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Per un «mi piace» su facebook si può essere condannati?

Il like su social network (facebook, Linkedin, Twitter ecc ecc) è utilizzabile come prova per una denuncia per diffamazione?
In parole povere, posso essere denunciato semplicemente apponendo un like ad un contenuto ritenuto diffamatorio?
Io lavoro nel web e passo moltissime ore al giorno comunicando con gli altri attraverso la rete, spesso mi è capitato di vedere like messi a pagine che nemmeno conoscevo, evidentemente per errore. Onestamente inizio ad avere il terrore di incappare in problemi nel caso in cui commettessi qualche reato.
Insomma il sunto è questo: posso essere denunciato per un like?

È un problema molto interessante, che peraltro presenta molteplici aspetti, due dei quali affronteremo in questo post.

Innanzitutto, pensiamo all’ipotesi del semplice «mi piace» o «like» messo ad un post di un social network, così come alla «condivisione», ai commenti di adesione, endorsement e così via.

Bisogna partire dal punto che, tendenzialmente, un mi piace o una condivisione, se non accompagnata, in questo secondo caso, da una nota di commento in senso contrario, può rappresentare una adesione, tanto quanto quella che si sarebbe espressa con un linguaggio verbale di chi dicesse ad esempio «concordo».

È pur vero che a volte si può mettere «mi piace» ad un testo non perché lo si condivide ma perché è talmente assurdo che suscita ilarità, purtroppo tuttavia i limiti di questo mezzo di espressione non consentono di distinguere sfumature di questo genere e il rischio che un atto di questo tipo appaia come condivisione in senso sostanziale è concreto, per non dire del fatto che comunque può accrescere il risentimento e di conseguenza anche il danno subito dalla persona offesa.

In Svizzera è già accaduto ad esempio che un uomo venisse condannato per un semplice «mi piace», come riportato ad esempio anche qui.

È appena il caso di specificare che la condivisione, nel momento in cui il testo condiviso contiene espressioni ingiuriose o diffamatorie o rappresenta il mezzo per l’avvenuta commissione di altri reati, è ancora più grave del mi piace, può determinare (come nel caso della diffamazione) un aggravamento del danno subito dalla persona offesa, dal momento che del testo in questione vengono a conoscenza ancora più persone, o la reiterazione stessa del reato o il concorso nel medesimo.

Ciò detto, un secondo aspetto, ancora più inquietante, è legato allo stesso modo di funzionamento dei social network.

Prendiamo, per esempio, facebook. Se io scrivo un post dove metto «Voglio rendere omaggio a Tizio, perché è una brava persona», i miei «amici» possono mettere «mi piace». Dopo che 40 persone hanno messo il loro mi piace, io vado ad editare (modificare) il post e ci scrivo tutto al contrario «Desidero che tutti voi sappiate che Tizio è un ladro e un truffatore».

Gli utenti che hanno messo «mi piace» non ricevono alcuna notifica del nuovo testo. Il punto è che la possibilità di editare un post è stata prevista, più che altro, per rimediare ad errori di battitura. Finché facebook dunque non interverrà prevedendo almeno che in caso di modifiche contenutistiche venga «notificato» a tutti quelli che si sono «connessi» a quel post con commenti o semplici «Mi piace», ognuno di quegli utenti sarà potenzialmente a rischio.

Concludo dicendo che in generale bisogna essere molto prudenti sui social network, le vertenze e i problemi legali fioccano, quindi è proprio il caso di dire che bisogna fare rete responsabilmente, anche perché tutto rimane per iscritto e ciò «inchioda» tutti ai propri comportamenti.

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Vittime e persone offese da reati: più tutele col D. Lgs. 212/2015.

Maggiori tutele per le persone offese o vittime di reato.

Con il D.Lgs. 15 dicembre 2015 n. 212 – pubblicato sulla G.U. n. 3 del 5 gennaio 2016 – l’Italia risponde alle sollecitazioni europee dando attuazione alla direttiva 2012/29/UE, recante norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato.

L’entrata in vigore del suddetto provvedimento può, certamente, considerarsi un progresso nel sistema di tutele assicurato dall’ordinamento nazionale alla persona offesa dal reato, in quanto introduce a favore della stessa maggiori garanzie in relazione alle dinamiche processuali.

La definizione di «vittima».

Al fine di comprendere esattamente a chi si rivolge la riforma, appare doveroso delineare il significato europeo della parola “vittima”, recepito nell’ordinamento interno.

Il termine citato si riferisce alla persona che abbia direttamente subito un danno (sia esso fisico, mentale, emotivo o economico) dal compimento di un reato, ovvero – nel caso questa sia deceduta a causa dell’illecito – i suoi familiari. Si considera familiare il coniuge, la persona che convive con la vittima in una relazione intima, nello stesso nucleo familiare e in modo stabile e continuo; i parenti in linea retta, i fratelli e le sorelle; le persone a carico della vittima comprese le persone con essa conviventi in situazioni affettive stabili e continue.

La vittima può essere maggiorenne o minorenne. Di particolare interesse appare, sin d’ora, la disposizione che consente al giudice, nell’ipotesi in cui sorga dubbio sull’età della persona offesa, di disporre l’apposito accertamento, anche d’ufficio. Laddove il dubbio persista – ai fini dell’applicazione delle disposizioni processuali – si presume la minore età.

Le garanzie e le definizioni sopra menzionate hanno determinato la conseguente modifica, nello stesso senso, delle disposizioni del codice di rito.

Il D.Lgs. 15 dicembre 2015 n. 212, di attuazione della normativa europea, predispone specifiche garanzie a tutela della persona offesa cui è riconosciuto un particolare stato di vulnerabilità. Tale vittima, infatti, necessita di una maggiore protezione relativamente alle interferenze esterne ed ai contatti con l’autore del reato.

A salvaguardia della persona offesa particolarmente vulnerabile vengono, dunque, apportate modifiche alle modalità di documentazione, alla disciplina della prova testimoniale, all’assunzione di sommarie informazioni da parte della polizia giudiziaria, all’assunzione di informazioni da parte del pubblico ministero, all’incidente probatorio e all’esame.

Il legislatore ha elaborato determinati indici-criteri da cui potere desumere la condizione di particolare vulnerabilità. Quest’ultima si ricava, ai sensi dell’art. 90-quater c.p.p., dall’età della persona offesa, dallo stato di infermità o di deficienza psichica, dal tipo di reato, dalle modalità e dalle circostanze del fatto per cui si procede. In relazione alla condotta criminosa perpetrata, si tiene conto, altresì, dell’uso della violenza alla persona, del movente dell’odio razziale, della riconducibilità del fatto ad ambiti di criminalità organizzata o di terrorismo o di tratta degli esseri umani, della finalità discriminatoria, della dipendenza della persona offesa (sia essa affettiva, psicologica o economica) dall’autore del reato.

L’accertamento dello status di vittima particolarmente vulnerabile verte, pertanto, sull’analisi delle caratteristiche della persona e del caso concreto, assicurando un adeguato standard di tutela strettamente correlato alle peculiari esigenze di protezione.

Le specifiche misure di tutela.

In ordine all’informazione e alla partecipazione della vittima al processo, il decreto attuativo 15 dicembre 2015 n. 212, interviene direttamente su istituti già esistenti, ampliandone l’operatività.

In primo luogo viene sancito l’obbligo di fornire alla persona offesa –  sin dal primo contatto con l’autorità procedente ed in una lingua a lei comprensibile – una serie di informazioni inerenti ai servizi assistenziali offerti, alle facoltà e ai diritti di cui può avvalersi, al decorso del procedimento (compresa la possibilità che quest’ultimo sia definito con remissione di querela o attraverso la mediazione, ove possibile).

In secondo luogo, nei processi relativi a delitti perpetrati con violenza alla persona, la vittima può richiedere la comunicazione dei provvedimenti di scarcerazione e di cessazione della misura di sicurezza detentiva, e viene resa edotta dell’evasione dell’imputato in stato di custodia cautelare o del condannato, nonché della volontaria sottrazione dell’internato all’esecuzione della misura di sicurezza detentiva. Eccezionalmente le comunicazioni anzidette potranno essere omesse nel caso in cui sussista il pericolo concreto di un danno per l’autore del reato.

Infine, il provvedimento inserisce nel codice di rito disposizioni relative all’assistenza linguistica, in base alle quali alla persona offesa devono essere garantiti servizi gratuiti di interpretariato e di traduzione degli atti essenziali all’esercizio delle proprie facoltà. L’assistenza dell’interprete può avvenire anche mediante l’utilizzo delle tecnologie di comunicazione a distanza, ma soltanto nell’ipotesi in cui ciò non comprometta il corretto esercizio dei diritti della vittima.

La persona offesa potrà, pertanto, giovarsi delle molteplici nuove tutele apprestate dal legislatore.

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Marito troppo geloso: oltre a poter chiedere la separazione, è reato?

Sono sposata con un uomo molto geloso, che mi controlla a lavoro e quando esco. Ho persino scoperto che mi segue e un giorno ha persino menato il mio datore di lavoro e me perchè pensa che ho avuto una relazione con questa persona. A quel punto sono andata via da casa. Ma lui ancora continua a seguirmi e mi offende per la strada, davanti alle persone. Cosa posso fare?

La vita con un uomo troppo geloso è insostenibile ed umiliante, ma spesso è difficile avere testimoni che possano aiutare a ricostruire il quadro della situazione.

Innanzitutto bisogna pensare ad allontanarsi da questa persona. Il primo passo è la separazione.

Sicuramente non finisce così, il marito geloso continuerà con insulti, pedinamenti e altri atteggiamenti, a quel punto cosa fare?

Nel caso dei pedinamenti, questo comportamento costituisce un illecito sia sotto il profilo civile che penale. Bisogna agire su più fronti: sotto l’aspetto civile, può richiedere la separazione con addebito, cioè che gli venga attribuita la colpa per la fine del matrimonio, così il marito perde così il diritto al mantenimento.

Sotto il profilo penale, occorre una denuncia.

Ricostruire quello che è successo, e chiedere la condanna per gli eventuali reati posti in essere, per esempio i maltrattamenti quando il coniuge troppo geloso arriva a pedinare l’altro, ad episodi di violenza e ad insultarlo pesantemente.

La gelosia non è una giustificazione e la legge sul punto parla chiaro.

In casi come questi i giudici hanno condannato il colpevole anche a 8 mesi di reclusione per i maltrattamenti inferti alla consorte.