Una recente vicenda di cronaca proveniente dagli USA, ci fornisce lo spunto per tornare ad affrontare un argomento di forte attualità anche in Italia. La notizia riguarda le vicissitudini di Toquir Choudri, un dipendente del Dipartimento dell’educazione di New York, “scovato” dai superiori a navigare in orario d’ufficio sul Web. Tale comportamento si sarebbe poi ripetuto nonostante i divieti imposti dai superiori. Infine, come accade sovente oltreoceano, la disputa si è protratta fino a giungere in Tribunale, dove un Giudice non troppo zelante con il dipendente avrebbe dato ragione proprio all’intrepido navigatore. La sentenza emessa stabilisce infatti che, per la natura dei siti internet visitati, ovverosia di informazione e di viaggio, la navigazione quotidiana di Toquir equivaleva alla lettura di un quotidiano qualsiasi, pratica quest’ultima tollerata in considerazione delle mansioni ricoperte dallo stesso all’interno del Dipartimento. In definitiva, nel caso concreto, la giustizia statunitense non ha considerato legittimo licenziare Toquir, il quale, al massimo, poteva unicamente essere rimproverato dai propri superiori.
Questa sentenza, in un eventuale caso italiano, sarebbe così permissiva? Anche gli italiani, infatti, si sono da tempo imbattuti in queste problematiche che, di recente, hanno visto pronunciarsi anche il Garante della privacy, con un provvedimento del 2 febbraio 2006 che non ha mancato di sollevare interesse. Nella sostanza, il Garante ha dato ragione ad un dipendente che, vistosi contestare una navigazione in internet non autorizzata, ha a sua volta contestato il comportamento del proprio datore di lavoro, a suo modo di vedere le cose “troppo invasivo”. Il Garante non ha infatti riconosciuto legittimo il comportamento dello stesso datore di lavoro che, in violazione dell’art. 145 del codice della privacy, avrebbe indagato sul contenuto dei siti internet visitatati dal proprio dipendente, spiegando infine, nella stessa pronuncia, che il datore di lavoro si sarebbe dovuto limitare ad accartere gli indebiti accessi e non anche dove era solito navigare l’incauto dipendente. Tali informazioni riguardano infatti la sfera personale di un individuo, per ciò stesso tutelata dalla legge. E’ doverosa tuttavia una precisazione. Nel caso deciso dal Garante, infatti, il dipendente non aveva nessuna necessità di accedere alla rete per svolgere le diverse mansioni a lui affidate. In altre parole, visionare da parte del datore di lavoro il contenuto dei siti internet visitati si è dimostrato un comportamento non solo lesivo della privacy del lavoratore, ma anche assolutamente superfluo per poterlo redarguire. Il dipendente non poteva infatti navigare durante le ore di lavoro indipendentemente dai siti visionati.
E se al contrario il dipendente in questione avesse avuto accesso alla rete, quale strumento per poter espletare una parte o la totalità del proprio lavoro? Come si sarebbe pronunciato ipoteticamente il Garante? In questo caso arriva in soccorso lo statuto dei lavoratori che, all’art. 4, stabilisce il divieto dei controlli a distanza degli stessi lavoratori. Divieto che risulta assoluto, in merito all’uso “di impianti adiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori”, ma che può essere suparato nel caso in cui gli impianti e le apparecchiature di controllo siano richiesti da esigenze organizzative e produttive, ovvero dalla sicurezza del lavoro. In questo secondo caso tuttavia tali impianti possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna.
Dalla lettura congiunta della norma da ultima citata e della pronuncia del Garante si possono trarre alcune conclusioni. Alla domanda se sia legittimo o meno che un datore di lavoro controlli gli accessi via internet dei propri dipendenti, dovremo dare necessiariamente una risposta articolata. Innanzitutto possiamo dire che un datore di lavoro può, in ogni caso, legittimamente compiere un’attività di monitoraggio degli accessi alla rete da parte dei propri dipendenti. Tuttavia, a seconda dei casi, questo controllo potrà essere più o meno approfondito. Se un ipotetico dipendente accede alla rete utilizzando un computer aziendale, senza che questo gli sia consentito o che gli risulti necessario per le specifiche mansioni ricoperte, per essere trovato in “fallo” dal datore di lavoro, sarà sufficiente dimostrare che lo stesso navigava in rete, e non anche in quali siti specifici navigava. Tale indagine si dimostrerebbe infatti non necessaria, oltre che lesiva del dritto alla privacy del dipendente.
Nel caso contrario, in cui al dipendente l’accesso alla rete sia consentito per ragioni di lavoro, si renderà necessario per il datore di lavoro consultare anche il contenuto specifico dei siti visitati, per verificare l’attinenza o meno di tali contenuti con le mansioni del dipendente oggetto di indagine e, di conseguenza, la sua eventuale infrazione. E’ evidente che in questo caso il controllo, per risultare efficace, si dovrà spingere necessariamente a monitorare “dati sensibili” del lavoratore in questione, come appunto i suoi gusti personali, eventuali gusti sessuali etc etc. Tuttavia, in ragione delle disposizioni contenute nello statuto dei lavoratori, lo stesso datore di lavoro, per iniziare la propria attività di indagine, dovrà preventivamente munirsi di un’autorizzazione concordata con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna, come dispone la legge.