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altre tristi statistiche e dati sulla giustizia

Riporto un articolo tratto dalla rivista “Diritto e Giustizia” che riprende la relazione del governatore della Banca d’Italia nelle parti dedicate all’inefficienza della giustizia, che contiene una serie di dati interessanti per capire alcune caratteristiche di questo grande problema che per tanti anni ancora graverà su tutti noi. Anche in questo caso il titolo è sbagliatissimo: due anni e mezzo per una sentenza di primo grado sarebbero un tempo assolutamente veloce nel contesto attuale, il termine più realistico, ad essere ottimisti, è di 4 o 5 anni.

Draghi sferza la Giustizia civile: due anni e mezzo solo per il primo grado, imprese in “tilt”. Data Pubblicazione 9/6/2008. Articolo tratto da: Diritto e Giustizia || Oltre due anni e sette mesi per la conclusione di un procedimento civile di cognizione ordinaria di primo grado. Grave il gap Nord-Sud: nel Mezzogiorno per una causa di lavoro servono 1.011 giorni, vale a dire oltre il 74 per cento in più della durata media rilevata nei Tribunali del Centro e del Settentrione; in appello il divario si attesta al 51,5 per cento. Il tasso di litigiosità nel Paese risulta alto, con punte nel Meridione legate all’emergenza “sommerso”, e la colpa è anche delle troppe leggi esistenti, in molti casi poco chiare perché frutto di frequenti, disorganici interventi. In Cassazione, infine, continuano ad arrivare troppe controversie rispetto, ad esempio, a quanto avviene in Francia e Germania. Era già senz’altro chiaro il monito del Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi contenuto nelle Considerazioni finali affidate sabato 31 maggio all’assemblea ordinaria dei partecipanti: «Far funzionare la macchina della giustizia, garantire ovunque legalità e sicurezza e semplificare il quadro legislativo» sono priorità ineludibili per il settore pubblico. Ma spulciando le carte della Relazione annuale sul 2007 preparata dall’ufficio studi di Palazzo Koch emergono dati e cifre che ci restituiscono un quadro preoccupante: e se il campanello d’allarme non sarà tenuto in debita considerazione, è legittimo credere che dopo l’early warning lanciato dal numero uno di Via Nazionale ci sarà tempo solo per gli Sos. Contenzioso abnorme. Quanto dura in Italia una causa civile? Decisamente troppo. Bankitalia cita dati del 2006: il tempo medio stimato davanti al giudice di prime cure è di 966 giorni contro i 918 dell’anno precedente. Al Sud il record dei “processi-lumaca”: per il giudizio di cognizione ordinaria in primo grado servono in media 1.124 giorni (dati 2005), vale a dire il 42,6 per cento in più del tempo necessario nei tribunali del Centro Nord. Eppure i giudici non mancano: la distribuzione territoriale dei magistrati di tribunale rispetto alla popolazione – scrive l’ufficio studi di Via Nazionale – risulta sbilanciata in favore delle regioni del Mezzogiorno, dove il rapporto fra il numero di giudici e pm addetti al civile e la popolazione supera del 28,2 per cento il valore rilevato nel Centro Nord. E la spiegazione va ricercata nella maggiore litigiosità: in un anno il numero di nuovi procedimenti avviati al Sud è doppio rispetto al Nord: 2,4 ogni 100 abitanti contro 1,2; il dato comprende sia le cause di cognizione ordinaria sia quelle di lavoro e previdenza: sono soprattutto le seconde che pesano nel Meridione, fra zone “grigie” e rapporti “in nero”. Risultato: a causa dell’accumulo di cause pregresse, da quelle parti i magistrati si trovano a dover smaltire un carico maggiore rispetto ai colleghi di altre zone del Paese.

Organizzazione ed efficienza. Sembra in panne, insomma, la macchina che Draghi vorrebbe invece veder correre. E la soluzione alle disfunzioni che affliggono la giustizia civile, si legge nella Relazione, «non può arrivare solo da interventi sul piano dell’ordinamento giudiziario». Bene, insomma, la riforma Castelli (completata dalla legge Mastella) perché ha introdotto «significative» novità in tema di formazione, dalla Scuola superiore della magistratura ai più stringenti requisiti di ammissione al concorso: si tratta di innovazioni normative che hanno fatto perno sulla «competenza professionale e il sistema di incentivi dei magistrati» come «importanti fattori di produttività»; ancora: si poteva forse essere più coraggiosi collegando maggiormente all’efficienza la progressione in carriera, anche se il suggerimento arriva filtrato attraverso il paludato stile dei tecnocrati dell’Authority. Tutto questo, però, non basta. E stavolta la Vigilanza lo dice a chiare lettere: «Carenze significative rimangono sotto il profilo organizzativo».

Cassazione senza filtro. Il confronto internazionale indica che alla base delle inefficienze non c’è una carenza nelle risorse destinate a Via Arenula: a mostrare criticità sono invece le modalità del loro impiego e della loro organizzazione. Restando con lo sguardo ai principali ordinamenti dell’Europa continentale, l’Italia si segnala per l’elevato numero di procedimenti che arrivano ogni anno alla Suprema corte: il nostro Paese, infatti, è l’unico nel Vecchio Continente a non avere un filtro all’accesso per il giudizio in Cassazione (e comunque si distingue «per l’ampia variabilità degli orientamenti giurisprudenziali»). Risultato: in Italia sono 32.278 i ricorsi presentati in Cassazione durante il 2007 contro i 18.232 della Francia e i 3.404 della Germania. Ridurre la pressione sui giudici di piazza Cavour, fra l’altro, era l’obiettivo del D.Lgs 40/2006 (“Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 maggio 2005, n. 80”). Sul banco degli imputati, comunque, c’è anche la professione forense: nel mercato nostrano dei servizi legali, scrivono i tecnici di Draghi, si dovrebbero sentire i benefici di un’intensa concorrenza visto che nel confronto internazionale l’Italia si segnala per l’alto numero di avvocati in rapporto alla popolazione. E invece? «Nostri esercizi econometrici condotti su dati provinciali – rivelano i ricercatori – indicano l’esistenza di un nesso causale fra litigiosità ed elevato numero di avvocati in rapporto alla popolazione». Si verificherebbe, dunque, un fenomeno tipico dei mercati «caratterizzati da rilevanti asimmetrie informative»: gli operatori tentano di recuperare redditività «stimolando – si legge nello studio – una domanda per i propri servizi in eccesso rispetto all’interesse del cliente». Intanto una cosa è certa: i costi di accesso alla giustizia sono uno dei fattori che possono influenzare la litigiosità, al di là degli incentivi delle parti e dei difensori.

Due modelli. È un ritratto a tinte fosche, insomma, quello che ci consegna l’analisi di Palazzo Koch. A questo punto, direbbe qualcuno, la domanda nasce spontanea: come se ne esce? Guardando alle sedi virtuose, ad esempio. Bankitalia cita l’esperienza della Procura di Bolzano dal cui successo è nato il progetto per la diffusione delle best practices negli altri uffici, avviato dal Ministero e finanziato dal Fondo sociale europeo. E indica la via della Rete per tagliare i tempi dei processi: il futuro è nel processo civile telematico. Prendiamo la sperimentazione a valore legale per le procedure di decreto ingiuntivo in corso al Tribunale di Milano dal primo dicembre 2006: la durata media dell’iter di un atto “telematico” è di 12 giorni contro i 71 necessari al cartaceo, anche se per ora si attesta all’11 per cento la quota dei decreti informatizzati rispetto al totale. Superfetazione nel mirino. Contenzioso enorme, si diceva. Ad alimentare la litigiosità, però, ci si mette anche un quadro normativo «sovradimensionato e poco chiaro» che genera incertezza fra gli operatori e, fra l’altro, fa lievitare i costi di aggiornamento oltre che di apprendimento. In altre parole: una giungla di leggi, frutto di un eccesso di produzione normativa attraverso frequenti cambiamenti in corsa delle regole, talvolta effettuati in modo poco ortodosso. Ecco, alla sbarra mancava il legislatore. Via Nazionale lancia una vera e propria sfida al neo-ministro della Semplificazione normativa, Roberto Calderoli. Anche qui il confronto con la Ue può restituire le reali dimensioni del fenomeno: in Italia il numero di norme di rango legislativo vigenti ammonta a 21.691, contro le 9.837 della Francia e le 4.547 della Germania. Fra il 1997 e il 2006 la produzione di leggi nel nostro Paese è stata quasi doppia rispetto a quella francese e circa tre volte quella spagnola: un’analisi dei tecnici dell’Authority sui 12 testi unici approvati da noi fra il 1990 e il 2005 mostra come ogni anno sia stato modificato più del 10 per cento dei rispettivi articoli. Tre anni fa l’Italia è ricorsa a una legge per tagliare le leggi, la 246/05: si è conclusa nel dicembre scorso la prima fase con la ricognizione delle disposizioni vigenti; terminerà entro il 2009 la seconda, che prevede l’individuazione delle norme anteriori al 1970 ritenute indispensabili, l’abrogazione automatica delle altre, la semplificazione di quelle rimaste in vigore. Da realizzare entro il 2011 la terza fase, con l’adozione di decreti correttivi e attuativi.

Qualità legale. D’accordo, ma le riforme più recenti? Anche qui gli uomini di Draghi distribuiscono le loro pagelle. Sulla class action, legge 244/07, buona l’idea ma non le modalità d’attuazione: l’azione collettiva, spiegano, contribuisce a migliorare l’efficienza dei mercati ma i meccanismi adottati «rischiano di comprometterne la funzionalità». Mancano criteri puntuali per individuare le associazioni legittimate ad agire. I funzionari di Palazzo Koch sembrano rispolverare il vecchio Giovenale e la sua VI Satira: «Chi controllerà i controllori?» («Quis custodiet ipsos custodes?»); insomma, urgono sistemi di governance e controlli interni o esterni per le associazioni dei consumatori e gli avvocati chiamati a rappresentare gli interessi dei cittadini-utenti. Passiamo al diritto fallimentare: la riforma della riforma, il D.Lgs 169/07, ha in parte rimosso le criticità emerse dopo gli interventi contenuti nella legge 80/2005 e nel D.Lgs 5/2006. Ma, avvisa Bankitalia, il numero dei soggetti fallibili è stato sì ampliato, però restano esclusi dall’accesso alle procedure un numero elevato di piccoli imprenditori e i debitori non imprenditori: l’Italia è uno dei pochi Paesi avanzati a non prevedere una procedura che consenta la cancellazione dei debiti residui anche per questi soggetti. Piccolo passo in avanti, infine, sul fronte del diritto societario: grazie alle ultime innovazioni legislative, conclude la Relazione 2007, gli assetti proprietari e di controllo delle imprese italiane hanno mostrato «segni di evoluzione verso strutture meno accentrate e più aperte ad azionisti stranieri».

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Di Tiziano Solignani

L'uomo che sussurrava ai cavilli... Cassazionista, iscritto all'ordine di Modena dal 1997. Mediatore familiare. Counselor. Autore, tra l'altro, di «Guida alla separazione e al divorzio», «Come dirsi addio», «9 storie mai raccontate», «Io non avrò mai paura di te». Se volete migliorare le vostre vite, seguitelo su facebook, twitter e nei suoi gruppi. Se volete acquistare un'ora (o più) della sua attenzione sui vostri problemi, potete farlo da qui.

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