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Sovraindebitamento: quando si hanno troppi debiti.

Sto con una persona che ha divorziato a giugno di questo anno, quindi due mesi fa. Durante la separazione consensuale all sua ex era stato dato un assegno di 50 euro (poi abbiamo capito perché: la pensione di reversibilità). È successa una cosa gravissima. Il suo ex marito non poteva più pagare le rate del mutuo che gravavano solo su di lui e le ha detto di pensarci per un po’ o di vendere la casa (lei lavora a nero full time e ha 50 anni ma il suo lavoro di sarta con riconoscimento e ben 6 attestati di scuole di moda e design le permetterebbero di fare molto di più ma nn vuole per ovvi motivi). Lei cosa fa? In fase di divorzio giudiziale le tolgono i 50 euro ma nn si pronunciano sul mutuo con la conseguenza che lei gli fa bloccare 1150 euro di stipendio su 1350. Aveva ed ha ancora 437 euro da pagare x una finanziaria. Doveva mangiare, pagarsi un’affitto. Insomma, inizia la depressione, l’ansia…prende malattie, ansiolitici…il suo lavoro è a rischio e ha 58 anni. È gravissimo. Non viene tutelato dal suo avvocato anzi, non si oppone al decreto e optano per un accordo, da strozzini. 250 euro al figlio maggiorenne (che aveva sempre pagato) 100 euro a lei e un quinto dello stipendio x gli arretrati. Morale? Se aggiungiamo i debiti non gli bastano neanche. HA FIRMATO PER PAURA di non poter più pagare i debiti con la findomestic, diceva che preferiva nn mangiare (ancora nn viviamo insieme ma è come se lo fosse). La mia famiglia lo aiutava. Insomma. C’e Un modo per impugnare quest’accordo fatto ovviamente sotto ricatto? Lei non ha bisogno del mantenimento, vive alla grande. Macchina, casa, vizi, e lui in miseria. In più lui deve restituire 40 mila euro a tanta gente anche ai miei perché ultimamente gli abbiamo acquistato un’auto di seconda mano perché viaggiava con i mezzi visto che nn poteva più permettersela!!! Quindi ha anche i costi dell’assicirazione, tutto avvenuto dopo la firma. Possiamo agire in qualche modo?

È un situazione molto complicata, formatasi nel corso del tempo e ora gli spazi di manovra sono piuttosto ridotti.

La prima cosa da fare sarebbe esaminare l’accordo che è stato sottoscritto a suo tempo, nell’impossibilità, in questa sede, di farlo, posso fare solo alcune osservazioni generali.

La transazione non si può ovviamente impugnare per «ingiustizia», né sostenendo genericamente di averla sottoscritta per paura, specialmente se parliamo di un uomo «adulto e vaccinato». Naturalmente, non discuto che ciò sia quello che è avvenuto nella realtà, quello che bisogna capire è che se ammettessimo che tutti potessero firmare contratti e poi elegantemente sottrarvisi, sostenendo di aver firmato solamente «per paura» o in preda ad altre emozioni poco piacevoli, tanto varrebbe non fare più nessun contratto, perché ogni contratto non avrebbe più valore vincolante.

Insomma, quando si raggiunge un accordo e si firma, suggellandola, una transazione, bisogna pensarci bene, perché è un contratto legalmente vincolate, di fronte al quale ci sono davvero pochi margini di manovra. È vero che in alcuni casi molto circoscritti le transazioni possono essere impugnate, ma non mi sembra questo essere il vostro caso.

Al di là dell’accordo, peraltro, mi pare che ci sia stata una gestione finanziaria inadeguata per molti anni e in diverse occasioni.

Quando una persona si trova in situazioni del genere, lo strumento che si consiglia di valutare solitamente è quello della composizione della crisi da sovraindebitamento, una specie di «fallimento privato», mutuato dall’esperienza statunitense della bankrupcy (hai mai visto la scena finale del film «A civil action» con John Travolta? In quel caso è lui, un avvocato, a finire in bancarotta), in cui il debitore mette sul piatto tutto quello che ha o può avere e si cerca di raggiungere, eventualmente con l’intervento di un giudice, un accordo coi creditori, che dovranno accettare di essere soddisfatti solo in parte e, magari, col tempo.

Questo strumento naturalmente non fa miracoli, rappresenta un istituto con il quale si interviene per gestire una situazione di insolvenza, di grave difficoltà, cercando di mettere in fila tutte le cose, per quanto possibile, che già non sarebbe poco.

È importante capire che tutto quello che è avvenuto a questo uomo, per quanto ingiusto e portatore di conseguenze negative e persino inique per lui, è perfettamente legittimo. Il debito con la finanziaria l’ha contratto lui, il mutuo l’ha contratto lui, dall’altra parte ci sono dei creditori che hanno diritto di essere pagati. Quindi, in linea generale, il diritto non vi assiste, non vi può aiutare.

L’unico modo in cui può venirvi incontro, in cui ci può essere un aiuto, è tramite l’attivazione di una di queste procedure di sovraindebitamento, una volta che ne saranno stati accertati i presupposti.

Per avere maggiori informazioni sul sovraindebitamento, puoi leggere innanzitutto la scheda apposita e dedicata. Poi se vuoi un preventivo per la valutazione di fattibilità, puoi chiedercelo compilando il modulo apposito nel menu principale del blog. Ti raccomando, con l’occasione, di iscriverti alla newsletter del blog, o, se non ti piace la mail, al gruppo Telegram, in modo da non perderti importanti e utili aggiornamenti quotidiani, anche per evitare problemi del genere in futuro.

Per quanto riguarda invece i problemi personali di ansia, depressione e simili, fate attenzione a non agganciare mai in assoluto e per non nessun motivo il vostro stato emotivo all’andamento di pratiche legali o giudiziarie, perché questo si tradurrebbe sicuramente in una tragedia per voi. È bene che quest’uomo lavori con uno psicologo o un counselor su questi problemi, se non dispone di risorse per compensarli può rivolgersi al servizio pubblico. Anche qui non sto parlando di ciò che è giusto, ma di ciò che sicuramente conviene fare.

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Reversibilità e assegno di divorzio: occorre liquidazione?

Il tema è di quelli caldi, non lo si può negare.

E così la Cassazione aggiunge un elemento destinato a far parlare di sé e ad alimentare contenziosi che, per loro stessa natura, sono già incandescenti.

Stiamo parlando della pensione di reversibilità per il coniuge (ormai ex) divorziato.

L’articolo 9 comma 2 della legge 898/1970 riconosce infatti l’attribuzione della pensione di reversibilità al coniuge superstite divorziato come  diritto, specificando espressamente che esso è condizionato alla circostanza che il superstite sia titolare dell’assegno di mantenimento da parte dell’ex coniuge venuto a mancare e che, naturalmente, non sia passato a nuove nozze.

Nella pronuncia di cui sopra, la Cassazione nel richiamare l’art. 9, sottolinea anche come tale diritto postuli “l’avvenuto riconoscimento dell’assegno medesimo da parte del tribunale, con la conseguenza che, ai fini del riconoscimento del predetto diritto, non è sufficiente la mera debenza in astratto di un assegno di divorzio, e neppure la percezione in concreto di un assegno di mantenimento in base a convenzioni intercorse tra le parti, occorrendo invece che l’assegno sia stato liquidato dal giudice nel giudizio di divorzio ai sensi dell’art. 5 cit., ovvero successivamente, quando si verifichino le condizioni per la sua attribuzione ai sensi dell’art. 9 cit.”

La Cassazione, con la recente ordinanza n.25053/2017 Corte di Cassazione Sesta Civile pubblicata il 23.10.2017,  quindi ha voluto aggiungere e specificare che ai fini del riconoscimento del diritto alla pensione di reversibilità deve ricorrere il requisito che tale assegno sia stato riconosciuto- e quindi liquidato- dal giudice al termine del giudizio di divorzio, escludendo in tal modo che l’essere tenuti in astratto alla corresponsione di tale assegno di divorzio, così come il fatto di percepirlo materialmente sulla base di convenzioni ed accordi intercorsi tra le parti, non sia condizione sufficiente a configurare il diritto alla pensione di reversibilità.

Sempre in tale ottica, ed in riferimento al caso su cui la Suprema Corte si pronuncia, non possono considerarsi sufficienti le conclusioni rassegnate dal coniuge all’esito dell’istruttoria, con la conseguenza che il riferimento all’accordo intervenuto tra le parti all’udienza di comparizione dinanzi al Presidente del Tribunale, contenuto nella motivazione della pronuncia di divorzio, non è ritenuto sufficiente a far sorgere il diritto alla reversibilità: ciò perché il riconoscimento del relativo diritto, dev’essere formulato nella fase contenziosa successiva all’udienza presidenziale, escludendo in siffatta maniera la possibilità di valorizzare, a tal fine, le istanze formulate nel corso dell’ udienza di cui sopra, in quanto esclusivamente correlate ai provvedimenti temporanei ed urgenti. Pertanto per quanto indicato con l’ordinanza n. 25053 del 2017 della Corte di Cassazione Sesta Civile, se l’assegno che corrispondeva il defunto all’ex coniuge era frutto di semplici convenzioni intercorse tra le parti, magari nate anche con la finalità di porre fine alle lungaggini processuali che inevitabilmente una separazione prima ed un divorzio dopo si trascinano inevitabilmente con sé,  la reversibilità non spetta.

La pronuncia si colloca all’interno di una discussione giurisprudenziale che si agita ormai da molti anni, soprattutto riguardo a quei casi in cui oggetto di contenzioso sia la ripartizione della pensione di reversibilità tra l’ex coniuge divorziato titolare di assegno e il coniuge superstite del defunto.

Già il richiamato art. 9 della legge 898/1970 ha reso necessario l’intervento del legislatore che, con la norma interpretativa di cui all’art. 5 legge 263/2005, ha statuito definitivamente che per la titolarità dell’assegno deve intendersi l’avvenuto riconoscimento in capo all’ex coniuge divorziato, al momento della morte dell’ex coniuge pensionato e della richiesta della pensione di reversibilità, dell’assegno medesimo da parte del Tribunale.

Ma le diatribe non si sono esaurite, poiché ulteriori contrasti sono sorti in merito alla facoltà, peraltro concessa ai coniugi espressamente dalla legge, di preferire per i motivi più svariati la corresponsione dell’assegno in unica soluzione.

La domanda è quella che si chiede se la corresponsione dell’assegno divorzile in unica soluzione sia in grado di integrare il presupposto della titolarità attuale dell’assegno ex art. 5 ai fini del riconoscimento della pensione di reversibilità a favore dell’ex coniuge divorziato.

E su questo l’ ordinanza n. 11453 del 10 maggio 2017 della Sezione I Civile della Suprema Corte di Cassazione ha posto nuovamente l’attenzione, trattandosi di tema di grande attualità: la pronuncia è intervenuta in merito all’eccezione di legittimità costituzionale degli artt. 5 e 9, Legge n. 898/1970 sollevata dalla ricorrente avverso la sentenza di Corte d’Appello e della sua lettura interpretativa in senso negativo della problematica in questione.

Quale è quindi la  natura giuridica del diritto alla pensione di reversibilità alla luce della interpretazione della condizione di legge ai fini dell’ esercizio del diritto in questione, ossia l’essere il richiedente “titolare dell’assegno di cui all’art. 5”?

La Corte aderisce in prima battuta a quanto già statuito dalla Sezione Plenaria (sentenza n. 159/1998), che ha risolutivamente attribuito la qualifica di autonomo diritto avente natura previdenziale al trattamento di reversibilità in favore del coniuge divorziato, diritto che sorge in modo automatico alla morte del coniuge pensionato in forza di un’aspettativa maturata, sempre in via autonoma, nel corso della vita matrimoniale.

Ciò, per quanto confermato nelle successive pronunce, ha però condotto nella giurisprudenza giuslavoristica alla conseguenza dell’insussistenza del diritto quando la corresponsione periodica dell’assegno di divorzio non sia in corso al momento della domanda: posto il prerequisito dell’ attualità della titolarità del diritto all’assegno di divorzio, “la pensione di reversibilità (o una  quota di essa) può essere riconosciuta solo nei casi in cui, in sede di regolamentazione dei rapporti economici al momento del divorzio, le parti non abbiano convenuto la corresponsione di un capitale una tantum.” (Cass. Civ. sez. lav. n. 10458/2002).

Stessa conclusione è quella cui è giunta la Sezione Civile I della Corte (sentenza n. 17018/2003), che ha sottolineato come in sede di determinazione dei criteri di quantificazione della quota di pensione di reversibilità spettante al coniuge divorziato in concorso con il coniuge superstite,  il diritto in questione si fonda sulla precondizione della corresponsione periodica dell’assegno medesimo.

Anche in merito alla costituzione o trasferimento di un diritto in luogo di un versamento periodico di una somma di denaro e della sua riconducibilità al concetto di titolarità dell’assegno divorzile,  la Suprema Corte si è trovata ad affermare difatti che  “l’accordo intervenuto tra i coniugi in ordine all’attribuzione dell’usufrutto sulla casa coniugale a titolo di corresponsione dell’assegno di divorzio in un’unica soluzione, è idoneo a configurare la titolarità di detto assegno; ne consegue che tale costituzione di usufrutto soddisfa il requisito della previa titolarità di assegno prescritto dall’art. 5 della legge ai fini dell’accesso alla pensione di reversibilità o, in concorso con il coniuge superstite, alla sua ripartizione.” (Cass. Civ. n. 13108/2010; Cass. Civ. n. 16744/2011).

Il principio affermato da questo orientamento, in sostanza, è quello secondo cui, indiscussa la natura previdenziale e l’autonomia del diritto alla pensione di reversibilità (o ad una quota di essa) in capo al coniuge divorziato, il requisito della titolarità dell’assegno richiesto dalla legge per il suo riconoscimento deve ritenersi soddisfatto tutte le volte in cui vi sia stato un accertamento giudiziale relativo alla sussistenza delle condizioni solidaristico-assistenziali ad esso sottese, restando irrilevante il fatto che sia stato già riconosciuto ed assolto il relativo pagamento in un’unica soluzione.

Giuslavoristicamente, invece, si è mantenuto fermo il convincimento espresso nella sentenza del 2002, sostenendo costantemente che la corresponsione in unica soluzione dell’assegno divorzile su accordo delle parti, e soggetto alla verifica di equità da parte del Tribunale, non rientra nella nozione di assegno che dà titolo alla pensione di reversibilità in forza della sua idoneità a regolare definitivamente i rapporti economici tra gli ex coniugi ed a costituire certo adempimento dell’obbligo di sostentamento del coniuge medesimo, così da escludere, per il futuro, il diritto in favore di quest’ultimo ad ogni erogazione economica (da ult. Cass. Civ. sez. lav. n. 9054/2016).

Permane quindi un netto e- ad oggi- insanabile contrasto giurisprudenziale in ordine al diritto dell’ex coniuge divorziato, titolare di un assegno divorzile corrisposto una tantum, alla pensione di reversibilità, o ad una quota di essa, cui va ad aggiungersi, nella variegata ampiezza dei temi proposti, anche quello trattato dalla recente ordinanza n.25053/2017 Corte di Cassazione Sesta Civile relativo all’accertamento ed alla liquidazione dell’assegno ad opera del Tribunale al termine del giudizio di divorzio.

 

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Mantenimento simbolico per la reversibilità e TFR: glielo daranno?

Mia moglie, ATA scolastico con 1300 € mensili, da consensuale poi ritirata ha avuto la totalità dei risparmi, circa 30 mila €, vive nella casa di proprietà comune completamente pagata con la nostra figlia universitaria di 25 anni per cui verso (alla madre) 250 €. L’altro ns figlio di 28 anni vive all’estero lavorando non ancora ufficialmente e per cui verso altri 250 € (sempre alla madre) come da decisone del presidente della prima udienza che ha anche disposto di non dare nulla alla madre. Ora siamo alla giudiziale e mia moglie vuole il mantenimento, anche “simbolico”, pur di poter aver poi almeno il 40 % del mio TFR, militare con stipendio di 1900 ed a 4 anni circa dalla pensione. Posso sperare di evitarmi questa beffa?

Ovviamente, non posso né sapere né prevedere che cosa deciderà il giudice al termine del procedimento, specialmente senza vedere il fascicolo e solo sulla base di una sommaria descrizione della situazione.

Questi mantenimenti «simbolici» di solito si fanno nelle soluzioni consensuali: si mette una cifra molto bassa, che poi magari non viene nemmeno pagata, per acconsentire, ovviamente dopo apposita negoziazione sul punto, all’altro coniuge di godere dei benefici collegati alla percezione di un mantenimento dopo la separazione o il divorzio, tra cui segnatamente la pensione di reversibilità.

Se in sede d’urgenza il presidente non ha riconosciuto nulla, è difficile che la cosa torni a fare capolino in sede di merito, ma non è detto.

Per il resto, bisognerebbe vedere come è stata motivata la richiesta.

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Cosa si può fare se un’eredità è gravata da pesanti passività?

Mio suocero è deceduto, e aveva diversi debiti “bolli auto, multe,cartelle equitalia….” mi chiedo, deve pagare mia suocera con le figlie? Premetto che mio suocero non possedeva niente, tranne delle auto che abbiamo rottamato dopo la morte. La casa è di proprietà mia suocera. Si può fare la rinuncia all’eredità anche se mia suocera ha fatto domanda presso un CAF per la reversibilità della pensione del marito? Oppure facendo questo è come se accettasse l’eredità? Premetto che la pensione di mia suocera è di circa 600 Euro mensili, e la reversibilità della pensione di mio suocero è circa 360 Euro mensili. Altra cosa, mio suocero era in possesso di fucili da caccia, posso io intestarmeli essendo possessore di porto d’armi senza che la cosa influisca negativamente sul problema dell’eredità? Grazie anticipatamente per la vostra risposta.

Se non rinunciano all’eredità, devono pagare loro.

La pensione di reversibilità non ha niente a che fare con l’accettazione o meno, piuttosto il problema può essere l’avvenuta rottamazione delle auto, che, in quanto configurante altrettanti atti dispositivi dei beni ereditari, potrebbe configurare una forma di accettazione tacita.

Vi consiglierei di rivolgervi ad un avvocato per una consulenza prima possibile, cercando nel frattempo di astenervi da qualsiasi atto di disposizione dei beni ereditari.

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se la compagna di un figlio si sposa con il padre per averne l’eredità

Alla morte dell’anziano padre i figli scoprono che è legalmente sposato con la compagna di uno dei figli stessi e che hanno registrato il figlio della coppia a nome del nonno (oggi ha 4 anni). Il matrimonio è stato legalmente celebrato in Marocco e trascritto in Italia. La donna viveva con il figlio del defunto in altro paese e hanno avuto un bambino che lei, in quanto moglie, ha registrato come figlio del nonno. La donna ora vive con il compagno e il figlio nella casa “coniugale”, gode di pensione di reversibilità e di ogni bene del defunto a scapito di altri 3 figli reali. Esistono reati? C’è modo di procedere denunciando la truffa all’inps? Il tribunale dei minori può indagare obbligando il vero padre (compagno della “vedova” e figlio del defunto) a fare un test del DNA? Come si può reclamare l’eredità spettante? La donna e il fratello non vogliono dare nulla e stanno dissipando ogni bene e non si conosce quanto facente parte dell’eredità. Il decesso risale a 2 anni fa.

L’INPS sino a che il matrimonio non viene dichiarato nullo non può fare niente, perchè appunto sino a che un matrimonio non viene annullato si considera valido. Per il resto, non credo che i figli possano riuscire a impugnare la validità del matrimonio. Il caso è quello del matrimonio simulato, previsto dall’art. 123 del codice civile, dove l’impugnazione è consentita solo ai coniugi e rimane comunque preclusa trascorso un anno dalla celebrazione, o comunque nei casi in cui ci sia stata convivenza dopo la celebrazione. Questa azione non si trasmette agli eredi, in base alla previsione di cui all’art. 127 cod. civ..

Sotto un altro profilo, il tribunale dei minori non può fare niente d’ufficio, dovrebbero essere i genitori a chiedere la contestazione della legittimità con riferimento allo stato attuale e la dichiarazione giudiziale di paternità in riferimento al padre biologico.

Per sapere cosa fa parte dell’eredità si potrebbe presentare un ricorso per inventario, ma la vedo molto grigia circa la possibilità di dimostrare la simulazione ottenendo al contempo che ciò produca effetti concreti.

Purtroppo le disposizioni in materia parlano chiaro, rimane un senso di ingiustizia di fondo, anche se è vero che il matrimonio rimane comunque frutto di un atto volontario del genitore scomparso (discorso diverso ovviamente se fosse stato in stato di incapacità di intendere e di volere): è chiaro che così facendo il «nonno» ha di fatto aggirato le disposizioni in materia di successione necessaria, però è anche vero che una persona in vita può disporre come crede del suo patrimonio, può anche regalarlo ad un terzo, mentre i possibili eredi hanno solo una situazione di aspettativa nei confronti della eventuale e futura eredità, finchè non si è ancora aperta. A parte questo, rimane il profilo, che è diverso, del danno all’erario, per il pagamento di una pensione di reversibilità in realtà non dovuta: sotto questo aspetto, l’ente previdenziale dovrebbe poter avere, almeno ai limitati fini pensionistici, la capacità di impugnare; ma il diritto positivo non lo prevede.

Forse, studiando molto bene la situazione, si potrebbe valutare di fare una causa sollevando la questione di legittimità costituzionale di una o più delle disposizioni in materia (direi segnatamente l’art. 123 nella parte in cui non consente l’impugnazione ai figli), ma si tratta di spiragli davvero molto stretti e da valutare con estrema attenzione.