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[guest post] Il problema conflittualità tra limiti del diritto ed etica forense.

Oggi una occasionale “convergenza” giornalistica permette di mettere bene a fuoco un problema poco denunciato e poco studiato: l’impatto del diritto sulla conflittualità.

Il Corriere della Sera riporta gli eccessi di intolleranza che sfociano in istanze punitive che, se non fossero reali, rasenterebbero il ridicolo, mentre la Stampa a margine della triste vicenda di Cittadella, pubblica (a pag. 29 della versione cartacea) un intervento di Carlo Rimini dal titolo “Il mediatore che manca per i figli contesi”. Il professore nota come “Tutti coloro che operano a contatto con la crisi della famiglia sanno che il nostro diritto ha una grave lacuna che neppure la legge sulla filiazione approvato nel dicembre scorso ha affrontato. Non esiste infatti una struttura in grado di gestire il conflitto quotidiano  fra genitori separati, evitando che questi diventino irrisolvibili. L’autore suggerisce l’istituzione di “un ufficio incaricato di seguire tutte le famiglie separate in cui vi è un acuto contenzioso relativo ai figli”.

Potrebbe essere una soluzione che però, come spesso accade, prevede un intervento Statale e una certa “istituzionalizzazione” del conflitto; magari in altre nazioni esiste un servizio simile ed è “giusto” ispirarsi a quelle nazioni che riescono a fornire servizi sociali migliori dei nostri. Tuttavia questa non è l’unica soluzione e di certo non intercetta il micro-conflitto quotidiano che resta nascosto tra agnolotti mal fatti o puzze condominiali.

Non è “corretto” accostare un conflitto grave (il bimbo conteso) con uno – apparentemente – banale come quello tra vicini?

Lo è nella misura in cui si considera che il conflitto è un fenomeno del tutto naturale nell’ambito delle relazioni umane e quindi perfettamente fisiologico, ma che, in certe situazioni, in cui sono coinvolti certi soggetti, può divenire patologico. La cosa grave è che quando un conflitto non si risolve subito e facilmente, allora, una o entrambe le persone in esso coinvolte, si rivolgono alla legge, pensando che questa stia lì a risolvere i loro problemi. Ma le cose stanno davvero così? Il diritto, il processo, gli avvocati sono al servizio del conflitto?

Temo proprio di no: il conflitto non vive nel dominio giuridico che, al contrario, non intercetta, considera o interagisce con gli elementi di cui il conflitto è composto, per i seguenti motivi.

  • L’ordinamento giuridico è costituito di un insieme di disposizioni che per definizione vanno interpretate ed applicate al fine giungere ad un sentenza che – in occasione della presentazione del libro “La comprensione del diritto” di Giuseppe Zaccaria è – stato definito dal Vice Presidente della Corte Costituzionale “un  provvedimento per la rimozione autoritativa del dubbio” (circa la “giusta” interpretazione). Nessuno spazio per emozioni, stati d’animo o sentimenti che, al contrario rilevano, semmai, come “aggravanti”.
  • Il conflitto nasce per problemi di comunicazione, difficoltà ad interagire costruttivamente per la risoluzione dei problemi, scarsità di risorse ed emozioni negative. Nel caso delle coppie, ma il discorso può essere esteso a qualsiasi organizzazione o comunità, è proprio la capacità di gestire efficacemente il conflitto a denotare la solidità della relazione.
  • La magistratura, tranne qualche isolata eccezione, non si cura delle persone, ma si limita – forse correttamente su un piano dogmatico – ad interpretare ed applicare le disposizioni di legge. Se questo porta sofferenza ai soggetti coinvolti direttamente e indirettamente o acuisce il conflitto è un problema che non sembra riguardare il giudice che si deve limitare a mettere una parola “fine” al processo. Il che non assicura affatto che finisca il conflitto.
  • Come nota William Ury (antropologo esperto di conflitti di fama internazionale, co-fondatore del Program on Negotiation presso l’Università di Harvard) il conflitto è di tutti, ma nessuno riesce davvero ad accoglierlo: non vogliono o possono farlo i vicini, i parenti, la comunità e così lo si trasferisce in un tribunale, producendo quel che il filosofo Eligio resta ha definito “tribunalizzazione del conflitto”. Nelle culture che noi definiamo arretrate e che vivono ancora oggi in una dimensione tribale, al contrario, il conflitto viene condiviso tra tutti i membri: il problema (ri)diventa di tutti. Il prof. Rimini pensava ai costi sociali, io invece penso ai costi umani: quando il conflitto oltrepassa un invisibile – per i non esperti – linea (ad esempio quella tra il 4° e 5° grado della cd. “Scala di Glasl”), diventa realmente distruttivo e si autoalimenta in una spirale senza fine dove l’autodistruzione a patto di far perire l’avversario è davvero un obiettivo.

 Ho lasciato fuori un protagonista: l’avvocato, che spesso è il primo a ricevere (il che non significa accogliere e risolvere) il conflitto. Egli potrebbe fare come il magistrato, con il quale condivide la formazione giuridica, estrapolando le questioni di diritto e lasciando fuori (davvero?) gli aspetti emotivi e relazionali. Comportamento ineccepibile giuridicamente e deontologicamente:  ma diritto e deontologia sono tutto? Qualcuno potrebbe dire – forse con un filo di cinismo – che sono anche “troppo” per un avvocato: io, invece, penso che siano troppo poco: senza una visione e una riflessione etica, infatti, il diritto da solo non riesce a risolvere i conflitti. E se lo Stato non fornisce un servizio in grado di rispondere a questa esigenza, certamente nulla impedisce all’avvocato di farlo di sua spontanea iniziativa: esistono centri di mediazione familiare in cui operano professionisti (veri) del conflitto, persone appositamente formate per gestire situazioni anche molto delicate. L’importante è non arrivare troppo tardi, quindi, il ruolo dell’avvocato è doppiamente delicato, non solo perché ha il potere di intercettare il conflitto, ma anche perché lo fa per primo: essere invitati ad andare in mediazione familiare dal giudice, significa andarci in una fase piuttosto avanzata della malattia il che può compromettere le possibilità di guarigione.

Come ben sanno gli esperti di conflitto, non tutti i conflitti possono essere risolti, ma tutti possono essere prevenuti. E’ vero, le facoltà di giurisprudenza non forniscono nozioni in tema di conflitto e raramente ne danno in materia di mediazione: ma l’errore dell’accademia può giustificare quello dell’avvocato o giustificare la sua inerzia?

Attendere un servizio pubblico senza fare nulla è moralmente ed eticamente corretto? Nei conflitti piccoli ed in quelli grandi spesso ci sono avvocati che in perfetta buona fede non si rendono conto – giacché è un fenomeno che non conoscono “professionalmente” – di quale efficacia perversa può avere il diritto nelle dinamiche conflittuali.

Ci sono le banche etiche, il bilancio sociale, la bioetica e la neurotica: occorre anche un diritto etico nei confronti del conflitto. O almeno un’avvocatura etica. Si può fare. Con qualche sforzo, ma senza rinunciare a nulla in termini economici e di prestazione professionale. Insieme, circa 250.000 avvocati potrebbero determinare una svolta.