Il caso: una donna di 44 anni, madre di 2 figli, affetta da tumore al pancreas con metastasi diffuse, alla quale è stata prospettata una aspettativa di vita di soli sei mesi, presta il proprio consenso ad un intervento chirurgico di asportazione delle ovaie.
A parere dei medici, tale intervento, avrebbe dovuto allungare notevolmente le aspettative di vita della donna, posto che proprio le ovaie sarebbero state all’origine del tumore, ma, al contrario, la donna muore a breve distanza dall’intervento a causa di una emorragia.
La Corte di Cassazione chiamata e decidere sulla questione, pur dichiarando estinto il reato per intervenuta prescrizione, ha, nel merito, confermato la sentenza della Corte d’Appello, la quale aveva ritenuto colpevoli di omicidio colposo, ai sensi dell’art. 589 codice penale, il primario dell’ospedale e suoi due assistenti, che già in altre occasioni si era cimentati in “missioni impossibili”.
Per poter comprendere tale decisione è importante ricordare che, ai sensi dell’art. 43 del nostro codice penale, è colposo il reato, quando l’evento, in questo caso la morte, non è voluto dal soggetto agente e si verifica a causa di negligenza, imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
Nel caso di specie, la Corte ha, giustamente, ritenuto che il comportamento dei tre medici fosse stato posto in essere in violazione dell’art. 14 del codice di deontologia medica, il quale impone al medico di “astenersi dall’ostinazione in trattamenti, da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita”.
In concreto, la Corte ha ritenuto che l’intervento, a cui è stata sottoposta la paziente, non avrebbe potuto portare ad alcun beneficio per la salute della stessa e, pertanto, che la condotta tenuta dai tre medici fosse inequivocabilmente una violazione del divieto di accanimento terapeutico.
Più in generale, però, si comprende la rilevanza di tale provvedimento, se lo si inserisce, nell’ormai risalente ma sempre più acceso, dibattito in tema di diritto all’autodeterminazione e divieto di accanimento terapeutico.
Sebbene apparentemente “fuori dal coro”, in quanto il consenso prestato dalla donna all’intervento potrebbe apparire sufficiente a tutelarne l’autodeterminazione, il provvedimento sopra citato evidenzia, al contrario, la tendenza evolutiva della giurisprudenza italiana.
La stessa, infatti, è sempre più orientata verso una responsabilizzazione del medico, intesa non solo come divieto di accanimento terapeutico in caso di pazienti in stato vegetativo, bensì anche come fondamentale obbligo di tutelare i propri pazienti, anche se coscienti, dai tecnicismi e dalle false speranze di soluzioni miracolose.
In attesa di un intervento legislativo organico e costituzionalmente orientato, la giurisprudenza fa passi in avanti nella tutela dei diritti del malato (con la collaborazione della dott.ssa Eleonora Cuocci).
articolo originariamente pubblicato su | Cadoinpiedi