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Mediazione familiare e pregiudizi: per scioglierli.

Nel post di ieri, si chiedevamo come è possibile che persone che condividono scelte, affetti importanti e totalizzanti come quelli dei figli, esperienze, spesso anche affinità, finiscano per riuscire a comunicare peggio tra di loro che quando lo fanno con estranei?

Le cause sono sicuramente molteplici, si tratta certamente di un fenomeno multifattoriale, tuttavia una buona parte della responsabilità si può probabilmente individuare nella stratificazione dei pregiudizi che man mano si formano nella vita di coppia o comunque in famiglia.

Il nostro cervello, secondo le discipline che ne hanno studiato più approfonditamente il funzionamento, funziona per pregiudizi, per abitudini acquisite, per automatismi che vengono incamerati e di cui si perde la coscienza o consapevolezza.

Se così non fosse, perderemmo la capacità di andare in bicicletta, o di guidare un’automobile, manovrando volante, cambio, pedali e al contempo conversando con la persona al nostro fianco.

Pregiudizio significa etimologicamente giudizio preformato, acquisito, appunto. Esso non è affatto, come comunemente si crede oggigiorno, a causa dell’utilizzo più comune, un giudizio negativo, ma semplicemente un giudizio già svolto ed acquisito dalla nostra mente, sia in senso negativo, che positivo, che neutro (come, in quest’ultimo caso, la guida di un veicolo, che può essere svolta sia per scopi buoni che meno buoni).

I pregiudizi sono una necessità dell’uomo, è inevitabile usare queste scorciatoie che non sono certo implementate solo per pigrizia ma perché sarebbe impossibile che ognuno di noi ripartisse, con la propria mente, ogni volta da zero.

I pregiudizi possono dunque essere anche positivi. Il caso tipico e più lampante è sicuramente quello della fase dell’innamoramento, fase che ha una durata, secondo gli studi in materia (citati da Gary Chapman, in «I 5 linguaggi dell’amore»), di un paio di anni, al massimo due anni e mezzo, nei casi in cui la relazione è contrastata, durante la quale è impossibile per chi vi si trova realizzare i difetti del partner che vengono considerati, quando si ha la capacità di vederli, piccoli dettagli che si sarà sempre in grado di gestire.

Lo stesso Charles Bukowski, a riguardo, disse con spietata esattezza «L’amore è una forma di pregiudizio. Si ama quello di cui si ha bisogno, quello che ci fa star bene, quello che ci fa comodo. Come fai a dire che ami una persona, quando al mondo ci sono migliaia di persone che potresti amare di più, se solo le incontrassi? Il fatto è che non le incontri.»

I pregiudizi, dunque, sono una modalità operativa connaturata all’essere umano, un nostro limite operativo intrinseco. Le persone che sviluppano maggior consapevolezza nella vita, coloro che Budda chiamerebbe i «risvegliati», sono quelle che, pur essendo anche loro piene di pregiudizi, riescono a gestirli in modo migliore, sottoponendoli a verifiche periodiche, comunque conoscendone i limiti.

Tutte le altre persone, la pressochè totalità, continua a farsene condizionare.

La famiglia, da questo punto di vista, se è vero che resta un luogo di rifugio, conforto, sostegno, è anche un luogo in cui, dato l’alto numero di interazioni che si svolge tra i suoi vari componenti, è molto più agevolato lo sviluppo di pregiudizi reciproci, dato dalla conoscenza e dalle frequentazione sempre maggiore.

Ecco dunque il nervo scoperto dove di solito deve iniziare il suo lavoro la mediazione familiare. Vedremo maggiori dettagli al riguardo nel post di domani, che continua la serie sulla mediazione familiare.

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Di Tiziano Solignani

L'uomo che sussurrava ai cavilli... Cassazionista, iscritto all'ordine di Modena dal 1997. Mediatore familiare. Counselor. Autore, tra l'altro, di «Guida alla separazione e al divorzio», «Come dirsi addio», «9 storie mai raccontate», «Io non avrò mai paura di te». Se volete migliorare le vostre vite, seguitelo su facebook, twitter e nei suoi gruppi. Se volete acquistare un'ora (o più) della sua attenzione sui vostri problemi, potete farlo da qui.

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