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Vorrei separarmi da mio marito che ha il brutto vizio di ruttare in continuazione, dentro e fuori casa, anche davanti ai nostri figli e io non lo sopporto più. Voglio sapere se posso chiedere l’addebito della separazione, dal momento che la causa della rovina del nostro matrimonio è stato lui, con questa mania. Abbiamo anche frequentato un mediatore familiare, ma lui ha detto che non rinuncia a quello che chiama il suo «diritto» di ruttare, specialmente quando ci sono le partite in tv.
In effetti, la questione è interessante e, a quanto risulta, anche originale sia in dottrina che in giurisprudenza, anche se, ragionando per analogia avendo riguardo a casi simili e materie analoghe è possibile sicuramente enucleare alcuni criteri applicabili anche in questo caso.
La situazione della nostra lettrice, tuttavia, non è illustrata con la dovizia di particolari che sarebbe necessaria per poter dare una risposta completa, per cui si possono fare solo alcune osservazioni di carattere generale.
Innanzitutto va richiamato come l’addebito della separazione possa essere chiesto nei confronti di quel coniuge che, violando uno dei doveri fondamentali derivanti dal matrimonio, determina il venir meno di quella comunione materiale e spirituale che è alla base di ogni famiglia. Non è sufficiente, in altri termini, che ci sia stata una violazione di tali doveri, ma occorre anche che la stessa abbia avuto efficacia causale nel determinare la crisi familiare.
In primo luogo, comunque, va stabilito se l’atto di ruttare può essere considerato una violazione dei doveri fondamentali in cui si concreta il rapporto di coniugio. Tra questi obblighi, c’è quello di fedeltà, che generalmente viene dalla giurisprudenza interpretato in senso esteso come lealtà, e quindi rispetto, da manifestarsi reciprocamente tra i coniugi. C’è però da dire che se è vero che tradizionalmente l’atto di produrre rumori con lo stomaco era considerato sinonimo di una grave forma di maleducazione e mancanza di rispetto, recentemente la concezione sociale al riguardo sembra essere mutata, in sintonio con al maggiore informalità delle generazioni attuali; di ciò, sono «segni» fattuali precisi eventi come l’organizzazioni di manifestazioni quali Rutto Sound, dove diversi giovani gareggiano e si esibiscono in vere e proprie gare di rutti. Questi eventi, per quanto possa essere sotto alcuni aspetti considerato sconveniente, rappresentano altrettanti esempi di manifestazioni sociali ove si svolge la personalità dell’individuo ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, considerato che il nostro non è uno «Stato etico» che impone ai cittadini quali valori scegliere, ma che li lascia liberi di coltivare ciò che preferiscono.
Per questo, sarebbe molto importante innanzitutto conoscere l’età dei coniugi, dal momento che l’atto del ruttare va comunque contestualizzato.
La cosa, poi, va valutata anche sotto un altro profilo. Il matrimonio, infatti, è una istituzione e un presidio di solidarietà, che serve proprio ad aiutare quel coniuge che dovesse trovarsi ad avere un problema, proprio secondo la celebre formula del rito concordatario, il cui spirito è rimasto anche nel codice civile italiano. Se uno dei due membri della coppia incorre in un problema, l’altro non è certo legittimato a ripudiarlo in virtù dello stesso, ma proprio in forza del vincolo di solidarietà reciproca deve innanzitutto prodigarsi per aiutarlo a superarlo. È chiaro, tuttavia, che ci sono situazioni in cui l’obbligo di solidarietà dell’altra parte non è più esigibile, il problema è quello di trovare il discrimine, il punto esatto in cui finisce l’obbligo di solidarietà e inizia il diritto di chiedere la separazione con addebito.
Orbene, sul punto la giurisprudenza è abbastanza costante nel ritenere che presupposto imprescindibile per giungere al «rifiuto di prestare aiuto» al proprio coniuge in modo legittimo sia l’assenza, da parte del coniuge che ha il problema, di qualsiasi collaborazione o manifestazione di volontà a superare i propri limiti. Insomma, se il coniuge che ha, ad esempio, un vizio, o una dipendenza, si impegna egli stesso per superare il problema, frequentando sedute presso medici e specialisti, corsi, assumendo i farmaci prescritti, si ritiene che l’altro coniuge sia tenuto a prestargli anch’egli aiuto; viceversa, se per primo mostra indifferenza o addirittura menefreghismo, e non è comunque seriamente intenzionato ad uscire dal suo problema, non si ritiene giusto continuare ad imporre un obbligo di aiuto all’altro coniuge, che quindi può legittimamente decidere di mandare in crisi la famiglia e chiedere l’addebito, per ragioni che si radicano sia nel problema dell’altro coniuge sia nei suoi completi indisponibilità e disinteresse verso il problema stesso.
Da quanto riferisce la nostra lettrice, peraltro, il marito si è prestato a sottoporsi ad alcune sedute di mediazione familiare, per cui da questo punto di vista non si può dire che non abbia prestato la propria collaborazione quantomeno a discutere del problema e a comunicare circa lo stesso. Tuttavia, la situazione sembra andare ben oltre le considerazioni che precedono, nel senso che il marito della nostra lettrice ha fatto questo percorso comunicativo solo per ribadire di non ritenere la sua abitudine un fatto negativo o un problema, ma sostanzialmente – dato che parla espressamente di un «diritto» – l’esplicazione della sua personalità.
Qui il discorso diventa, naturalmente, molto più difficile da affrontare, dal momento che implica l’adozione di una scala valoriale che, come tale, è sempre relativa per area geografica, generazione, posizione sociale e così via. Come si è cennato precedentemente, in Europa quantomeno, tradizionalmente l’atto del ruttare è considerato gravemente sconveniente, ma le cose, con l’avvento delle nuove generazioni, sono decisamente cambiate. Per non dire del fatto che, comunque, anche in precedenza si faceva largo uso dei rutti nelle opere cinematografiche, suscitando quasi sempre l’ilarità degli spettatori, a dimostrazione che l’avversione per la pratica era probabilmente più di facciata che sentita intimamente. In manifestazioni come quella di Rutto Sound, poi, si raccolgono fondi che vengono destinati in beneficienza, si distribuiscono premi per varie specialità di rutto (lunghezza, sonorità, parlato e così via) e ci sono tanti giovani che si fregiano apertamente del titolo di campioni.
Per queste persone, sicuramente ruttare costituisce l’esplicazione della propria personalità, sulla base della considerazione per cui ognuno ha i suoi talenti, anche in connessione come già ripetuto con il contesto in cui vive. Presso molte popolazioni, come noto, è considerato atto di grave maleducazione non ruttare alla fine di un pasto che è stato offerto, ciò che significherebbe che il pasto non è stato gradito.
Va anche considerato che potrebbero esserci ragioni mediche che giustificano, almeno in parte, la pratica, anche se dal racconto della nostra lettrice non pare sia questo il caso del marito.
In conclusione, comunque, credo che difficilmente l’abitudine di ruttare periodicamente, anche in presenza della prole, che generalmente impara a ruttare dai personaggi televisivi ancor prima di aver sentito i genitori, possa essere considerato motivo di addebito, anche se tutte le considerazioni di cui sopra andrebbero calate nel caso concreto, visto in tutti i suoi dettagli. Nell’incertezza che regna in materia, comunque, non resta che auspicare che ci sia al più presto un intervento del legislatore.
3 risposte su “Se il marito rutta tutto il giorno la moglie può chiedere la separazione con addebito?”
Il rutto si configura come violenza di genere ai sensi della Convenzione di Istanbul. Attal proposito esiste un precedente di uomo condannato per maltrattamento in seguito ad attività scoreggiva
????????????
Questo caso mi sembra emblematico per considerare..dove il diritto non può arrivare..
Da un lato come nota Tiziano, forse non può arrivare laddove vorrebbe la signora.
Per altri versi, invece, non credo che il diritto, qualunque contenuto potesse assumere una eventuale sentenza sul punto, potrebbe contribuire realmente al risolvere nel migliore dei modi il problema di questa famiglia.
Mi chiedo allora: ma al di là di quanto dichiarato, il Problema (con "P" maiuscola) è davvero il ruttare? Mi chiedo anche se si può buttare al macero una relazione per una cosa del genere…
Semplificare è tanto umano, quanto errato, specie se si vuol risalire alle motivazioni profonde e risolvere il problema.
Inoltre credo davvero che a questo punto il problema-rutto sia divenuto un aspetto polarizzante del conflitto: e più le parti si concentrano su di esso, più si allontanano e più il conflitto cresce. Mi pare la classica situazione relazionale in cui più una parte insiste perché un certo comportamento cessi e più il soggetto che dovrebbe cessarlo, invece, lo rivendica, lo enfatizza: non ha caso è stato rivendicato il "diritto a ruttare".
Insomma il gusto, la leva, il motivo, la scusa per ruttare è dato proprio dalla divieto: è una fenomeno noto. Pensate al proibizionismo (costumi alcolici aumentati) al divieto di fumo (molti, io compreso, cominciano proprio perché era "proibito" [e poi quando sono cresciuto ho smesso]…)…ed a tanti altri esempi..
Io non credo che quest'uomo passi la vita ruttando. Qualcos'altro farà: qualche pregio lo avrà. Ma se uno si concentra solo sugli aspetti negativi è impossibile vedere il bene che c'è nell'altro. Come diceva Pascal, "dal proprio punto di vista tutti hanno ragione".
Watzlawick sintetizzava, invece mirabilmente l'errore nel ridurre il comportamento incomprensibile degli altri alla pazzia o cattiveria. Io penso che né la moglie né il marito siano pazzi o cattivi: solo non si comprendono relazionalmente.
Temo che il ruttare nasconda qualcos'altro, forse un modo per affermare la personalità, il territorio, la volontà: se lasciamo sullo sfondo il problema-rutto, che tipo di relazione abbiamo?
Il mediatore non può fare miracoli se le parti si chiudono in se stesse e non riescono a maturare un cambiamento.
Quali sono i valori in gioco?
In una situazione del genere si potrebbero provare tante soluzioni, non che sia facile, ma potrebbe essere semplice: cambiare atteggiamento, spostare l'attenzione dal ruttare, parlare di se stessi evitando quello che di solito si fa in queste situazioni. Nardone lo chiama "il dialogo fallimentare"e questi sono gli ingredienti:
– recriminare
– puntualizzare
– rinfacciare
– predicare
– biasimare
Mi pare che in questa storia ce ne siano parecchi…
Al contrario esiste anche una ricetta "buona" che fa funzionare la relazione:
– chiedere verifica piuttosto che sentenziare (Caro perché rutti? Potrei credere che lo fai perché… ma potrei sbagliarmi…)
– evocare piuttosto che spiegare :
Moglie: invece di "I tuoi rutti mi fanno infuriare" .."I tuoi rutti mi provocano un grande dolore come di una pugnalata alle spalle, alla quale mi viene di reagire cercando di ferirti a tua volta"
Marito: "quando mi riprendi per i miei rutti, mi fai venire ancora più il desiderio di farlo. Come se tu mi dicessi di non assaggiare quella torta perché è troppo buona"…
Una sorta di dialogo strategico, ma ci vuole pazienza ed applicazione.
Ci sono dei figli, una famiglia. Sarebbe opportuno un cambiamento: quante volte sono andati in mediazione? Una volta sola? Hanno provato a stabilire una strategia comune? Fare un piccolo passo? Ogni grande viaggio (anche la scalata dell'Everest) inizia con primo, piccolo (apparentemente insignificante) passo.
Purtroppo, come si dice, costruire è più difficile che distruggere: questa storia fa male al cuore. La separazione sembra una scelta tanto ovvia quanto infelice: una famiglia sembrata senza che si sia fatto tutto il possibile. La medicina può sembrare amara, ma ha grandi potenzialità (IMHO).