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L’INPS sbaglia: è giusto che paghi il pensionato?

Dopo la morte di mio padre avvenuto il 17 luglio 2016, l’ inps ha dato a mia madre la pensione di reversibilità di mio padre, senza togliere la pensione sociale che già percepiva. Pertanto ad aprile 2018 l’ inps richiede a mia madre un indebito di €2.125. Come mai l’ ente ha concesso la reversibilità senza togliere l’ assegno sociale? E’ giusto che su una pensione di 611.00€ mensili debba pagare una rata mensile di €88,54?

[la risposta è nel podcast]

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Pensione di invalidità: spetta anche al cittadino UE?

La Corte di Cassazione con ordinanza n. 21901/2018 ha ribadito che la pensione di invalidità spetta solo al cittadino residente all’interno del territorio nazionale.

La Suprema corte si è espressa positivamente sul ricorso dell’INPS avverso la sentenza che aveva stabilito la condanna dell’Ente previdenziale a elargire la pensione di invalidità civile agli eredi dell’interessato. La Corte d’Appello aveva bocciato le tesi dell’Inps, condannando l’Istituto a pagare la pensione.

Nel dettaglio, l’Inps aveva eccepito la mancata residenza in Italia, ampiamente provata, dell’avente diritto. Di conseguenza, secondo l’Istituto, l’interessato e i suoi eredi non avrebbero avuto nessun diritto di pretendere il pagamento dei ratei di pensione di invalidità.

Il fondamento normativo di tale posizione è stato individuato nell’art. 10 bis del Regolamento CEE del 14 giugno 1971 (come modificato dal regolamento n. 1247/1992), il quale stabilisce che la residenza sul territorio dello Stato è un requisito costitutivo del diritto a percepire la pensione in discussione.

Ottiene dunque autorevole conferma il principio che la pensione di invalidità come le altre prestazioni non aventi carattere contributivo sono erogate esclusivamente nello Stato membro dove i soggetti interessati risiedono.

In tal modo la Suprema Corte ha cristallizzato il già affermato principio della “inesportabilità” in ambito comunitario delle prestazioni in danaro non contributive, derivante dal citato art. 10-bis, comma 1, del Regolamento CEE n. 1247/1992 che sancisce il divieto di esportare in ambito comunitario le prestazioni speciali in denaro, siano esse assistenziali o previdenziali, non aventi carattere contributivo, erogabili quindi solo nello Stato membro ove gli interessati risiedono.

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INPS vuole soldi indietro: che fare?

Oggi voglio parlare di una questione purtroppo sempre più diffusa e che molto “disagio” crea in coloro che si trovano ad essere destinatari di tali comunicazioni, per lo più pensionati, si vedono recapitare raccomandate a.r. con richiesta da parte dell’Inps di restituzione somme, a dire dell’ente, erogate indebitamamente.

Capita, anche con una certa frequenza, che la richiesta di restituzione afferisca a periodi anche molto indietro con gli anni.

E’ prassi sempre più diffusa operare, da parte dell’Ente, sin dal mese successivo a tali comunicazioni, una ritenuta sulle pensioni eventualmente già erogate. Una sorta di esecuzione forzata autonomamente auto-autorizzata dallo stesso ente previdenziale.

E’ prassi dell’ente negare qualsivoglia motivazione in merito a tali richieste.

L’avvocato a cui il pensionato si rivolge, al fine di valutare la fondatezza delle richieste di restituzione dell’Inps, tenta più e più volte, con richieste bonarie, almeno di conoscere le motivazioni; provvede, altresì, ad inoltrare numerose istanze di revoca del provvedimento che si ritiene illegittimo in via di autotutela.

Nulla.

L’Inps, di fatto, costringe il pensionato al ricorso giudiziale con tutti i patemi e le spese legali da anticipare che questo comporta.

E’ recente il caso occorso ad una mia cliente che si è vista recapitare una richiesta di restituzione di somme per l’importo di €. 32.805,25, per presunte somme, relative ad una pensione d’invalidità civile, erogate indebitamente nel periodo dal 01.12.1993 al 31.03.2007.

Questa la scarna comunicazione dell’ente.

Vani sono stati i ripetuti solleciti tutti bonari a che l’ente esplicasse le motivazioni di tale richiesta.

Vani, altresì, gli inviti ad agire in via di autotutela essendo evidentemente decorso qualsivoglia termine prescrizionale.

Dunque cosa fare in presenza di tali richieste?

In primis valutare la motivazione espressa dell’ente in relazione alla richiesta di restituzione.

In secondo luogo verificare appunto il decorso di eventuali termini di prescrizione.

Qualora venga accertato un indebito pensionistico a seguito di verifica sulla situazione reddituale che incide sulla misura o sul diritto delle prestazioni, l’Istituto procederà al recupero delle somme indebitamente erogate nei periodi ai quali si riferisce la dichiarazione reddituale.

Ciò solo qualora la notifica dell’indebito avvenga entro l’anno successivo a quello nel corso del quale è stata resa la dichiarazione da parte del pensionato.

Ove la notifica dell’indebito non sia effettuata entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello nel quale è stata resa la dichiarazione reddituale, le somme erogate indebitamente non sono ripetibili.

Ma ancora, a prescindere dalla valutazione sui requisiti reddituali, l’art. 52, comma 2 L. n. 88/1986 evidenzia che, laddove siano state riscosse rate di pensione risultanti non dovute, non si fa luogo a recupero delle somme corrisposte, salvo che l’indebita percezione sia dovuta a dolo dell’interessato.

Se hai subito una richiesta di restituzione da parte di INPS o altri enti previdenziali, contattaci per valutare il tuo caso.

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Perché il nostro è un diritto di morte e non di vita.

Una riflessione che ultimamente mi trovo a fare sempre più spesso riguarda l’amore e il consumo, da un lato, e il rapporto con il diritto contemporaneo, dall’altro.

L’amore è l’atteggiamento e il comportamento che, per antonomasia, genera, crea qualcosa.

Tramite amore, al suo culmine, nasce e viene accudita una nuova vita umana, un essere che prima non esisteva e che, senza quell’amore, non sarebbe mai esistito, che ha in testa più neuroni ed emozioni di quante stelle ci sono nel cielo.

L’amore è un sentimento che sta fuori dall’economia, dalla visione materialistica del mondo globalizzato e parte da un’emozione che nasce e si nutre per lo più gratuitamente e disinteressatamente, portando dei «doni» fondamentali ed irrinunciabili, che non si possono comprare al supermercato.

La stessa vita è un dono dell’amore di Dio, per chi ci crede, o del caso o dell’universo, per chi crede in altro; l’amore di una madre nessuno di noi l’ha comprato eppure per lui è stato uno dei beni più importanti.

Il consumo invece determina distruzione. Consumare significa distruggere l’entropia di un sistema, piccolo o grande, in modo non reversibile.

Orbene, che cosa tutela il diritto attuale, non solo quello italiano ma quello di ogni stato del cosiddetto Occidente?

Tutela il gesto disinteressato di chi, per lo stesso amore, crea, genera, porta novità, freschezza o non tutela piuttosto il «consumatore»?

Un embrione non è tutelato nemmeno nel luogo più sacro dell’universo, la pancia della sua mamma, dalla quale sconosciuti possono trarlo e condurlo verso la morte senza che gli venga nemmeno dato un nome e una croce. E questa pratica immonda, che perpetua una strage quotidiana di innocenti quale non si è probabilmente mai avuta in nessuna guerra, è considerata un «diritto».

Un altro diritto civile fondamentale dell’uomo, per il quale si sono fatte battaglie i cui autori sono considerati, non si capisce bene per quale motivo, ancora oggi degli eroi, è quello al divorzio. Non è quello a costruire una famiglia, ad accudirla, a renderla feconda, ma quello di spaccarla e distruggerla, generando povertà economica e spirituale per tutti i suoi membri.

Un ulteriore diritto fondato sulla distruzione è quello che si è introdotto con la legislazione sulle disposizioni anticipate di trattamento, un sistema con cui surrettiziamente si introdurrà l’eutanasia per i più vecchi e più deboli, distruggendo la saggezza e la visione di cui erano portatori, perché, tanto, in un mondo come il nostro, più l’uomo comune è stupido, ignorante e slegato da affetti importanti e persino da una territorialità e meglio è, esattamente come all’inizio del fordismo, ben descritto nel capolavoro di Celine «Viaggio al termine della notte».

Poi c’è il grande capitolo della legislazione vera e propria sul consumatore, per cui chi acquista una spagnoletta in un supermercato o su amazon è più tutelato di un embrione e persino di un bambino già nato.

Quali sono, infatti, le misure di sostegno per le madri di bambini piccoli? La maternità attuale, nella disciplina del lavoro, è assolutamente insufficiente perché una donna possa concedersi serenamente questa esperienza, con vantaggio sia per lei che per la prole.

Quali sono le tutele per i lavoratori più giovani, coloro che dovrebbero essere incoraggiati nel momento in cui si affacciano al mondo della produzione di beni e servizi, nel quale vorrebbero dare il loro fresco contributo?

La realtà è che nel nostro paese i vecchi hanno tre pensioni, la prima delle quali magari maturata quando avevano 50 anni, mentre i giovani sono fortunati quando trovano un contratto di collaborazione, in tutti gli altri casi sono stage poco o per nulla retribuiti.

Uno si chiede quindi se la nostra sia una legislazione che premia la vita o, tutto al contrario, la morte.

La risposta è evidente adesso che abbiamo richiamato queste brevi considerazioni, anche se, senza rifletterci, oggigiorno nessuno o quasi ci avrebbe magari fatto caso.

La realtà è che il nostro diritto è un diritto di morte e, quando non di morte vera e propria, come nel caso dell’aborto e delle disposizioni anticipate di trattamento, di tutela delle generazioni più vecchie a scapito di quelle più fresche, cosa quest’ultima che è anch’essa un attentato contro la vita, che si nutre di ricambio.

La nostra legislazione non è vicina a chi ama, a chi crea qualcosa, ma tutela chi distrugge e chiama tutto questo un «diritto».

Ecco perché i diritti, per fortuna, non esistono.

Esistono solo problemi, da risolvere sempre e necessariamente a partire dal cuore.

E comunque non perdiamo mai di vista la bellezza del regno di Dio.

La situazione è questa, ma la nostra fede ci dona la convinzione che succederà qualcosa, che questa immensa tragedia che è la modernità è destinata a cambiare.

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Reversibilità e assegno di divorzio: occorre liquidazione?

Il tema è di quelli caldi, non lo si può negare.

E così la Cassazione aggiunge un elemento destinato a far parlare di sé e ad alimentare contenziosi che, per loro stessa natura, sono già incandescenti.

Stiamo parlando della pensione di reversibilità per il coniuge (ormai ex) divorziato.

L’articolo 9 comma 2 della legge 898/1970 riconosce infatti l’attribuzione della pensione di reversibilità al coniuge superstite divorziato come  diritto, specificando espressamente che esso è condizionato alla circostanza che il superstite sia titolare dell’assegno di mantenimento da parte dell’ex coniuge venuto a mancare e che, naturalmente, non sia passato a nuove nozze.

Nella pronuncia di cui sopra, la Cassazione nel richiamare l’art. 9, sottolinea anche come tale diritto postuli “l’avvenuto riconoscimento dell’assegno medesimo da parte del tribunale, con la conseguenza che, ai fini del riconoscimento del predetto diritto, non è sufficiente la mera debenza in astratto di un assegno di divorzio, e neppure la percezione in concreto di un assegno di mantenimento in base a convenzioni intercorse tra le parti, occorrendo invece che l’assegno sia stato liquidato dal giudice nel giudizio di divorzio ai sensi dell’art. 5 cit., ovvero successivamente, quando si verifichino le condizioni per la sua attribuzione ai sensi dell’art. 9 cit.”

La Cassazione, con la recente ordinanza n.25053/2017 Corte di Cassazione Sesta Civile pubblicata il 23.10.2017,  quindi ha voluto aggiungere e specificare che ai fini del riconoscimento del diritto alla pensione di reversibilità deve ricorrere il requisito che tale assegno sia stato riconosciuto- e quindi liquidato- dal giudice al termine del giudizio di divorzio, escludendo in tal modo che l’essere tenuti in astratto alla corresponsione di tale assegno di divorzio, così come il fatto di percepirlo materialmente sulla base di convenzioni ed accordi intercorsi tra le parti, non sia condizione sufficiente a configurare il diritto alla pensione di reversibilità.

Sempre in tale ottica, ed in riferimento al caso su cui la Suprema Corte si pronuncia, non possono considerarsi sufficienti le conclusioni rassegnate dal coniuge all’esito dell’istruttoria, con la conseguenza che il riferimento all’accordo intervenuto tra le parti all’udienza di comparizione dinanzi al Presidente del Tribunale, contenuto nella motivazione della pronuncia di divorzio, non è ritenuto sufficiente a far sorgere il diritto alla reversibilità: ciò perché il riconoscimento del relativo diritto, dev’essere formulato nella fase contenziosa successiva all’udienza presidenziale, escludendo in siffatta maniera la possibilità di valorizzare, a tal fine, le istanze formulate nel corso dell’ udienza di cui sopra, in quanto esclusivamente correlate ai provvedimenti temporanei ed urgenti. Pertanto per quanto indicato con l’ordinanza n. 25053 del 2017 della Corte di Cassazione Sesta Civile, se l’assegno che corrispondeva il defunto all’ex coniuge era frutto di semplici convenzioni intercorse tra le parti, magari nate anche con la finalità di porre fine alle lungaggini processuali che inevitabilmente una separazione prima ed un divorzio dopo si trascinano inevitabilmente con sé,  la reversibilità non spetta.

La pronuncia si colloca all’interno di una discussione giurisprudenziale che si agita ormai da molti anni, soprattutto riguardo a quei casi in cui oggetto di contenzioso sia la ripartizione della pensione di reversibilità tra l’ex coniuge divorziato titolare di assegno e il coniuge superstite del defunto.

Già il richiamato art. 9 della legge 898/1970 ha reso necessario l’intervento del legislatore che, con la norma interpretativa di cui all’art. 5 legge 263/2005, ha statuito definitivamente che per la titolarità dell’assegno deve intendersi l’avvenuto riconoscimento in capo all’ex coniuge divorziato, al momento della morte dell’ex coniuge pensionato e della richiesta della pensione di reversibilità, dell’assegno medesimo da parte del Tribunale.

Ma le diatribe non si sono esaurite, poiché ulteriori contrasti sono sorti in merito alla facoltà, peraltro concessa ai coniugi espressamente dalla legge, di preferire per i motivi più svariati la corresponsione dell’assegno in unica soluzione.

La domanda è quella che si chiede se la corresponsione dell’assegno divorzile in unica soluzione sia in grado di integrare il presupposto della titolarità attuale dell’assegno ex art. 5 ai fini del riconoscimento della pensione di reversibilità a favore dell’ex coniuge divorziato.

E su questo l’ ordinanza n. 11453 del 10 maggio 2017 della Sezione I Civile della Suprema Corte di Cassazione ha posto nuovamente l’attenzione, trattandosi di tema di grande attualità: la pronuncia è intervenuta in merito all’eccezione di legittimità costituzionale degli artt. 5 e 9, Legge n. 898/1970 sollevata dalla ricorrente avverso la sentenza di Corte d’Appello e della sua lettura interpretativa in senso negativo della problematica in questione.

Quale è quindi la  natura giuridica del diritto alla pensione di reversibilità alla luce della interpretazione della condizione di legge ai fini dell’ esercizio del diritto in questione, ossia l’essere il richiedente “titolare dell’assegno di cui all’art. 5”?

La Corte aderisce in prima battuta a quanto già statuito dalla Sezione Plenaria (sentenza n. 159/1998), che ha risolutivamente attribuito la qualifica di autonomo diritto avente natura previdenziale al trattamento di reversibilità in favore del coniuge divorziato, diritto che sorge in modo automatico alla morte del coniuge pensionato in forza di un’aspettativa maturata, sempre in via autonoma, nel corso della vita matrimoniale.

Ciò, per quanto confermato nelle successive pronunce, ha però condotto nella giurisprudenza giuslavoristica alla conseguenza dell’insussistenza del diritto quando la corresponsione periodica dell’assegno di divorzio non sia in corso al momento della domanda: posto il prerequisito dell’ attualità della titolarità del diritto all’assegno di divorzio, “la pensione di reversibilità (o una  quota di essa) può essere riconosciuta solo nei casi in cui, in sede di regolamentazione dei rapporti economici al momento del divorzio, le parti non abbiano convenuto la corresponsione di un capitale una tantum.” (Cass. Civ. sez. lav. n. 10458/2002).

Stessa conclusione è quella cui è giunta la Sezione Civile I della Corte (sentenza n. 17018/2003), che ha sottolineato come in sede di determinazione dei criteri di quantificazione della quota di pensione di reversibilità spettante al coniuge divorziato in concorso con il coniuge superstite,  il diritto in questione si fonda sulla precondizione della corresponsione periodica dell’assegno medesimo.

Anche in merito alla costituzione o trasferimento di un diritto in luogo di un versamento periodico di una somma di denaro e della sua riconducibilità al concetto di titolarità dell’assegno divorzile,  la Suprema Corte si è trovata ad affermare difatti che  “l’accordo intervenuto tra i coniugi in ordine all’attribuzione dell’usufrutto sulla casa coniugale a titolo di corresponsione dell’assegno di divorzio in un’unica soluzione, è idoneo a configurare la titolarità di detto assegno; ne consegue che tale costituzione di usufrutto soddisfa il requisito della previa titolarità di assegno prescritto dall’art. 5 della legge ai fini dell’accesso alla pensione di reversibilità o, in concorso con il coniuge superstite, alla sua ripartizione.” (Cass. Civ. n. 13108/2010; Cass. Civ. n. 16744/2011).

Il principio affermato da questo orientamento, in sostanza, è quello secondo cui, indiscussa la natura previdenziale e l’autonomia del diritto alla pensione di reversibilità (o ad una quota di essa) in capo al coniuge divorziato, il requisito della titolarità dell’assegno richiesto dalla legge per il suo riconoscimento deve ritenersi soddisfatto tutte le volte in cui vi sia stato un accertamento giudiziale relativo alla sussistenza delle condizioni solidaristico-assistenziali ad esso sottese, restando irrilevante il fatto che sia stato già riconosciuto ed assolto il relativo pagamento in un’unica soluzione.

Giuslavoristicamente, invece, si è mantenuto fermo il convincimento espresso nella sentenza del 2002, sostenendo costantemente che la corresponsione in unica soluzione dell’assegno divorzile su accordo delle parti, e soggetto alla verifica di equità da parte del Tribunale, non rientra nella nozione di assegno che dà titolo alla pensione di reversibilità in forza della sua idoneità a regolare definitivamente i rapporti economici tra gli ex coniugi ed a costituire certo adempimento dell’obbligo di sostentamento del coniuge medesimo, così da escludere, per il futuro, il diritto in favore di quest’ultimo ad ogni erogazione economica (da ult. Cass. Civ. sez. lav. n. 9054/2016).

Permane quindi un netto e- ad oggi- insanabile contrasto giurisprudenziale in ordine al diritto dell’ex coniuge divorziato, titolare di un assegno divorzile corrisposto una tantum, alla pensione di reversibilità, o ad una quota di essa, cui va ad aggiungersi, nella variegata ampiezza dei temi proposti, anche quello trattato dalla recente ordinanza n.25053/2017 Corte di Cassazione Sesta Civile relativo all’accertamento ed alla liquidazione dell’assegno ad opera del Tribunale al termine del giudizio di divorzio.

 

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Che cosa fare quando il tuo capo vuole licenziarti e riassumerti tramite una cooperativa?

Sono un’infermiera di 48 anni assunta con contratto a tempo indeterminato (studi professionali) presso uno studio associato di medici di base della regione Veneto. Ho un’anzianità di servizio di 5 anni. I miei tre datori di lavoro mi hanno comunicato che intendono interrompere il rapporto di lavoro diretto con me e la mia collega per “passare” a una Cooperativa Sociale, la quale ci riassumerà. Noi continueremo a lavorare “come prima” nello studio ma alle dipendenze della cooperativa con il contratto delle cooperative sociali. Mi risulta che questo in base all’art. 126 del CCNL Studi Professionali sia un caso di “licenziamento simulato”. Ci hanno anticipato che dovranno chiederci di dare le dimissioni in questo modo potremo essere riassunte dalla cooperativa mantenendo lo stesso trattamento economico, ma è tutto molto fumoso. Come mi devo comportare? Rifiutare le dimissioni? Farmi licenziare e poi riassumere? Lo studio è piccolo e fino ad ora i rapporti sono stati buoni.

L’art. 126 del contratto collettivo nazionale per i dipendenti degli studi professionali prevede quanto segue: «Il licenziamento del lavoratore seguito da nuova assunzione presso la stessa sede di lavoro deve considerarsi improduttivo di effetti giuridici quando sia rivolto alla violazione dei diritti del lavoratore e sempre che sia provata la simulazione. Il licenziamento si presume comunque simulato – salvo prova del contrario – se la nuova assunzione viene effettuata entro un mese dal licenziamento».
Quindi un minimo di tutela per i casi come il tuo è prevista, anche se l’onere di dare comunque la prova della simulazione suscita un po’ di perplessità, anche a fronte dell’eventualità che il nuovo contratto venga redatto, come non mi stupirei se avvenisse, in modo da creare una parvenza di verosimiglianza, ad esempio indicando come sede di lavoro, almeno sulla carta, una diversa unità produttiva.
Bisogna, d’altro canto, guardare in faccia la realtà: con questa operazione i tuoi datori non ti danno assolutamente qualcosa in più, né ti mantengono nella stessa posizione di prima: se passi, da dipendente quale sei ora, a lavorare per loro come socia di una cooperativa sociale può anche darsi che tu mantenga lo stesso stipendio a fine mese, ma perdi molti diritti, ad esempio sei molto meno tutelata da ipotesi di licenziamento «effettivo», e probabilmente anche ulteriori e diversi trattamenti economici ne saranno intaccati, come quello pensionistico, visto che la contribuzione non è certamente corrispondente (ma di questo, ovviamente, ti accorgerai solo in futuro).
Detto questo, non mi sento nemmeno di gettare completamente la croce addosso ai tuoi datori di lavoro che stanno facendo quello che purtroppo fanno molti altri datori in questo periodo, dando luogo al più vasto fenomeno di precariato che si sia mai avuto in Italia dal secondo dopoguerra. Alcuni di questi datori vi sono veramente costretti, nel senso che se non riuscissero a trovare forme di inquadramento alternativo dovrebbero sopprimere il posto di lavoro, altri semplicemente se ne approfittano.
Alla fine di tutto, io ti consiglierei di parlare apertamente e con chiarezza con i tuoi datori di lavoro. Nelle piccole realtà economiche come sono generalmente gli studi professionali si è un po’ tutti, in una certa misura, sulla stessa barca. Ovviamente, poi, dovrai fare anche valutazioni di stretta convenienza, perché se è vero che con questa operazione ti stanno togliendo alcuni diritti, è anche vero che non ci sono molte alternative in un periodo come questo, anche se la professionalità dell’infermiere è abbastanza richiesta.

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Una rendita erogata dall’INAIL può essere pignorata dall’INAIL stessa?

Una rendita inail del 35% erogata dall’INAIL a vita, può essere pignorata dallo stesso istituto inail per il recupero di un debito di una causa persa nei loro confronti, se è si allora in che misura?

Le rendite erogate dall’INAIL sono generalmente impignorabili, ma la domanda è sbagliata, nel senso che in questo caso, in cui creditore e debitore coincidono, il discorso non è quello della pignorabilità ma piuttosto quello della possibilità che il debito, che INAIL manifesta nei tuoi confronti per il pagamento della rendita, si estingua per compensazione, che si ha appunto quando una persona ha, nei confronti di un’altra, sia debiti che crediti ed i primi si estinguono per la parte corrispondente dei secondi.

Se Tizio, ad esempio, deve 100 euro a Caio, ma, al tempo stesso, Caio ne deve 60 a Tizio per un’altro motivo, il debito di Tizio verso Caio si estingue per compensazione per la parte corrispondente ai 60 euro e Tizio rimane debitore di soli 40 euro.

La legge, tuttavia, prevede che non siano compensabili i crediti dichiarati impignorabili (art. 1246, n. 3, cod. civ.), per cui in conclusione non credo che l’INAIL possa smettere di corrispondere la rendita avvalendosi del fatto di essere creditrice nei tuoi confronti per spese legali. Nè, sotto un altro profilo, potrebbe avvalersi dell’eccezione di inadempimento (inadimplenti non est adimplendum), dal momento che non si tratta di un unico contesto quanto al titolo, non siete cioè nell’ambito di un contratto con prestazioni reciproche.

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la pensione è pignorabile dalla moglie cui non viene corrisposto il mantenimento?

Mio padre non riesce a versare l’assegno a mia madre,in quanto ha problemi economici legati alla propria ditta,ha già ricevuto 3 precetti e ora arriverà il quarto.Mi chiedo a cosa va incontro se continua a non versare l’assegno e quali conseguenze legali ha sulla situazione personale economica. Premetto che è gia in pensione e chiedo se mia madre può mediante la legge rivalersi su quest’ultima.

La pensione è pignorabile, nel limite di 1/5 per ogni rateo, a partire dalla misura superiore a quella corrispondente alla pensione sociale. Se tuo padre, ad esempio, ha una pensione di 2000 euro, ponendo che la misura della pensione sociale sia di 400 euro, gli potrà essere pignorato ogni mese 1/5 di 1600 euro.

Forse conviene valutare di presentare un ricorso per modifica delle condizioni?

Quando la condanna puo’ essere causa di impedimento per l’iscrizione all’albo dei mediatori

Gentile utente solo le condanne definitive possono essere causa di impedimento all’iscrizione all’albo dei mediatori o alla loro permanenza in albo. Le sentenze definitive sono quelle passate in giudicato per mancanza di impugnazione . Le sentenze appellate non sono ancora definitive.cio’ in virtu’ del principio secondo il quale un soggetto si presume innocente fino a quando non e’ stato condannato con sentenza passata in giudicato.

Franca Massa, da iPhone
http://studiolegalemassa.it

Domanda

Sono iscritto all’albo degli
> Agenti di Affari in mediazione.
> Sono a chiederle se, in caso di revisione del Ruolo stesso prevista > ogni 4 anni, e verifica del possesso dei requisiti morali, le > condanne di cui all’articolo 2 comma f) della legge 39/89 ostative > all’iscrizione o alla permanenza nel ruolo sono da intendersi quelle > “definitive” oppure anche quelle in primo grado, appellabili. > Grazie per la cortese risposta

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quando dopo aver versato i contributi, lo Stato non vuole imputarli alla pensione

 

 Sono un’ex appartenente alla Polizia di stato.in data 30.6.2002,mi e stato notificato ill provvedimento di decadennza con data retroattiva al 18..2.2002-Io dal febbraio al giugno 2002 ho prestato servizio,ho preso lo stipendio,ed sono state fatte le ritenute assistenziali e previdenziali. Ora il Ministero,non vuole riconoscermi detto periodo ai fini previdenziali- E cooretto il comportamento del Ministero ? Ho diritto al riconoscimento ai fini previdenziali di detto periodo – Cosa devo fare ?

Non è semplice risponderti senza poter esaminare il caso concreto ma da quanto racconti, in linea di principio dovresti aver ragione anche perchè le ritenute  sui tuoi stipendi sono state effettuate e quindi versate. Dovresti agire mediante l’ausilio di un legale ma prima di ciò ti consiglio di rivolgerti ad un sindacato di polizia  (come ad esempio il siulp). Infatti è verosimile che una situazione del genere della tua, sia già capitata loro in esame e quindi puo darsi che conoscano già le possibili soluzioni.