Il tema è di quelli caldi, non lo si può negare.
E così la Cassazione aggiunge un elemento destinato a far parlare di sé e ad alimentare contenziosi che, per loro stessa natura, sono già incandescenti.
Stiamo parlando della pensione di reversibilità per il coniuge (ormai ex) divorziato.
L’articolo 9 comma 2 della legge 898/1970 riconosce infatti l’attribuzione della pensione di reversibilità al coniuge superstite divorziato come diritto, specificando espressamente che esso è condizionato alla circostanza che il superstite sia titolare dell’assegno di mantenimento da parte dell’ex coniuge venuto a mancare e che, naturalmente, non sia passato a nuove nozze.
Nella pronuncia di cui sopra, la Cassazione nel richiamare l’art. 9, sottolinea anche come tale diritto postuli “l’avvenuto riconoscimento dell’assegno medesimo da parte del tribunale, con la conseguenza che, ai fini del riconoscimento del predetto diritto, non è sufficiente la mera debenza in astratto di un assegno di divorzio, e neppure la percezione in concreto di un assegno di mantenimento in base a convenzioni intercorse tra le parti, occorrendo invece che l’assegno sia stato liquidato dal giudice nel giudizio di divorzio ai sensi dell’art. 5 cit., ovvero successivamente, quando si verifichino le condizioni per la sua attribuzione ai sensi dell’art. 9 cit.”
La Cassazione, con la recente ordinanza n.25053/2017 Corte di Cassazione Sesta Civile pubblicata il 23.10.2017, quindi ha voluto aggiungere e specificare che ai fini del riconoscimento del diritto alla pensione di reversibilità deve ricorrere il requisito che tale assegno sia stato riconosciuto- e quindi liquidato- dal giudice al termine del giudizio di divorzio, escludendo in tal modo che l’essere tenuti in astratto alla corresponsione di tale assegno di divorzio, così come il fatto di percepirlo materialmente sulla base di convenzioni ed accordi intercorsi tra le parti, non sia condizione sufficiente a configurare il diritto alla pensione di reversibilità.
Sempre in tale ottica, ed in riferimento al caso su cui la Suprema Corte si pronuncia, non possono considerarsi sufficienti le conclusioni rassegnate dal coniuge all’esito dell’istruttoria, con la conseguenza che il riferimento all’accordo intervenuto tra le parti all’udienza di comparizione dinanzi al Presidente del Tribunale, contenuto nella motivazione della pronuncia di divorzio, non è ritenuto sufficiente a far sorgere il diritto alla reversibilità: ciò perché il riconoscimento del relativo diritto, dev’essere formulato nella fase contenziosa successiva all’udienza presidenziale, escludendo in siffatta maniera la possibilità di valorizzare, a tal fine, le istanze formulate nel corso dell’ udienza di cui sopra, in quanto esclusivamente correlate ai provvedimenti temporanei ed urgenti. Pertanto per quanto indicato con l’ordinanza n. 25053 del 2017 della Corte di Cassazione Sesta Civile, se l’assegno che corrispondeva il defunto all’ex coniuge era frutto di semplici convenzioni intercorse tra le parti, magari nate anche con la finalità di porre fine alle lungaggini processuali che inevitabilmente una separazione prima ed un divorzio dopo si trascinano inevitabilmente con sé, la reversibilità non spetta.
La pronuncia si colloca all’interno di una discussione giurisprudenziale che si agita ormai da molti anni, soprattutto riguardo a quei casi in cui oggetto di contenzioso sia la ripartizione della pensione di reversibilità tra l’ex coniuge divorziato titolare di assegno e il coniuge superstite del defunto.
Già il richiamato art. 9 della legge 898/1970 ha reso necessario l’intervento del legislatore che, con la norma interpretativa di cui all’art. 5 legge 263/2005, ha statuito definitivamente che per la titolarità dell’assegno deve intendersi l’avvenuto riconoscimento in capo all’ex coniuge divorziato, al momento della morte dell’ex coniuge pensionato e della richiesta della pensione di reversibilità, dell’assegno medesimo da parte del Tribunale.
Ma le diatribe non si sono esaurite, poiché ulteriori contrasti sono sorti in merito alla facoltà, peraltro concessa ai coniugi espressamente dalla legge, di preferire per i motivi più svariati la corresponsione dell’assegno in unica soluzione.
La domanda è quella che si chiede se la corresponsione dell’assegno divorzile in unica soluzione sia in grado di integrare il presupposto della titolarità attuale dell’assegno ex art. 5 ai fini del riconoscimento della pensione di reversibilità a favore dell’ex coniuge divorziato.
E su questo l’ ordinanza n. 11453 del 10 maggio 2017 della Sezione I Civile della Suprema Corte di Cassazione ha posto nuovamente l’attenzione, trattandosi di tema di grande attualità: la pronuncia è intervenuta in merito all’eccezione di legittimità costituzionale degli artt. 5 e 9, Legge n. 898/1970 sollevata dalla ricorrente avverso la sentenza di Corte d’Appello e della sua lettura interpretativa in senso negativo della problematica in questione.
Quale è quindi la natura giuridica del diritto alla pensione di reversibilità alla luce della interpretazione della condizione di legge ai fini dell’ esercizio del diritto in questione, ossia l’essere il richiedente “titolare dell’assegno di cui all’art. 5”?
La Corte aderisce in prima battuta a quanto già statuito dalla Sezione Plenaria (sentenza n. 159/1998), che ha risolutivamente attribuito la qualifica di autonomo diritto avente natura previdenziale al trattamento di reversibilità in favore del coniuge divorziato, diritto che sorge in modo automatico alla morte del coniuge pensionato in forza di un’aspettativa maturata, sempre in via autonoma, nel corso della vita matrimoniale.
Ciò, per quanto confermato nelle successive pronunce, ha però condotto nella giurisprudenza giuslavoristica alla conseguenza dell’insussistenza del diritto quando la corresponsione periodica dell’assegno di divorzio non sia in corso al momento della domanda: posto il prerequisito dell’ attualità della titolarità del diritto all’assegno di divorzio, “la pensione di reversibilità (o una quota di essa) può essere riconosciuta solo nei casi in cui, in sede di regolamentazione dei rapporti economici al momento del divorzio, le parti non abbiano convenuto la corresponsione di un capitale una tantum.” (Cass. Civ. sez. lav. n. 10458/2002).
Stessa conclusione è quella cui è giunta la Sezione Civile I della Corte (sentenza n. 17018/2003), che ha sottolineato come in sede di determinazione dei criteri di quantificazione della quota di pensione di reversibilità spettante al coniuge divorziato in concorso con il coniuge superstite, il diritto in questione si fonda sulla precondizione della corresponsione periodica dell’assegno medesimo.
Anche in merito alla costituzione o trasferimento di un diritto in luogo di un versamento periodico di una somma di denaro e della sua riconducibilità al concetto di titolarità dell’assegno divorzile, la Suprema Corte si è trovata ad affermare difatti che “l’accordo intervenuto tra i coniugi in ordine all’attribuzione dell’usufrutto sulla casa coniugale a titolo di corresponsione dell’assegno di divorzio in un’unica soluzione, è idoneo a configurare la titolarità di detto assegno; ne consegue che tale costituzione di usufrutto soddisfa il requisito della previa titolarità di assegno prescritto dall’art. 5 della legge ai fini dell’accesso alla pensione di reversibilità o, in concorso con il coniuge superstite, alla sua ripartizione.” (Cass. Civ. n. 13108/2010; Cass. Civ. n. 16744/2011).
Il principio affermato da questo orientamento, in sostanza, è quello secondo cui, indiscussa la natura previdenziale e l’autonomia del diritto alla pensione di reversibilità (o ad una quota di essa) in capo al coniuge divorziato, il requisito della titolarità dell’assegno richiesto dalla legge per il suo riconoscimento deve ritenersi soddisfatto tutte le volte in cui vi sia stato un accertamento giudiziale relativo alla sussistenza delle condizioni solidaristico-assistenziali ad esso sottese, restando irrilevante il fatto che sia stato già riconosciuto ed assolto il relativo pagamento in un’unica soluzione.
Giuslavoristicamente, invece, si è mantenuto fermo il convincimento espresso nella sentenza del 2002, sostenendo costantemente che la corresponsione in unica soluzione dell’assegno divorzile su accordo delle parti, e soggetto alla verifica di equità da parte del Tribunale, non rientra nella nozione di assegno che dà titolo alla pensione di reversibilità in forza della sua idoneità a regolare definitivamente i rapporti economici tra gli ex coniugi ed a costituire certo adempimento dell’obbligo di sostentamento del coniuge medesimo, così da escludere, per il futuro, il diritto in favore di quest’ultimo ad ogni erogazione economica (da ult. Cass. Civ. sez. lav. n. 9054/2016).
Permane quindi un netto e- ad oggi- insanabile contrasto giurisprudenziale in ordine al diritto dell’ex coniuge divorziato, titolare di un assegno divorzile corrisposto una tantum, alla pensione di reversibilità, o ad una quota di essa, cui va ad aggiungersi, nella variegata ampiezza dei temi proposti, anche quello trattato dalla recente ordinanza n.25053/2017 Corte di Cassazione Sesta Civile relativo all’accertamento ed alla liquidazione dell’assegno ad opera del Tribunale al termine del giudizio di divorzio.