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riflessioni

Gli abusi di facebook.

Sono tornato attivo ieri su quel social dopo sei giorni di sospensione per motivi demenziali, un mio post assolutamente innocente é stato considerato incitamento all’odio dall’algoritmo.

In passato ho già subito provvedimenti del tutto senza senso del genere, stavolta tuttavia ho deciso di aprire una vertenza nei confronti di Facebook Ireland, società responsabile della piattaforma per il nostro paese.

Siamo arrivati su queste piattaforme social un po’ tutti per gioco, in seguito tuttavia hanno assunto importanza notevole per noi e per tutti i soggetti che sono in relazione con noi, sia per motivi personali che professionali, comportando un canale di occasioni di lavoro di rilievo specialmente per noi professionisti e autonomi.

La cosa davvero inammissibile é rimanere vittima di interventi di moderazione di questo genere senza la possibilità di richiede l’intervento di un umano: non esiste alcuna possibilità di ricorso.

Così l’utente, la sua vita di relazione e quella professionale vengono lasciate completamente in balia di macchine stupide programmate da umani ancora più cretini.

Come ho spiegato nei giorni scorsi sul blog, non è affatto impossibile mettere il sale sulla coda a facebook. Le cose sono cambiate e ci sono già le prime sentenze, i primi provvedimenti favorevoli agli utenti.

Per questi motivi ho deciso, in collaborazione con il mio collega Michele Peri, di aprire una vertenza, vedremo come andrà e se andrà come spero potrà essere qualcosa che apre più di una speranza per tutti coloro che sono danneggiati dagli abusi dell’algoritmo di facebook e altri reti sociali.

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diritto

Coronavirus: udienze a trattazione scritta.

Le udienze civili dei procedimenti pendenti che si dovrebbero tenere con la presenza delle parti in questo periodo sono in corso di conversione, da parte dei magistrati titolari, in «udienze a trattazione scritta».

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La legislazione emergenziale sull’epidemia da coronavirus, infatti, ha previsto questo sistema per poter consentire di celebrare ugualmente le udienze nonostante l’obbligo di tenere chiuso il tribunale ed evitare la comparizione delle parti. Ovviamente solo per quelle udienze per cui non è prevista la comparizione delle parti personalmente, cioè i diritti interessati, ma è prevista solo quella degli avvocati.

Scrivo a riguardo qualche nota illustrativa, anche perché sto ripetendo le stesse cose a tutti i clienti dello studio cui stanno capitando queste «conversioni» alla trattazione scritta e può quindi essere utile avere come al solito un testo unico consultabile da tutti, oltre che, come pure avviene ormai da molti anni, utilizzabile anche dai colleghi.

Come funzionano le udienze a trattazione scritta?

È intanto, bisogna dirlo subito, un bisticcio linguistico  forse avrebbero potuto trovare un’altra formula per denominarle, perché udienza, per definizione, è qualcosa che si svolge alla presenza delle parti e del giudice, mentre qui non c’è proprio nessuna udienza, c’è solo una trattazione scritta, anche se è vero, che, legislativamente, è paragonata all’udienza, in virtù dell’emergenza.

Assodato che nessuno compare da nessuna parte, nessuno va nemmeno in giro, perché i depositi che ci sono da fare sono tutti telematici, come funziona dunque questa trattazione?

Il giudice fa un provvedimento che fissa la data della nuova «udienza» o meglio «non udienza». Più che una data di udienza, dunque, sembra essere un termine, anche se non è vincolante per il magistrato che si riserva di decidere anche in seguito, come peraltro avviene nelle udienze tradizionali, come ho spiegato anni fa in questo post.

Oltre a fissare la data della «udienza a trattazione scritta», il giudice fissa anche un termine, di solito di circa una settimana o due prima, entro il quale le parti devono fare quelle richieste che avrebbero fatto all’udienza con un «foglio», che poi in realtà è un file, di solito un documento di Word per capirci, che poi viene depositato telematicamente tramite appunto il processo civile telematico.

In alcuni provvedimenti che mi è capitato di leggere, il giudice invita anche ciascun avvocato, nel momento in cui fa il deposito, a mandarne una copia via pec ai colleghi avversari costituiti. Mi sembra opportuno seguire questo invito, anche per sopperire con un po’ di correttezza tra di noi a eventuali malfunzionamenti o ritardi delle pec – che, peraltro, non sono nemmeno dovute e venivano mandate solo per cortesia – che in questo periodo sono tutt’altro che improbabili.

Anche questi termini per i depositi anteriori all’«udienza» sono di incerta definizione e di discutibile portata, in un altro provvedimento mi è capitato ad esempio di vedere assegnato un termine per «eventuale rinuncia agli atti del giudizio in caso di accordo», ma è assolutamente certo che la rinuncia agli atti del giudizio si possa fare in qualunque stato e grado e di sicuro anche dopo l’eventuale scadenza del termine – diciamo che in questo caso è il giudice che chiede agli avvocati la cortesia di avvertirlo per tempo nel caso di raggiunta transazione, ma non è per certo un termine in senso stretto.

Come ho già scritto qualche post addietro, sempre a proposito della situazione attuale di epidemia da coronavirus e soprattutto lockdown, i signori assistiti degli studi professionali, e anche i professionisti stessi, devono cercare di avere molta pazienza… Purtroppo, si naviga molto a vista. Le stesse udienze a trattazione scritta sono previste da decreti legge che potrebbero cadere o essere modificati, anche significativamente, in sede di conversione. Da un giorno all’altro esce o può uscire un nuovo provvedimento normativo destinato a cambiare il quadro o la cornice normativa del processo, almeno in questo periodo.

Da parte nostra, come avvocati, noto che c’è una estrema attenzione e una grande cura nel seguire la legislazione in materia e nel cercare di capire come è meglio operare, quindi mi sento di dire che questa sia una prova che la classe forense italiana stia superando dando, per una volta, prova di grande serietà, competenza, efficienza e dedizione e questo mi rasserena e mi conforta davvero molto.

Se sei un cliente, dunque, segui le indicazioni del tuo avvocato con fiducia, alla luce delle illustrazioni che ti ho fornito sopra, tenendo presente che la situazione è difficile ma che i rimedi ci sono e le cose in qualche modo le cose dovrebbero andare avanti.

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diritto

Moglie si inventa violenza e ottiene la casa: che fare?

mia moglie è andata via di casa con mio figlio 13enne,si è inventata tramite un centro antiviolenza, violenza psicologica, in prima istanza ma ancora senza notifica il giudice ha deciso che dovrei lasciargli la casa con mutuo cointestato entro fine settembre, e 350 euro al mese.Come è possibile che una che si inventa una cosa del genere non rischi nulla anzi viene premiata con l’assegnazione della casa, tra l’altro guadagna più di me e si può permettere un affitto,e il marito debba solo subire, e lottare per il figlio completamente manipolato da lei

Se ho capito bene, hai «subito» una separazione giudiziale, c’è già stata l’udienza presidenziale e il presidente ha assegnato la casa familiare a tua moglie, prevedendo il pagamento di un mantenimento di 350€ al mese, non si capisce se a favore di tua moglie o per tuo figlio.

Non capisco, a riguardo, cosa c’entri la notifica. La notifica dei provvedimenti presidenziali viene fatta solo quando uno è contumace, se conosci il contenuto dei provvedimenti mi sembra improbabile che tu sia rimasto contumace.

Ad ogni modo, una soluzione di questo genere è quello che avviene di solito in casi di questo tipo, anche senza un contesto di eventuale violenza. Per la tutela del figlio minore, la casa familiare viene assegnata alla madre, che così viene a godere indirettamente di un vantaggio, ma non in quanto tale bensì quale genitore che comunemente viene ritenuto come più adatto alla cura del figlio.

Ovviamente tutto questo è oggetto di contestazione da molti anni e attualmente c’è un disegno di legge volto a cambiare questa situazione, che però non mi convince del tutto perché eventuali nuove disposizioni sono comunque destinate a fare i conti con la realtà delle famiglie disgregate che è diversa da caso a caso.

Il tuo caso, peraltro, sarebbe da approfondire perché in queste poche righe si intuisce che ci sono tematiche molto complesse, ma in questa sede non si può dire più di tanto.

Se credi, valuta di acquistare una consulenza. Ti raccomando, con l’occasione, di iscriverti alla newsletter del blog, o, se non ti piace la mail, al gruppo Telegram, in modo da non perderti importanti e utili aggiornamenti quotidiani

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diritto roba per giuristi

Fallimento: quali provvedimenti sono opponibili?

I provvedimenti giurisdizionali opponibili alla massa fallimentare.

In astratto, si deve partire dal seguente principio giuridico: la sentenza e i decreti ingiuntivi passati in giudicato alla data del fallimento sono vincolanti per la curatela e, conseguentemente, anche per il Giudice Delegato.

Nello specifico, il presente approfondimento, verrà limitato ai soli decreti ingiuntivi, non rappresentando particolari problemi ai fini della questione da affrontare, le sentenze.

Il perché è dato dalla diversa natura dei due provvedimenti.

La sentenza pone fine al processo (instaurato sul principio del contraddittorio pieno), in quanto decide su tutte le questioni, ossia i punti della controversia.
Inoltre, contiene sempre un accertamento: con essa il giudice elimina l’incertezza sulla realtà giuridica preesistente, dichiarandola come realmente è. Oltre all’accertamento, nel caso della sentenza di condanna (che è quella che di solito viene prodotta con la domanda di insinuazione al passivo del creditore), contiene il comando, rivolto alla parte soccombente, di tenere un determinato comportamento (dare, fare o non fare: ad esempio, pagare una determinata somma a risarcimento del danno).
In ogni caso, definendo in tutto o in parte la controversia, la sentenza svolge funzione decisoria, in contrapposizione ai provvedimenti giurisdizionali (nell’Ordinamento Italiano aventi la forma di ordinanza o decreto) che svolgono funzioni meramente preparatorie o complementari (cosiddetta funzione ordinatoria).

Il decreto ingiuntivo, invece, conclude un procedimento speciale civile, disciplinato dagli articoli 633 e ss. del Codice di Procedura Civile, contenente un accertamento con prevalente funzione esecutiva, giacché esso mira ad assicurare la rapida formazione del titolo esecutivo, al fine di recuperare coattivamente il proprio credito.
Lo stesso provvedimento viene emesso in assenza di contraddittorio (inaudita altera parte) in cui il creditore, previo deposito del ricorso presso la Cancelleria del giudice competente ex art. 637 c.p.c., chiede l’emissione di un decreto ingiuntivo allegando una prova scritta a sostegno delle proprie ragioni. Se il ricorso è fondato, il giudice emana il decreto ai sensi dell’art. 641 c.p.c. concedendo al debitore ingiunto un termine di 40 giorni per opporsi al decreto e instaurare un giudizio a contraddittorio pieno; caso contrario, decorso inutilmente il termine, il decreto si consolida e acquista efficacia esecutiva.

Da questa breve premessa sulla vocazione dei suddetti provvedimenti giurisdizionali, si possono evincere gli effetti che gli stessi producono nella procedura fallimentare.

Infatti, per quanto riguarda le sentenze, possiamo dire che, qualora la sentenza sia già passat in giudicato prima dell’apertura della procedura concorsuale, sia il curatore che il giudice delegato non potranno più contestare il diritto accertato.

In questo caso, al fine di provare il passaggio in giudicato della sentenza, per il creditore è sufficiente produrre la copia conforme della sentenza, anche non munita di formula esecutiva, e la relata di notifica (qualora si voglia stabilire il dies a quo per la decorrenza del termine breve per impugnare, mentre per la decorrenza del termine lungo fa fede la data di pubblicazione della sentenza) e, per alcuni Tribunali, anche l’attestazione da parte della Cancelleria dell’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza.

Nel caso, invece, della insinuazione fondata su sentenza emessa prima della dichiarazione di fallimento del debitore, ma non passata in giudicato al momento in cui si è verificato tale evento, si applica l’art. 96, comma 2, n. 3 L.F.. Questa norma, nonostante la non felice formulazione, indica che il credito portato da una sentenza non passata in giudicato va ammesso al passivo con riserva, in attesa, evidentemente dell’esito dell’appello, per cui, se il Curatore continua l’appello dopo l’interruzione per l’avvenuta dichiarazione di fallimento del debitore appellante, oppure decide di impugnare egli stesso la sentenza, deve ammettere il credito – l’intero credito portato dalla sentenza – con riserva, a nulla rilevando, l’intervenuta sospensione della provvisoria esecutività della sentenza, totale o parziale che sia, in quanto la provvisoria esecutività incide soltanto sulla possibilità di portare ad esecuzione il titolo e, una volta intervenuto il fallimento, comunque vige il divieto dell’esercizio di azioni esecutive così come disposto dall’art. 51 L.F..

Al contrario, proprio per la sua natura, è riconosciuto che il decreto ingiuntivo opposto, o del quale alla data del fallimento penda il termine per l’opposizione, anche se munito di provvisoria esecutività, non è equiparabile alla sentenza non passata in giudicato; in questo caso, infatti, non vale la deroga prevista dall’art. 96 L.F. (il decreto ingiuntivo opposto o non ancora scaduto non può essere ammesso con riserva).

Possiamo, invece, affermare che il decreto ingiuntivo una volta passato in giudicato prima della dichiarazione di fallimento è opponibile alla procedura.

Il problema è stabilire quando un decreto ingiuntivo è passato in giudicato.

Il Codice di Procedura Civile richiede chiaramente un preciso adempimento formale: unicamente la dichiarazione di esecutorietà ex art. 647 c.p.c. attribuisce al decreto ingiuntivo l’efficacia di giudicato sostanziale, ne consegue che il decreto ingiuntivo è opponibile al fallimento solo se è intervenuta la dichiarazione di esecutorietà in data anteriore a quella di fallimento.

Orbene, nei casi in cui la domanda di ammissione al passivo del creditore, è fondata sulla base di un decreto ingiuntivo, ancorché provvisoriamente esecutivo, notificato al debitore intimato, prima della dichiarazione di fallimento, ma sprovvisto di “visto di esecutorietà”, ai sensi e per gli effetti dell’art. 647 c.p.c., o apposto successivamente alla declaratoria fallimentare, come deve comportarsi il Curatore nella valutazione della domanda di ammissione presentata dal creditore? In questo caso gli Organi della procedura, quid iuris? Applicheranno le regole speciali previste dalla concorsualità tra i creditori nella valutazione del credito (art. 45 L.F.: “le formalità necessarie per rendere opponibili gli atti ai terzi, se compiute dopo la data della dichiarazione di fallimento, sono senza effetto rispetto ai creditori”) o, viceversa, potranno ritenere che l’apposizione del visto di esecutorietà, di cui all’art. 647 c.p.c., successiva alla dichiarazione di fallimento sia sufficiente a ritenere opponibile il decreto ingiuntivo?

Ebbene, la giurisprudenza, sia di legittimità che di merito, è ormai consolidata nell’estendere la portata letterale della previsione normativa di cui all’art. 647 c.p.c. “Esecutorietà per mancata opposizione o per mancata attività dell’opponente”, ritenendo definitivo e, dunque, opponibile alla procedura fallimentare, solo il decreto ingiuntivo che sia stato munito del provvedimento ex art. 647 c.p.c., anteriormente alla sentenza di fallimento, e questo, indipendentemente dalla circostanza che esso fosse o meno già provvisoriamente esecutivo.

Tale orientamento, già consolidato, si è ulteriormente rafforzato, alla luce delle sentenze della Cassazione (Cass. n. 1650/2014 e Cass. n. 12055/2015).

Con la prima delle due sentenze (Cass., 27.01.2014, n. 1650), il caso trattato si riferiva ad una banca, che una volta ottenuto il decreto ingiuntivo, provvisoriamente esecutivo, in seguito al quale iscriveva ipoteca giudiziale, dava inizio all’esecuzione forzata.

Successivamente, dichiarato il fallimento della debitrice-ingiunta, la stessa banca proponeva domanda di ammissione allo stato passivo del credito con privilegio ipotecario, depositando il provvedimento monitorio, non opposto dalla debitrice (tale credito non veniva ammesso e la banca faceva opposizione allo stato passivo, ai sensi e per gli effetti dell’art. 98 L.F.).

Il Tribunale di Treviso, adito ai sensi dell’art. 98 L.F., respingeva l’opposizione, deducendo la mancata prova della definitività, di cui all’art. 647 c.p.c., del decreto ingiuntivo.

La banca, contro tale provvedimento, secondo quanto disposto dall’art. 99, ult. comma, L.F., proponeva ricorso in Cassazione, lamentando che il Tribunale errava nell’aderire alla tesi della non opponibilità al fallimento del decreto ingiuntivo non dichiarato definitivo ex art. 647 c.p.c. anteriormente alla dichiarazione di fallimento, pur quando il decreto di esecutività esisteva, ancorché emesso successivamente alla sentenza dichiarativa di fallimento.

I Giudici della Suprema Corte, hanno confermato la decisione del Tribunale di Treviso, sulla base del principio consolidato, secondo il quale ”il decreto ingiuntivo, non dichiarato esecutivo ai sensi dell’art. 647 c.p.c., non ha efficacia di giudicato formale e sostanziale, ed è inopponibile alla procedura fallimentare, determinando la sopravvenuta dichiarazione di fallimento del debitore, l’inopponibilità alla massa dei creditori concorsuali del decreto ingiuntivo in precedenza emesso, se, all’epoca del fallimento, non sia intervenuta ancora la dichiarazione di esecutorietà di cui alla norma menzionata. Pertanto, il creditore opposto deve partecipare al concorso con gli altri creditori, previa riproposizione della domanda di ammissione al passivo fallimentare, con i conseguenti oneri probatori”.

Inoltre, altro elemento di valutazione, per il quale gli Ermellini hanno rigettato l’opposizione del creditore, confermando anche per questo motivo d’impugnazione la sentenza del Tribunale di Treviso, è riferito alla disposizione speciale dell’art. 45 L.F. sopracitato.

La seconda sentenza (Cass. n. 12055/2015) ribadisce che, ai fini dell’opponibilità del decreto ingiuntivo alla massa dei creditori concorsuali, il creditore debba necessariamente ottenere la dichiarazione di esecutorietà di cui all’art. 647 c.p.c. in data anteriore alla dichiarazione di fallimento. Ciò in quanto l’efficacia del giudicato formale e sostanziale per il decreto deriva dalla pronuncia di esecutorietà.

Riassumendo, si può affermare quanto segue:
• In senso positivo: il decreto ingiuntivo dichiarato esecutivo ex art. 647 c.p.c. in data anteriore alla dichiarazione di fallimento (in quanto passato in giudicato) costituisce titolo per l’ammissione del credito allo stato passivo, senza possibilità di esclusione, non essendo consentito al Curatore ed al Giudice Delegato rimettere in discussione l’esistenza del credito.
• In senso negativo: il decreto ingiuntivo non provvisto di formula di esecutorietà di cui all’art. 647 c.p.c. anteriore alla data di fallimento non gode di tale efficacia, con la conseguente inopponibilità alla massa se non dichiarato esecutivo prima della dichiarazione di fallimento.

Da quanto detto finora, si può pacificamente sostenere che dal quadro normativo, nonché dalla giurisprudenza consolidata sia di legittimità che di merito, il decreto ingiuntivo ex art. 633 c.p.c. è opponibile alla procedura fallimentare soltanto se è stato dichiarato esecutivo, ovvero sia stato munito del provvedimento di cui all’art. 647 c.p.c., anteriormente alla declaratoria fallimentare, in caso contrario è tamquam non esset, come se non esistesse in sede concorsuale, per cui il creditore se vuole essere ammesso deve fornire ulteriori elementi probatori a fondamento del proprio credito.

Infine, si segnala un ulteriore orientamento meno rigoroso, ma di indubbio interesse per l’operatore del diritto, elaborato soprattutto dalla dottrina e da parte della giurisprudenza di merito, secondo cui la pronuncia di esecutività (per intervenuta definitività) del decreto ingiuntivo prevista dall’art. 647 c.p.c. ha natura dichiarativa di un giudicato già verificatosi per la mancata proposizione dell’opposizione nei termini di legge.

In buona sostanza, sulla scia di tale orientamento potrebbe ritenersi sufficiente, ai fini dell’ammissione al passivo, la produzione del decreto ingiuntivo completo della relata di notificazione e di attestazione della Cancelleria (del Giudice che ha emesso il decreto) ex art. 124 disp. att. c.p.c., in ordine alla mancata opposizione, assumendo in questo modo il provvedimento di cui all’art. 647 c.p.c., apposto successivamente alla dichiarazione di fallimento, un rilievo meramente formale.

Aderiscono a tale orientamento, il Tribunale di Napoli e il Tribunale di Nola.
Chi scrive, invece, aderisce all’orientamento più restrittivo, sia perché tale indirizzo giurisprudenziale deriva dalla teoria generale che attribuisce natura “costitutiva” (o “dichiarativo-costitutiva”) alla definitività del decreto ingiuntivo data all’attestazione di cui all’art. 647 c.p.c., sia per la conseguente applicazione, nella fattispecie, dell’art. 45 L.F..
La ratio di questa norma è proprio quella di tutelare tutti i creditori che partecipano al concorso, i quali sono assistiti dalla par condicio creditorum.

Esecutorietà del decreto ingiuntivo.

Esecutorietà ed esecutività sono concetti equiparati.

È opportuno, però, non confondere la provvisoria esecutività/esecutorietà del decreto con la dichiarazione di esecutorietà. Infatti, il decreto provvisoriamente esecutivo attribuisce al creditore il potere di agire con l’esecuzione forzata sul patrimonio del debitore. In questo modo, il titolo diventa il presupposto per l’esercizio dell’azione esecutiva, indipendentemente dall’accertamento del diritto sostanziale sottostante.

In realtà, un decreto provvisoriamente esecutivo può anche essere opposto e la provvisoria esecutività può mantenersi anche in pendenza di opposizione. Pertanto, si comprende come lo stesso non sia sufficiente a provare il diritto sostanziale che sta alla base del decreto.

Il decreto di esecutorietà di cui all’art. 647 c.p.c. è quello che sancisce che il decreto è passato in giudicato ed è un atto formale che la giurisprudenza ormai consolidata della Suprema Corte ritiene imprescindibile per l’opponibilità alla procedura fallimentare.

Inoltre, il Tribunale Fallimentare non ha il potere di accertare, neanche incidenter tantum, la tardività della proposizione del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo. Di conseguenza, il decreto ingiuntivo, non dichiarato esecutivo ai sensi dell’art. 647 c.p.c., non ha efficacia di giudicato formale e sostanziale e non è opponibile al fallimento.

L’art. 647 c.p.c., inoltre, prevede espressamente che il soggetto legittimato a rilasciare la dichiarazione di esecutorietà sia lo stesso giudice che ha emesso il decreto.
Nella prassi di alcuni Tribunali, invece, accade che sia la Cancelleria a rilasciare una sorta di visto di mancata opposizione o mancata costituzione dell’opponente nei termini.

Ciò crea non pochi problemi, perché ad una interpretazione letterale della norma, tale prassi non risulta corretta.

Il controllo effettuato dal Cancelliere, ai sensi degli articoli 124 e 153 disp. att. c.p.c., non può essere equiparato a quello del Giudice. L’attività di quest’ultimo, al contrario, valuta la regolarità dell’instaurazione del contraddittorio tra le parti, e che la mancanza di opposizione sia dipesa da una scelta del debitore ingiunto. Consiste, pertanto, “in una vera e propria attività giurisdizionale di verifica del contraddittorio che si pone come ultimo atto del giudice all’interno del procedimento d’ingiunzione e a cui non può surrogarsi il Giudice Delegato in sede di accertamento del passivo”.

Pertanto, si raccomanda a chi voglia insinuare al passivo fallimentare e rendere opponibile alla massa un credito portato da decreto ingiuntivo avente efficacia di giudicato, di ottenere il decreto di esecutorietà di cui all’art. 647 c.p.c..

La cancelleria rilascerà, su apposita richiesta, copia conforme del ricorso, del decreto ingiuntivo e del decreto di esecutorietà ex art. 647 c.p.c. che ne fa parte integrante.

Spese legali decreto ingiuntivo ammesse nel passivo fallimentare.

In ordine alle spese liquidate nel decreto ingiuntivo in danno del fallito, si precisa che riguardano la fase contenziosa cognitoria e non quella esecutiva, per cui non possono godere di alcun privilegio, giacché l’unico privilegio che assiste il credito per spese giudiziarie è quello di cui agli articoli 2755 e 2770 c.c. limitato alle spese di natura esecutiva e conservativa.

Quindi, se il decreto ingiuntivo è passato in giudicato al momento del fallimento, le spese in esso liquidate vanno ammesse, ma in chirografo.

Mentre, come già detto, se alla data del fallimento il decreto ingiuntivo non era ancora definitivo, lo stesso, anche se dichiarato provvisoriamente esecutivo, è inopponibile al fallimento ed impone al creditore di far valere le sue ragioni in sede di ammissione al passivo, posto che il provvedimento monitorio è tamquam non esset; di conseguenza vanno escluse dallo stato passivo le spese liquidate nel decreto (non vanno, cioè, ammesse neanche in chirografo) e, si ribadisce, vengono meno, nei confronti della massa, anche gli eventuali effetti dell’iscrizione ipotecaria ottenuta dal creditore in base al decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo, indipendentemente dall’epoca dell’iscrizione.

Interessi riconosciuti nel decreto ingiuntivo e la loro ammissione in sede concorsuale.

Qual è, invece, la sorte degli interessi moratori di cui al D. Lgs. n. 231/2002 nel fallimento?

Il D. Lgs. n. 231/2002, come noto, disciplina la maturazione degli interessi moratori relativamente a rapporti di credito/debito traenti origine da “transazioni commerciali”, con ambito di applicazione definito e limitato dagli articoli 1 e 2.

La normativa in esame, laddove concretamente applicabile, in quanto avente carattere speciale, deroga così alla disciplina codicistica (avente carattere generale) in ambito di mora del debitore, decorso e tasso di interesse, e segnatamente:
• ai sensi dell’art. 4, comma 1, D. Lgs. 231/2002, si ha decorso degli interessi dal giorno successivo a quello di scadenza dell’obbligazione, ipso iure, senza che sia necessaria costituzione in mora ex art. 1219 c.c.;
• ai sensi dell’art. 5 del predetto testo di legge, è prevista una sensibile maggiorazione del tasso legale periodicamente determinato.

La normativa in esame, adottata in attuazione alla Direttiva 2000/35/CE, ha quale ratio la lotta contro i ritardi nei pagamenti in seno alle transazioni commerciali. Essa si pone così l’obiettivo di disincentivare l’inadempimento (ritardato adempimento) nei pagamenti, acuendo la gravosità delle conseguenze patrimoniali in capo al debitore. Al contempo, introduce una forma di tutela per il creditore; quest’ultimo, infatti, in presenza di altrui inadempimento, al fine di medio tempore fronteggiare adeguatamente le proprie esposizioni debitorie, è di fatto costretto a ricorrere a linee di credito, sostenendo così esborsi a titolo di interessi passivi. Il tasso maggiorato contribuisce così a tenere indenne il creditore da tale forma di pregiudizio.

Invero, l’art. 1, comma 2, lett. a), D. Lgs. 231/2002 esclude l’applicazione del Decreto alle ipotesi di “debiti oggetto di procedure concorsuali aperte a carico del debitore”.

L’interpretazione più stringente di tale norma è nella direzione di escludere in toto l’ammissione al passivo fallimentare degli interessi, laddove dovuti ai sensi del suddetto Decreto.

Una diversa lettura, invece, vede nella disposizione in esame un divieto al riconoscimento del diritto all’ammissione al passivo di interessi al tasso maggiorato (nelle ipotesi in cui è dovuto) a decorrere dal momento della dichiarazione di fallimento; fermo il diritto a vedersi riconosciuto tale diritto per gli interessi decorsi antecedentemente. Tale interpretazione, oggi prevalente, sembra essere preferibile a quella più restrittiva; quest’ultima, infatti, porrebbe il credito al quale è astrattamente applicabile il D. lgs. 231/2002 addirittura in una posizione di sfavore rispetto ad un credito “ordinario”, così chiaramente contrastando la ratio legis del Decreto.

Di tale avviso, peraltro, la Giurisprudenza del Foro di Milano, della quale costituisce fulgido esempio il Decreto del Presidente della Sezione Fallimentare, dott. Quatraro, n. 833/08 del 21.01.2008, secondo il quale: “… con il D. Lgs. 231/2002 il legislatore ha dato applicazione nel nostro ordinamento alla direttiva europea adottata in materia di lotta contro i ritardi dei pagamenti nelle transazioni commerciali. L’art. 1 del citato decreto delimita l’ambito di applicazione del decreto ad ogni pagamento effettuato a titolo di corrispettivo in una transazione commerciale. È previsto che tale disposizione non si applichi ai debiti oggetto di procedure concorsuali aperte a carico del debitore. Appare indubbio che gli interessi non siano dovuti per il periodo successivo all’apertura della procedura concorsuale e, coerentemente, il ricorrente ha formulato la propria domanda limitando la richiesta del riconoscimento degli interessi dalla data di scadenza delle fatture fino al fallimento. Viceversa, prima della dichiarazione di fallimento, le obbligazioni contratte dal debitore producono, ai sensi dell’art. 4 del citato Decreto, interessi moratori automaticamente, senza necessità di formale messa in mora, dal primo giorno successivo al mancato pagamento. Proprio la ratio della normativa esaminata è stata quella di approntare una più efficace tutela a fronte dei ritardi nell’adempimento delle transazioni commerciali sicché alla produzione degli interessi dipendenti corrisponde il perfezionarsi del diritto alla obbligazione accessoria. La natura sostanziale della norma esaminata e il suo tenore letterale non consentono una interpretazione tale da condurre all’affermazione di una inopponibilità alla massa dei creditori di interessi moratori da obbligazione pecuniaria già maturati”.

In sintesi, pertanto, si ritiene di condividere l’impostazione secondo la quale l’art. 1 D. Lgs. 231/2002 non esclude la maturazione degli interessi oggetto del medesimo Decreto (rectius, il diritto al loro riconoscimento in sede fallimentare), se non limitatamente a quelli maturati successivamente alla dichiarazione di fallimento dell’impresa debitrice.

Ciò detto, nessun profilo di problematicità si pone in relazione a quei creditori non considerati privilegiati in seno alla procedura fallimentare (chirografari). L’art. 55 L.F., infatti, prevede quale regola generale la sospensione della maturazione degli interessi, siano essi legali o convenzionali, agli effetti della procedura concorsuale, a far data dalla dichiarazione di fallimento. Ciò ad eccezione che i crediti siano garantiti da ipoteca, pegno o privilegio. Ecco allora che il momento della cessazione di operatività della disciplina di cui al D. Lgs. 231/2002, nei termini predetti, coincide sostanzialmente con la sospensione della maturazione degli interessi. Sicché non è neppure da porsi il problema circa la sorte successiva alla declaratoria fallimentare.

Diverso, invece, il caso in cui il creditore sia munito di privilegio. In tal caso, ad avviso dello scrivente, si pone un problema interpretativo concernente l’interazione normativa tra l’art. 1, comma 2, lett. a), D. Lgs. n. 231/2002 da un lato, ed il combinato disposto di cui agli articoli 54 e 55 L.F. dall’altro.

Gli articoli 54 e 55 L.F., infatti – in via generale e senza alcun riferimento alla natura della transazione determinante l’insorgenza del credito – dispongono che per i crediti privilegiati non opera la suddetta sospensione della maturazione degli interessi, la quale prosegue sino alla data di deposito del progetto di riparto, allorquando questo preveda una soddisfazione (seppur parziale) delle ragioni creditorie.

Di contro, come esposto, l’art. 1, comma 2, lett. a), D. Lgs. n. 231/2002, ut supra interpretato, per i crediti frutto di transazione commerciale stabilisce l’inapplicabilità della disciplina sugli interessi di cui al Decreto, successivamente alla dichiarazione di fallimento.

Si pone dunque la questione, relativamente ai crediti privilegiati e determinati da transazioni commerciali, di quale sia la sorte degli interessi successivamente alla dichiarazione di fallimento. In dettaglio, sorge l’interrogativo se prosegua la maturazione o meno (sino alla data di deposito del riparto). In caso di risposta affermativa, vi è da verificare il tasso applicabile.

L’impostazione che fino a poco tempo fa era prevalente era quella che poneva l’accento principalmente sul disposto normativo di cui all’art. 1, comma 2, lett. a), D. Lgs. 231/2002; in ragione di essa, anche allorquando il credito fosse stato privilegiato, in virtù della predetta norma non vi sarebbe stato spazio per riconoscere alcun genere di interesse successivamente alla declaratoria fallimentare.

Infatti, poiché relativamente alla disciplina degli interessi di cui alle transazioni commerciali si applica il D. Lgs. 231/2002, il venir meno dell’operatività di questo determinerebbe il venir meno del riconoscimento del diritto a concorrere al passivo per gli interessi maturati successivamente.

Tale interpretazione non appare tuttavia sistematicamente corretta, e ciò per un duplice ordine di ragioni:
• il D. Lgs. 231/2002 prevede una disciplina, in tema di interessi, a carattere speciale, derogatoria rispetto alla disciplina generale. Il venir meno dell’operatività della legge speciale – in seguito alla dichiarazione di fallimento, ai sensi dell’art. 1, comma 2, lett. a), D. Lgs. 231/2002 –, in virtù dei principi dell’Ordinamento, dovrebbe così donare nuova rilevanza alla normativa generale. A tale ambito appartiene l’art. 54 L.F. (anche nella sua interpretazione relazionale con l’art. 55 L.F.), che come detto non opera alcuna distinzione circa l’origine del credito (pertanto, sotto tale aspetto, risultando “generale”);
• l’interpretazione richiamata appare contrastante con la ratio del D. Lgs. 231/2002, in quanto, a parità di privilegio, il creditore “da transazione commerciale” risulterebbe addirittura svantaggiato rispetto al creditore “generico”. Infatti, il primo vedrebbe un arresto della maturazione degli interessi al momento del fallimento della debitrice, mentre il secondo avrebbe tale effetto spostato nel tempo alla pubblicazione del progetto di riparto. Il pregiudizio per il creditore “da transazione commerciale” sarebbe evidente.

In considerazione di ciò, appare corretta una soluzione che dia applicazione all’art. 54 L.F. anche laddove si sia in presenza di credito (privilegiato) da transazione commerciale.

In tal senso, si è consolidata sia la giurisprudenza di merito che di legittimità.

Concludendo, in sintesi, dovrà essere riconosciuta l’ammissione al passivo fallimentare (con privilegio di grado pari a quello di cui è munito il credito in sorte capitale) dei seguenti interessi:
• interessi moratori ex art. 5 D. Lgs. 231/2002 dalla data di scadenza dell’obbligazione pecuniaria, sino alla dichiarazione di fallimento;
• interessi al tasso legale ordinario (ovvero, dove rinvenibile, al tasso convenzionale) dalla dichiarazione di fallimento sino alla data di deposito del riparto, dal quale il creditore risulti almeno parzialmente soddisfatto.

Credito contestato sub Judice.

Correlato all’argomento appena trattato, vi è un caso particolare da dover affrontare che è di particolare rilevanza: l’istanza di fallimento fondata su credito sub judice.

È il caso delle iniziative concorsuali che il creditore intraprende dopo aver ottenuto una sentenza già esecutiva ex lege, impugnata, o un decreto ingiuntivo, opposto ma dotato della provvisoria esecuzione, rimasta infruttuosa per l’inutile tentativo di sottoporre ad esecuzione i beni del debitore.

Una recente sentenza della Corte di Cassazione, I° Sezione Civile, n. 6914 del 07.04.2015, resa nell’ambito di un tema spesso affrontato nelle aule di giustizia a motivo di opposizione alle istanze di fallimento fondate su un unico credito, peraltro sub judice, in quanto contestato, afferma il seguente principio: “Per ravvisare lo stato di insolvenza, ai fini della dichiarazione di fallimento del debitore, non occorre l’accertamento definitivo del credito, essendo sufficiente la verifica di uno stato di impotenza economico-patrimoniale, idoneo a privare tale soggetto della possibilità di far fronte, con mezzi normali, ai propri debiti”.

Ed invero, la giurisprudenza è molte volte intervenuta per definire il concetto di insolvenza, indefettibile condizione per la dichiarazione di fallimento, e la sentenza in rassegna si inserisce in tale dibattito atteso che il quesito formulato alla Suprema Corte, riguardava proprio l’interrogativo “se l’inadempimento di un unico credito, contestato in sede giudiziale e quindi non definitivo, integri il presupposto oggettivo del fallimento”.

Orbene, sulla questione vi sono interpretazioni abbastanza convergenti, certune (come la sentenza della S.C. in commento) arricchite da precisazioni e chiarimenti, ma tutte caratterizzate da un denominatore comune: condizione imprescindibile per la dichiarazione di fallimento è una generale situazione di difficoltà economica riguardante l’impresa, non momentanea o transeunte, che indipendentemente dai motivi, genera la impossibilità di far fronte regolarmente alle obbligazioni assunte (cfr. Cass. n. 4789 del 04.03.2005; Cass. n. 5215 del 27.01.2008).

Deve cioè trattarsi di una condizione patologica dell’impresa (si dice “in prognosi irreversibile”), tale da impedire di onorare i propri debiti.
L’art. 5 della Legge Fallimentare parla, infatti, di “inadempimenti o altri fatti esteriori” a significare, quindi, che gli inadempimenti non sono l’essenza dello stato di insolvenza, potendo questo derivare da altre circostanze esteriori (fuga, latitanza dell’imprenditore, etc.).

In buona sostanza, la lettura di detta disposizione normativa induce a ritenere che, ai fini della ricorrenza dello stato di insolvenza, non occorre verificare la presenza di inadempimenti, ma la capacità dell’imprenditore di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni, come recita testualmente la Legge Fallimentare.

Rebus sic stantibus, è più corretto affermare che lo scrutinio sul riscontro della condizione di insolvenza prescinde (come chiarito dalla Cassazione con la sentenza in commento) da ogni indagine sulla effettiva esistenza ed entità del debito, il cui riscontro, insieme agli atti esteriori, assurge a circostanza sintomatica del dissesto economico (cfr. Cass. n. 576 del 15.01.2015).

In conclusione, lo stato di insolvenza può ritenersi escluso nel caso di inadempimento di un credito contestato e soggetto ad accertamento giudiziale, inidoneo a determinare l’impotenza patrimoniale non transeunte al regolare adempimento delle obbligazioni assunte dal debitore, purché poi detta circostanza possa evincersi dai bilanci offerti in comunicazione al Giudice (v. ex multis Tribunale di Reggio Emilia, 28.06.2006; Corte di Appello di Firenze, 07.02.2012).
Ugualmente può dirsi allorché, pur in presenza di un credito contestato, detta impotenza possa ricavarsi da altri elementi come la chiusura di tutti i rapporti da parte degli istituti di credito o la presentazione di ricorsi monitori da parte degli stessi, elevazione di numerosi protesti, i quali danno contezza che la società versi in uno stato irreversibile di incapacità a far fronte ai propri impegni economici (Tribunale di Tivoli n. 33 del 21.07.2010). Da segnalare, in tale contesto, la particolare pronuncia del Tribunale di Mantova del 26.02.2015, secondo la quale “dinanzi ad un credito non portato da titolo definitivo e contestato dal debitore, la cui contestazione è sub judice, il Tribunale non può che rigettare l’istanza di fallimento in quanto è carente la prova della esistenza del credito che attribuisce all’istante la legittimazione ad attivare la procedura per la dichiarazione di fallimento e non potendo valutare il Giudice prefallimentare la fondatezza nel merito delle contestazioni stesse mosse alle ragioni del creditore”.

Purtuttavia, laddove dagli atti risultasse una situazione di insolvenza allarmante, desumibile dall’entità dei debiti risultanti dai bilanci e dalla pendenza di procedure esecutive immobiliari, il Tribunale non potrebbe dichiarare il fallimento ma dovrebbe trasmettere gli atti al P.M. per le conseguenti attività di competenza, ossia per la eventuale richiesta di fallimento ex art. 7 n. 2 L.F..

Una decisione, questa, che appare abbastanza peculiare poiché se coincidente, nella prima parte, con il consolidato indirizzo giurisprudenziale, risulta isolata (a quanto consta) e contraria al prevalente orientamento della Cassazione (esplicitato anche attraverso la decisione in rassegna), che opina per la sussistenza dello stato di insolvenza nella ipotesi di specie, ricavabile da ulteriori elementi incidentalmente verificati a tal fine dal Giudice, sulla base degli elementi messi a sua disposizione, quali le esposizioni debitorie risultanti nei bilanci o la esistenza di plurimi protesti.