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la mediazione familiare come opportunità

Qualcuno di noi può immaginare una vicenda più terribile di quella di un genitore che perde un figlio? E cosa ci può essere di più tragico dell’avere cagionato in prima persona la morte del bambino amato?

E’ quello che capitò a una donna al tempo di Salomone, re in Israele: mentre ella dormiva, schiacciò il bambino con il suo peso. Pensò bene così di sostituire il bambino morto con il figlio di una donna che abitava con lei. Ma questa se ne accorse e cominciarono a litigare. Chi meglio di Salomone, noto per la sua saggezza ed equanimità avrebbe potuto dirimere la questione: di chi è figlio il bimbo conteso?

Allora il re fece portare una spada e ordinò: “ tagliate in due il figlio vivo e datene una metà all’una e una metà all’altra”.

Tutti noi ricordiamo la conclusione della storia: le viscere (l’utero) di una delle due donne si commossero, indicando l’altra disse: date il bambino a lei, purché egli possa vivere! L’altra rispose “non sia né mio né tuo; dividetelo in due!”

Il re comprese bene così chi fosse la madre del bambino vivo e poté pronunciare una sentenza che ebbe una vasta risonanza in Israele ed è arrivata anche a noi: davvero la saggezza di Dio era in Salomone per rendere giustizia!

(cf. 1Re 3)

La sala del regno si trasformò allora nella “stanza della mediazione”, non tanto per il metodo usato (il Forum europeo non avrebbe probabilmente approvato) ma per avere messo al centro non le richieste dell’uno o dell’altro dei contendenti … al centro dell’interesse c’è un figlio e che questo figlio possa vivere pienamente. Non c’è spazio nella mediazione per chi invece vuole anteporre le proprie esigenze (pur con tutta l’umana comprensione per chi ha vissuto un’esperienza tragica), né per chi vuole usare i figli come strumento per placare il proprio dolore o strumento di rivalsa contro l’altro.

Abbiamo così indicato il fil rouge che deve accompagnare tutto il percorso di mediazione: il domandarsi quali siano le esigenze dei figli. Non si tratta – come dice qualcuno – di attenzione esclusiva alle necessità dei figli … dovrà essere piuttosto un’attenzione inclusiva: se ci poniamo in ascolto delle domande dei figli e ci preoccupiamo del loro bene, facciamo anche il nostro bene, realizziamo anche il nostro essere adulti (dove per adultità si intende la capacità oblativa di spendersi per l’altro).

Chi è tuttavia quel genitore che, interrogato, risponda di non volere provvedere al bene del figlio? Forse anche la donna smascherata da Salomone, accecata dal dolore, poteva tragicamente essere convinta di agire per il meglio.

Senza affrontare i casi limite che possono sfociare nel patologico (dove la mediazione nulla può fare e occorre inviare ad altri servizi), il mediatore ha una profonda fiducia nella capacità dei genitori di fare bene il loro mestiere (è anche per questo che diverse scuole di mediazione preferiscono non coinvolgere direttamente i figli nel percorso). Senza questa fiducia che è anche fiducia dell’un genitore nei confronti dell’altro, ogni accordo raggiunto è puramente fittizio. Tale fiducia tuttavia è più un punto di arrivo che di partenza e cresce con il progredire del confronto e del dialogo.

La mediazione diviene così un training , in cui i genitori riscoprendo il dono della parola su cose concrete (quando e come comunicare ai figli la decisione di separarsi; l’organizzazione quotidiana e il calendario dei tempi; il racconto di quello che i figli fanno e dei sentimenti che esprimono, i bisogni che emergono; le regole di vita condivise – quando e cosa guardare alla tv, per esempio -; il tema della scuola; il ruolo dei nonni e delle altre figure affettivamente significative; il rapporto con i nuovi partners, ecc.), imparano a relazionarsi anche in futuro, non più come coniugi o conviventi, ma come genitori. Il mediatore, professionista “equivicino”, capace cioè di prendere le parte di entrambi, aiuta la coppia separata o in via di separazione a chiarire tutti i fraintendimenti che sono sul campo: dato che tu sei stato un cattivo coniuge, non puoi essere una brava madre o un bravo padre”.

La mediazione è così uno spazio libero, autonomo, dove i genitori sono invitati ad assumersi la responsabilità delle scelte. Se così non facessero, altri deciderebbero al posto loro. E sappiamo quante volte purtroppo la vicenda separativa si configuri come una partita di calcio in cui i tifosi o facinorosi, non contenti di come gli atleti abbiano giocato o dell’operato dell’arbitro, invadono il campo per fare valere i propri presunti diritti. In questo caso il calcio c’entra poco; parimenti il bene di figli e genitori non è compreso quando figure terze fomentano il conflitto invece che sostenere il dialogo. A volta le guerre si fanno per conto terzi; le famiglie di origine possono intervenire per mettere l’uno contro l’altra. “Non datemi consigli, so sbagliare da solo” ripeteva spesso Enzo Biagi.

Sarebbe troppo pensare a percorsi paralleli di crescita, al di fuori della mediazione, rivolti a nonni, zii e nuovi partner?

Ritorniamo allora al dubbio che era sorto: chi è quel genitore “sano” che non è convinto di fare il bene del figlio?

Per questo il mediatore, pur nutrendo la fiducia nella capacità dei genitori, ha il compito di vigilare affinché la coscienza sia illuminata dal confronto con i risultati delle ricerche in campo pedagogico, psicologico e giuridico, oltre che dal buon senso.

Sappiamo bene come il dolore o il rancore possano ottenebrare la vista e far apparire bianco ciò che è nero e viceversa. Vivere la separazione è come addentrarsi in una foresta intricata e perdere la strada. E’ utile salire su un albero per poter guardare le cose ad una certa distanza e riscoprire la direzione verso cui incamminarsi. Il mediatore non percorre il cammino al posto dei genitori, né indica la strada, ha solo la pretesa di essere un buon albero su cui salire.

“Sei sicuro che il bene del bambino sia essere tagliato in due dalla spada? ”: questa è la domanda che il mediatore rivolge spesso ad entrambi i genitori per porre l’attenzione sull’essenziale.

Carlo e Giovanna, appena trentenni, hanno deciso di separarsi. Si rivolgono a un centro di mediazione per essere aiutati a riscoprire le ragioni del dialogo. Si sono comunque già confrontati su come comportarsi nei riguardi dei due figli che amano con tutto il cuore:

– “diremo loro che papà e mamma non vanno più d’accordo e hanno deciso di vivere in case diverse; diremo di non avere paura perché non li lasceremo mai soli e vorremo loro sempre bene”.

– “bene, è importante che i bambini sappiano che continuerete a volere loro bene … ma quando direte loro tutto questo?”

– dice uno dei due: “alla sera, dopo cena, poco prima di andare a letto”.

In cosa consiste a questo punto il compito del mediatore? Invita a riflettere se la scelta dei tempi risponde prima di tutto a un bisogno dei figli o alla loro esigenza di adulti spaventati. Aiutare ad avere sempre chiara questa distinzione: questo è il compito fondamentale della mediazione. Nell’esempio, aiuta a comprendere che i figli, specie se piccoli, non hanno gli strumenti per elaborare gli avvenimenti: non possono essere lasciati soli in questo compito.

Alla fine, Carlo e Giovanna decideranno di comunicare la notizia alla domenica, per poter avere tutto il tempo di stare con i figli ed osservare le loro reazioni.

Infine, forniamo uno schema riassuntivo delle fasi del processo di mediazione. Tra i tanti, scegliamo lo schema proposto da Costanza Marzotto dell’Università Cattolica di Milano:

  • Introduzione delle persone e creazione di un clima di fiducia

  • Identificazione dei punti di conflitto e loro priorità

  • Individuazione delle opzioni e delle alternative possibili circa la soluzione dei problemi

  • Negoziazione e presa di decisione

  • Redazione di un progetto d’intesa

  • Revisione legale del progetto

  • Messa in opera del progetto d’intesa ed eventuale sua revisione

Il percorso di mediazione può iniziare dopo una fase iniziale, che alcuni chiamano “premediazione”, nella quale si opera l’analisi della domanda e si valuta la mediabilità del caso (e l’eventuale invio a un consulente di coppia, o ad altri professionisti).

Per brevità, ci soffermiamo solo sulla fase negoziale.

La premessa fondamentale è che i genitori devono – come già sottolineato dalla collega – mantenere la relazione tra di loro dato che hanno per sempre in comune il destino dei figli.

La negoziazione è un lavoro che parte dagli interessi e dai bisogni delle persone e non dalle posizioni o dagli schieramenti. Se si rimane nella logica delle posizioni contrapposte infatti si è ancora nella logica del vincente e del perdente (e chi vince può vendicarsi di quella volta che ha avuto invece la peggio) e la relazione s’interrompe.

Ritornando all’esempio di Carlo e Giovanna riguardo a quando comunicare ai figli la notizia della separazione, l’uomo propendeva per farlo in casa e prima di andare a letto, la donna , preoccupata di salvaguardare la casa come “ambiente di serenità”, preferiva al ristorante, una domenica ….

Due le strade possibili: scegliere tra una soluzione o l’altra oppure negoziare ed esplorare altre possibilità. Nel primo caso, uno dei due deve rinunciare al proprio territorio e lasciare che sia occupato dall’altro. Nel caso della negoziazione, si approda a un “territorio terzo”: né il “mio” né il “tuo”, ma il “nostro”.

Nell’esempio, i coniugi hanno deciso di parlare ai figli non al ristorante, perché ambiente estraneo; non alla sera per i motivi detti sopra, ma in casa e dopo pranzo.

La metodologia della negoziazione segue quattro punti (Fisher, Ury e Patton):

  • Scindere le persone dal problema

  • Concentrarsi sugli interessi, non sulle posizioni

  • Inventare soluzioni vantaggiose per ambo le parti

  • Insistere su criteri oggettivi

Dice il Buddha: “il viaggiatore, se non incontra a tenergli compagnia uno migliore di lui o simile a lui, proceda decisamente da solo: con lo stolto non vi è compagnia”. La scommessa che facciamo è che la mediazione sia un’opportunità offerta a quei viaggiatori, che non costituendo più una coppia, desiderino comunque incontrare un simile (l’altro genitore, per l’appunto) per condividere il cammino e l’avventura educativa.

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