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Mio marito pretende l’uguaglianza: ha ragione?

Sono sposata in regime di separazione dei beni, abbiamo 3 figli. Io lavoro come impiegata in un’azienda e guadagno 1200 euro al mese. Mio marito invece ha un’azienda sua e guadagna cinque volte più di me, ma mette in casa, per le spese della famiglia, solo 1200€ al mese, corrispondenti a quello che porto a casa io, perché dice che ognuno deve contribuire uguale all’altro. Solo che così facendo viviamo, e facciamo vivere i nostri figli, con un tenore molto più basso di quello che, in realtà, ci potremmo permettere. È giusta una cosa del genere?

L’art. 143, comma 3°, cod. civ., posto in apertura di una parte del codice intitolata «Dei diritti e dei doveri che nascono dal matrimonio», prevede che «entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia».

Si tratta di una disposizione di riguardo, la cui lettura è obbligatoria anche in Chiesa, durante la celebrazione del matrimonio concordatario, insieme ai successivi articoli 144 e 147, proprio perché ritenuta particolarmente importante sul tema delle conseguenze derivanti dal matrimonio.

L’articolo in esame è molto chiaro: il contributo che deve essere prestato da ciascun coniuge non è mai parametrato a quello che fa o può fare l’altro, non vige un principio, analogo ad esempio a quello valevole per i conferimenti delle società commerciali, per cui la «quota» da versarsi ad opera di ciascun coniuge, o socio, è identica.

Vale, in realtà, il principio opposto: ogni coniuge deve dare il massimo, in base alle proprie sostanze, e quindi al suo patrimonio, e alla sua capacità lavorativa, per le esigenze della famiglia.

Come avvocato, mi sono imbattuto di applicazioni di questa disposizione soprattutto in caso di famiglie oramai, purtroppo, disgregate e quindi in occasione di separazione e divorzio.

Così ad esempio nel caso in cui i figli stiano uguale tempo con un genitore e con l’altro non è detto che non sia prevedibile un assegno dall’uno all’altro genitore. Quando, infatti, lo squilibrio tra i redditi reciproci è forte, nonostante la parità di tempi di permanenza, i giudici prevedono ugualmente un assegno, che consente ai figli di godere, anche quando stanno con il genitore economicamente più debole, di un tenore di vita non così diverso e deteriore.

Anche il concetto di «capacità lavorativa» è applicato molto spesso e largamente dai giudici. A volte si presentano genitori che, sostenendo di non lavorare oppure di lavorare in un’attività che «malauguratamente» è in rosso da anni, credono di scamparsela, mentre invece i giudici li condannano comunque a versare un mantenimento per i figli, considerando non la situazione attuale, ma la loro capacità lavorativa potenziale.

La legge vigente, insomma, non è a favore di tuo marito.

Su un piano più generale, va ricordato che la famiglia, come cennato prima, non è una società commerciale, che è un contratto, e non si basa mai su un rapporto di tipo sinallagmatico, cioè su un equilibrio tra prestazione e controprestazione, cosa che è invece tipica dei contratti.

Se io, ad esempio, ti vendo un computer dietro pagamento di un prezzo, quando tu poi questo prezzo non me lo paghi, io sono legittimato a non consegnarti il computer, c’è anche un antico brocardo latino che esprime questo inadimplenti non est adimplendum. Perché è un rapporto sinallagmatico in cui devono esserci entrambe le prestazioni, se una viene meno può essere sospesa anche l’altra.

La famiglia non funziona così, la famiglia è un contesto in cui tu consegni il computer anche quando chi lo prende non ne paga il prezzo. Non so ad esempio quante volte ti è capitato di comprarne uno per i tuoi figli… Ma vale anche nei rapporti tra i coniugi.

Insomma, in famiglia la regola non può assolutamente mai essere quella per cui le «prestazioni» dei due coniugi devono stare in corrispondenza tra loro, ma quella per cui ognuno deve fare il massimo che può per l’altro coniuge e per i figli.

Questo prima di tutto a livello concettuale, ma poi anche a livello pratico.

Come si calcolerebbe con precisione il contributo di ciascun coniuge, infatti? Se la moglie sta a casa, accudisce i figli, gestisce la casa stessa, prepara i pasti, cura le pulizie e così via, secondo lo schema classico e tradizionale di molte famiglie, e il marito può così, solo grazie al lavoro casalingo della moglie, lavorare «fuori» e guadagnare molto, quei molti guadagni che nominalmente sono solo del marito, non sono anche in realtà metà della moglie, grazie alla quale si sono potuti maturare e senza il cui lavoro non si sarebbero mai potuti avere?

Questa era ed è la logica alla base dell’istituto della comunione dei beni come regime patrimoniale tra i coniugi, logica che permane anche nelle coppie come la tua dove hai la separazione dei beni perché è una realtà fattuale anche prima che giuridica.

Per me, tuo marito su questo sbaglia. Per lavorare su questo «nodo», consiglio, considerato che siete ancora sposati, alcune sedute di mediazione familiare da un bravo professionista.

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Affido ai servizi sociali: conviene il ricorso in cassazione?

Da 12 anni combatto per difendermi legalmente dal mio ex marito che malgrado ne ha fatte di tutte a. me e ai miei figli è sempre uscito ridendo dalle varie udienze dicendomi vai dove vuoi mio padre è un massone io ti distruggo! E così è stato dopo un rincorso in appello aa Corte di Genova per riprendermi i miei figli in affido dallo scorso anno ai serv. Soc, motivazione del Giudicee nostre dispute economiche, tenendo conto che io non ho nulla il mio ex molto molto ricco gra, je ai Giudice nel corso degli anni li ha privati di tutto. Oggi i miei figli hanno 17anni nessun Giudice ha mai accettato la richiesta che vengano sentiti, neanche in appello che ha mantenuto l’affido ai s. Soc che non solo non accettano le relazioni dell’ASL ma li minacciano se non fanno quello che loro stabiliscono, naturalmente su richiesta del padre, di chiuderli in una struttura. Cmq il giudice senza motivare con termini di legge il suo rifiuto ha lasciato me e i. miei figli senza giustizia, addirittura negando loro il tenore di vita, dicendo che sarebbero troppo viziati, quindi non ne hanno diritto! Secondo lei con lo schifo di corruzione che c è nel ostro paese se vado in cassazione, tenendo conto che non ho possibilità economiche rischio di piangere di più di quanto ho pianto? E i miei figli che hanno visto di tutto da quando avevano 5anni.he fine possono fare con un padre che pur di distruggermi li fa passare per inadeguati?

Per sapere se una sentenza di appello è impugnabile in cassazione e, ulteriormente, se, una volta accertatane la impugnabilità, ciò sia ulteriormente conveniente, bisogna prima studiare approfonditamente le due sentenze precedenti e i fascicoli relativi.

Al netto di questo, si può fare qualche osservazione generale.

Intanto, il giudizio di cassazione non è un terzo grado di giudizio, dove la materia può essere di nuovo completamente ridiscussa, come avviene, almeno tendenzialmente, in appello, ma un grado di legittimità, in cui si dibatte per lo più sull’applicazione corretta o meno delle norme giuridiche, anche se gli aspetti di fatto in qualche modo a volte rientrano.

Ovviamente, è un grado di giudizio in cui la corte giudica «a fascicolo chiuso» cioè sulla base di un fascicolo già formato e dove è escluso che si possano introdurre nuove prove, documenti, tantomeno CTU e così via.

Soprattutto, la considerazione che mi pare assorbente è il fatto che i tuoi figli abbiano già 17 anni, con la conseguenza che il prossimo anno le disposizioni in materia di affido sono destinate comunque a cadere, anche se ovviamente se ci sono altre disposizioni sul mantenimento queste permangono sino al raggiungimento dell’autosufficienza.

A seconda delle modifiche, comunque, che si riterrebbero opportune per l’interesse dei minori, si potrebbe forse anche lasciar passare in giudicato la sentenza di appello per poi presentare un’istanza di modifica condizioni, ma anche questo va valutato accuratamente.

Se vuoi approfondire la situazione, puoi, se credi, valutare l’acquisto di una consulenza. Ti raccomando, con l’occasione, di iscriverti alla newsletter del blog, o, se non ti piace la mail, al gruppo Telegram, in modo da non perderti importanti e utili aggiornamenti quotidiani.

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Il criterio del «tenore di vita» è davvero finito?

Interessante resistenza dei tribunali di Matera e Mantova rispetto all’imminente e per alcuni già iniziata modifica dell’orientamento della Cassazione in materia di diritto alla corresponsione dell’ assegno divorzile.

Tribunale di Matera 7 marzo 2018 Tribunale di Mantova, 24 aprile 2018

A) Nella causa per la modifica o revoca dell’assegno divorzile instaurata da un uomo nei confronti dell’ex moglie, nanti il Tribunale di Mantova, viene citata fra gli elementi a supporto della richiesta la considerazione che l’importo dell’assegno, pari all’epoca (2004) ad € 350,00.= ad oggi rivalutato in € 411,47 era stato determinato sul parametro del “tenore di vita” tenuto dalla stessa in costanza di matrimonio.

Dato l’allontanamento o presunto tale da detto parametro dopo la pronuncia del maggio del 2017, l’uomo riteneva di essere probabilmente nel sicuro alveo della modifica o esclusione del riconoscimento economico alla sua ex signora. Le richieste dell’uomo erano supportate anche dal fatto che la ex aveva anche ottenuto una quota del tfr, e che ad oggi godesse di pensione propria, pertanto non avesse più diritto a percepire anche assegno divorzile quantomeno in tal misura.

I giudici di merito respingono però con forza le richieste dello stesso, specificando che il requisito dell’assegno divorzile determinato per tenore di vita non debba per forza ritenersi superato per il nuovo orientamento detenuto dalla sentenza della Suprema Corte nel maggio del 2017 ma che anzi non può qualificarsi come giustificato motivo ai sensi dell’art. 9 della legge sul divorzio il mero mutamento di giurisprudenza in ordine ai criteri con cui deve attualmente essere commisurato l’assegno di divorzio.

L’esclusione della rilevanza del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio non significa che vengano quindi modificati i parametri che sono a fondamento dell’an della misura. (cfr. sul tema Cass. n. 11504/2017). “atteso che, in caso contrario, si verrebbe ad estendere a rapporti esauriti, perché coperti dal giudicato,una diversa interpretazione della regola giuridica a suo tempo applicata ma con efficacia retroattiva ciò che non è consentito nemmeno alla legge (perlomeno in via generale: v. art.11 disp prel cc) e che produrrebbe un risultato valutato come irragionevole dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. sul tema Cass. n. 15144/2011);- ritenuto inoltre che non può neppure essere invocato il principio del c.d. “prospective overruling” atteso che il mutamento di giurisprudenza ha riguardato una norma di carattere sostanziale e non processuale (cfr. Cass. n. 6862/2014).”Iil ricorso pertanto non viene considerato meritevole di accoglimento.

B) Pronuncia ancora più solida nell’incardinamento alle norme è il provvedimento del Tribunale di Matera, sent. del 7 marzo 2018. Facendo esclusivamente riferimento alla norma sul divorzio, 898 del 1970 ed ai suoi articoli che disciplinano la regolamentazione della fine del rapporto matrimoniale.

La sentenza analizza sistematicamente che la previsione dell’assegno divorzile va intesa come un’eccezione alla drastica chiusura dei rapporti fra marito e moglie alla cessazione del rapporto di coniugio. Come tale, è un’elemento tassativo che non può e non deve essere soggetto alla valutazione di questo o quel parametro giurisprudenziale, come quello del tenore di vita mantenuto in costanza di matrimonio. Il requisito per beneficiare di assegno divorzile deve fondarsi sulla oggettiva mancanza di mezzi di sussistenza o sull’impossibilità di procurarseli da parte di chi lo richiede.

Ci si chiede allora, se questo rigido criterio di valutazione, assolutamente legittimo perchè legato indissolubilmente al dato normativo, possa riuscire a risolvere i conflitti o a ridurli almeno, oppure non porti gli scontri al punto di dover ridefinire il concetto di cosa sia per il singolo individuo un “mezzo di sussistenza”, un elemento cioè che per un soggettto è di essenziale importanza. Come tre pasti al giorno per qualcuno o il cellulare di ultimo modello per qualcun altro.