domanda al rito dell’accertamento

del passivo non ha evidentemente alcun senso.

 

Vi sono poi altrettante situazioni nelle quali la domanda pregiudiziale, se da un lato costituisce l’antecedente logico-giuridico del riconoscimento di un credito risarcitorio o restitutorio, ovvero di una pretesa di rivendica o di restituzione, da fare accertare nelle forme di cui agli articoli 93 e ss. L.F., dall’altro lato è strumentale a riconoscere un “bene della vita” ulteriore, che il Giudice Delegato – in ragione della propria competenza e dei suoi poteri – non può assegnare alla parte.

 

Le ipotesi sono numerose: si pensi, ad esempio, ad un contratto preliminare di compravendita immobiliare che sia stato trascritto ma non adempiuto e per il quale sia stata proposta (e trascritta) domanda di risoluzione, per inadempimento della parte acquirente, poi fallita.

Il promittente venditore, in veste di attore, potrebbe avere cumulato alla domanda risolutoria una domanda di rilascio dell’immobile nel cui possesso il promissario acquirente era stato immesso, ovvero una domanda di risarcimento danni, da sottoporre sicuramente al giudice della verifica.

Tuttavia, se la domanda di risoluzione, prodromica anche alla pretesa risarcitoria o restitutoria, fosse dichiarata improcedibile, il promittente venditore si vedrebbe privato della possibilità di ottenere un titolo (la sentenza di risoluzione del contratto), ai fini del rilascio: e difficilmente quel titolo potrebbe essere “surrogato” dal decreto di esecutività dello stato passivo, anche solo per l’efficacia meramente endo-concorsuale di quest’ultimo.

 

In questo e in altri casi simili, poiché la parte in bonis non può vedersi privata, con l’improcedibilità del giudizio ordinario, delle tutele alle quali la sua domanda tende e che il giudice delegato non può concedere, è inevitabile che il processo possa e debba proseguire nelle sedi ordinarie, previa riassunzione nei confronti della Curatela.

 

Se questi rilievi sono corretti, si può concludere:

  • che la regola dell’improcedibilità della domanda pregiudiziale e della sua necessaria attrazione al rito dell’accertamento del passivo esiste, ma trova applicazione solo quando la domanda pregiudiziale non abbia altro scopo che l’ammissione del consequenziale credito risarcitorio o restitutorio al passivo fallimentare, cosicché la domanda nelle sedi ordinarie si traduce, con il fallimento, in una mera domanda di ammissione al passivo (si pensi al promissario acquirente che abbia chiesto la risoluzione del preliminare di compravendita mobiliare, per inadempimento del promittente venditore, al solo possibile scopo di ottenere la restituzione degli acconti versati);
  • per contro, quella regola non deve trovare applicazione né qualora la domanda abbia finalità del tutto estranee alla partecipazione al concorso, né qualora sia strumentale non solo all’ammissione al passivo del credito consequenziale, ma anche ad ulteriori declaratorie o adempimenti che esorbitano dai poteri e/o dalla competenza del Giudice della verifica.

 

Il rapporto tra le domande che possono proseguire nelle sedi ordinarie e la verifica del passivo.

 

A questo punto, resta da stabilire quale sia il rapporto tra l’accertamento del passivo e le domande che possono proseguire nelle sedi ordinarie.

 

Senza occuparsi delle domande non destinate ad influire in alcun modo sulla verifica dei crediti, e delle quali si è detto poco più sopra, per le altre è da escludere, in primo luogo, che i procedimenti possano correre paralleli, ovvero che il giudice della verifica possa decidere, sulla domanda “a monte”, autonomamente rispetto al giudice ordinario.

Ammettere una simile ipotesi significherebbe duplicare le cognizioni sullo stesso tema, con il rischio di giudicati contrastanti.

Il rapporto, invece, deve essere correttamente inquadrato nell’ambito della pregiudizialità: la decisione del giudice ordinario sulla domanda “a monte”, pertanto, una volta emessa nei confronti della Curatela e passata in giudicato, dovrebbe vincolare il giudice della verifica; beninteso senza influire sulla decisione relativa alla domanda restitutoria o risarcitoria, rimessa alla sua cognizione esclusiva.

 

Può accadere che, in attesa della conclusione del processo proseguito in sede ordinaria (sulla sola domanda pregiudiziale), la parte si astenga dal proporre le domande di risarcimento o restituzione, preferendo attendere la decisione sulla pregiudiziale.

Tale eventualità non crea problemi procedurali; tuttavia il creditore sconta il fatto che un soggetto non insinuato non può avere mai diritto agli accantonamenti nei riparti, sicché, una volta ammesso al passivo, probabilmente in via ultra-tardiva, e previo accertamento della non-imputabilità anche ai fini dei prelievi nei riparti già eseguiti, potrebbe trovare il fallimento privo di risorse sufficienti ad assicurargli il pagamento delle quote pregresse cui avrebbe diritto.

 

Potrebbe però anche darsi che il creditore insinui il credito al passivo mentre pende il giudizio ordinario sulla domanda pregiudiziale.

In tale eventualità, esclusa, come già detto, la possibilità di una ammissione al passivo con riserva ex art. 96, n. 3, L.F., ed essendo precluso al Giudice Delegato pronunciarsi sia sulla domanda pregiudiziale, sia su quella dipendente, in questo secondo caso finché non si sia concluso il giudizio nella sede ordinaria, si potrebbe ipotizzare la sospensione della decisione sul credito ex art. 295 c.p.c., in attesa della pronuncia, da parte del giudice ordinario, sulla domanda pregiudiziale.

 

Tuttavia, come è stato autorevolmente evidenziato, l’istituto della sospensione del processo per pregiudizialità-dipendenza appare inadatto alla fase necessaria di verifica del passivo.

 

A ben vedere, perciò, l’unica via percorribile è quella del rigetto della domanda di ammissione al passivo, per carenza, allo stato, del suo presupposto “a monte”.

 

Solo la proposizione di un’opposizione allo stato passivo del creditore istante consentirebbe al processo instaurato ex art 98-99 L.F. di essere sospeso ai sensi dell’art. 295 c.p.c., in attesa della decisione nelle sedi ordinarie; con il vantaggio per il creditore, previa richiesta e concessione di misure cautelari, di beneficiare degli accantonamenti ai sensi dell’art. 113, comma 2, L.F..

 

Si tratta di un iter non certo snello e che, per certi versi, contraddice quanto esposto in precedenza circa la difficile compatibilità delle parentesi ordinarie di cognizione nell’accertamento del passivo.

 

Tuttavia, allo stato, pare a chi scrive che questo sia l’unico modo per garantire alla parte in bonis il diritto ad ottenere una tutela che il Giudice Delegato, in sede di verifica, non è in grado di accordarle.

 

Al contempo, la costruzione sopra descritta consentirebbe al creditore di non subire le conseguenze pregiudizievoli che la durata del processo ordinario potrebbe comportare, in termini di perdita delle ripartizioni anteriori all’ammissione del credito.

 

Si tratta, inoltre, di una soluzione che non ostacola l’iter della procedura concorsuale, dal momento che l’opposizione allo stato passivo non preclude neppure la chiusura del fallimento, il giudizio di opposizione può proseguire, anche dopo la chiusura, una volta cessata la causa di sospensione, e le somme accantonate possono essere depositate ai sensi dell’art. 117, 3° comma, L.F., per essere distribuite a chi spettano ovvero, in caso di definitiva esclusione del credito, all’esito dell’opposizione, per essere fatte oggetto di riparto supplementare fra gli altri creditori.