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Un approccio strategico per i problemi legali.

Un nuovo approccio strategico per i problemi legali.

Oggi parliamo di un nuovo approccio nella trattazione dei problemi legali.

Dopo anni di pratica e riflessione, ho infatti man mano sviluppato un nuovo metodo, che potremmo definire strategico, per la trattazione delle situazioni conflittuali tra le persone, le aziende e i vari soggetti del caso.

Si tratta di un atteggiamento che, ormai, suggerisco e pratico già da alcuni anni con buono, e qualche volta eccellente, profitto e che mi sembra venuto il momento di «codificare» e condividere ufficialmente con te che leggi e segui il blog, oltre che più in generale con tutti.

Perché il diritto non ti serve quasi mai a niente.

Generalmente, chi si trova coinvolto in un problema legale si pone alla ricerca e all’approfondimento di «quello che dice il diritto» – cioè la legge, la giurisprudenza, ecc. – sul punto.

Ebbene, si tratta, quasi sempre, di un approccio sbagliato e destinato a rivelarsi molto infruttuoso nel giungere ad una soluzione del problema.

Quello che va focalizzato con molta chiarezza è che lo scopo di una persona o una azienda che si trova ad avere un problema legale non è, e non può essere affatto, applicare il diritto.

Come dice una cara e saggia collega: sticazzi del diritto.

Lo scopo di chi ha un problema legale è, molto semplicemente, risolverlo, superarlo e rimettersi a vivere, se è una persona, o a produrre, se è un’azienda.

Non importa come, purché sia in modo legittimo e conveniente.

Dopo ventidue anni che faccio l’avvocato, ti posso confermare infatti un dato statistico, al riguardo, molto interessante e cioè che raramente le vertenze vengono definite applicando il diritto.

Molto più spesso si fanno transazioni, sistemi alternativi (ADR), mediazioni, conciliazioni.

L’importante è che la vertenza sia chiusa, definita, accantonata, superata, se possibile in modo conveniente e in tempi abbastanza decenti.

Perché per affrontare un problema legale non devi fare mai quello che sarebbe giusto.

Un altro errore concettuale molto grave di chi ha un problema legale da risolvere, e spesso anche del suo avvocato, è quello di volerlo risolvere «facendo quello che è giusto».

Lo avrai sentito molte volte: «voglio solo quello che mi spetta»

Facciamo un po’ di chiarezza anche al riguardo.

Quando si ha un problema legale, si ha un problema. Non si hanno dei diritti.

I diritti non esistono, nessuno può dirtelo meglio di un avvocato.

Te la voglio fare chiarissima.

Se hai una spina infilata nel culo, non hai il diritto alla salute: hai solo una spina infilata nel culo.

Te la devi togliere prima possibile e basta.

Adesso stai attento: nella trattazione dei problemi legali, non bisogna mai fare quello che è giusto, ma bisogna fare quello che è conveniente.

Te lo ripeto, perché è fondamentale: nella trattazione dei problemi legali, non bisogna mai fare quello che è giusto, bisogna fare quello che è conveniente.

Ti faccio un esempio molto semplice.

Sei un’azienda. Hai un credito da recuperare. Le possibilità di recupero sono molto scarse. Il tuo tempo, la tua attenzione, il tuo denaro sono risorse limitate – questo è un aspetto molto banale ma altrettanto trascurato nella vita di tutti i giorni.

Vuoi utilizzare il denaro, il tempo, l’attenzione di cui disponi per provare a recuperare un credito che difficilmente potrai portare a casa solo «perché è giusto», «perché è una questione di principio»?

Non è, forse, preferibile fare ciò che conviene, piuttosto che ciò che è giusto?

Ciò che conviene non è probabilmente mettere a perdita il credito, usare il tempo e il denaro e l’attenzione di cui disponi per rimetterti al lavoro e servire i buoni clienti dell’azienda facendola prosperare?

Incaponirsi nel recuperare un credito non significa forse dare la parte migliore delle tue risorse a un cliente tossico, tralasciando peraltro al contempo quelli buoni, che invece si meritano il meglio da te?

Ti faccio ora un altro esempio.

Sei una persona coinvolta in una eredità con i tuoi fratelli. Le ipotesi di divisione elaborate dagli altri non ti convincono. Vuoi imbarcarti in una causa di divisione giudiziale, che dura magari vent’anni, o vuoi accontentarti di avere subito una porzione inferiore a quella che secondo te sarebbe giusto che ti venisse assegnata?

Forse, se confronti la differenza tra la «minor parte» che ti verrebbe data e quello che spenderesti per fare una causa che rischia di essere davvero ultradecennale, vedi che ti conviene pure anche concretamente, conti alla mano.

«Sì ma poi i miei fratelli così solo perché sono prepotenti alla fine hanno più di me e non è giusto

Mi sembra di sentirla questa voce.

C’è un piccolo giustiziere dentro ognuno di noi, formatosi direttamente sugli indimenticati banchi dell’asilo.

Chi lo ascolta, però, si trova a pagarne care le conseguenze. L’universo si incarica sempre regolarmente di ciò. Te lo dico sulla base della mia esperienza.

Tu non hai un problema legale per «fare giustizia», ce l’hai perché ti è capitato e ti devi limitare a risolverlo. Devi semplicemente uscirne nel modo migliore, non importa niente altro.

In realtà, infatti, nonostante tutte le idee, le invidie, i paragoni che ci vengono spontanei, noi non sappiamo pressoché nulla della vita degli altri.

In fin dei conti, se a un fratello rimangono due mobili in più che differenza fa nella qualità della vita di ognuno dei protagonisti della vicenda?

Ch differenza potrebbe mai fare nella tua vita?

Un problema è solo un problema.

Ecco dunque i concetti di base.

Chi ha un problema legale, non ha un diritto, non ha un’opportunità. Ha solo un problema, una situazione spiacevole da risolvere nel modo più conveniente possibile e, magari, in tempi rapidi, per tornare alla sua vita personale e/o professionale.

A chi ha un problema legale non deve interessare che il diritto venga applicato o rimanga lettera morta dentro ai testi di legge.

In realtà, questo non interessa nemmeno a chi scrive il diritto, che non lo formula certo con la pretesa che venga sempre applicato, ma solo come ipotesi residuale che si applica quando le persone non sono riuscite a far niente di meglio, dopo una causa poliennale, da parte di un giudice che non sempre lo interpreta, peraltro, in modo corretto.

Che il diritto venga applicato, o rimanga invece chiuso nei libri, in realtà non frega un cazzo a nessuno: l’importante è che i conflitti vengano risolti, magari con buona o discreta soddisfazione di tutte le parti coinvolte.

A chi ha un problema legale, inoltre, non deve interessare che sia fatta la cosa giusta, ma deve subito focalizzarsi sul capire che cosa è più conveniente per lui fare, come uscire da questa situazione.

Ti ricordi la exit strategy per toglierti la spina dal culo?

L’unica cosa su cui lavorare è la strategia.

Non siamo dei giustizieri, è un compito che non ci spetta, non ce lo possiamo assumere, se lo facciamo ne paghiamo care le conseguenze.

Siamo solo persone con dei problemi che devono cercare di saltarci fuori nel modo migliore possibile.

Ecco perché nella trattazione dei problemi legali la cosa più importante è la strategia che si deve adottare per la sua trattazione e perché quello che dice il diritto a riguardo non è, e non può essere mai, la strategia nonostante molte persone, e anche molti avvocati, facciano una enorme e dannosa confusione al riguardo.

La strategia è fatta di tutte quelle iniziative, di qualsiasi genere, stragiudiziale, giudiziale, creativo, che possono condurre alla risoluzione del problema, purché questo avvenga in modo conveniente per il cliente e che sia, naturalmente, legittimo.

Ecco perché non si può essere contrari in linea di principio a nessun metodo alternativo di risoluzione delle controversie.

Specialmente la mediazione civile, tanto osteggiata all’inizio da molti avvocati, in realtà nella pratica ha dato buona prova, un paio di mesi fa nello scetticismo generale ho chiuso in sede di mediazione addirittura una vertenza per contratti bancari.

Pur essendo un contenitore di negoziazione molto vacuo nei suoi tratti, ha comunque rappresentato uno spazio in cui i soggetti coinvolti nei conflitti si sono potuti esprimere in modo adeguato, spesso riprendendo a dialogare e trovando così delle soluzioni in tempi molto rapidi.

Ma questo è solo un esempio, i metodi possono essere e sono infiniti.

Quando persino Gesù mandò affanculo un cliente.

Devi far capo al fatto che i conflitti tra le parti non sono quasi mai dissidi interpretativi relativi a questa o quella legge, ma cose in realtà molto più umane e cioè conflitti emotivi fatti di cose molto semplici come rancore, invidia, presunzione, «a me non mi fanno fesso» e altre demenzialità del genere di cui siamo fatti noi uomini che viviamo su questa terra.

Se capiamo questo, si apre un immenso spazio di creatività per gli avvocati o comunque per le persone che aiutano privati ed aziende a risolvere i problemi giuridici.

Hai sentito parlare di Gesù Cristo?

Gesù ha guarito ciechi, zoppi, storpi, indemoniati, emorroissi, gente che aveva patologie del corpo e dell’anima estremamente gravi.

Un giorno da Gesù andò un tale che gli chiese una cosa molto semplice (Lc 12,13-21).

Era una tipica cosa da avvocato, un problema legale.

Gli disse «Maestro buono, aiutami a fare la divisione con mio fratello».

Sai cosa gli rispose Gesù?

Lo mandò immediatamente affanculo, senza passare nemmeno dal via.

Gli chiese «Ma chi mi ha costituito mediatore tra di voi?» che, in Italiano moderno, significa più o meno «Ma chi ti conosce, a te e a tuo fratello?»)

E poi si lanciò subito dopo a parlare della cupidigia, per dire che alla radice dei problemi e dei conflitti umani ci sono solo le nostre pochezze.

Spero che questo brano ti sia piaciuto. Io peraltro lo uso spesso  quando mi chiedono di lavorare gratis per qualcuno: se pure Cristo, che ha guarito addirittura da legioni di demoni del tutto gratuitamente, si è rifiutato di fare l’avvocato gratis, chi sono io per credermi migliore di lui?

Comunque, sempre Gesù, quando gli chiesero se fosse lecito divorziare, disse di no (Mt 19,3-12). Quando, a quel punto, gli fecero presente che Mosè aveva eppure previsto il divorzio, lui rispose che fu previsto «solo per la durezza dei vostri cuori».

Di nuovo, cosa ci fa capire questo?

Una grande verità, che tutti i conflitti non hanno, in realtà, alcuna ragione oggettiva, ma si radicano nel cuore malato o ferito (non c’è altra parola per dirlo!) degli uomini che ne sono protagonisti.

Dio ti può guarire un problema fisico, ridarti la vista, la deambulazione, può persino liberarti da un demone, ma non può farti fare delle scelte che tu stesso non vuoi fare perché c’è il libero arbitrio. L’uomo, per costituzione, deve essere libero di rovinarsi, perché solo così può aver senso la sua scelta, opposta, quella di amare.

Ecco perché Gesù manda affanculo quello che gli aveva chiesto di aiutarlo a dividersi dal fratello. Quell’uomo avrebbe dovuto lavorare su se stesso e parlare con suo fratello. Gesù si limita a parlare della cupidigia, dandogli la chiave per lavorare sul suo cuore, ma questo lavoro sul suo cuore lo può fare solo l’uomo stesso. Dio può perdonare i peccati del passato, ma il compito di pentirsi e di tornare a vedere la bellezza del Regno può essere svolto solo dall’uomo.

Va bene Gesù, Cristo e la Madonna ma allora come muoversi?

Torniamo dunque alle nostre domande.

Quando si ha un problema legale, le domande che non ti devi sostanzialmente mai fare (e che invece si fanno quasi tutti) sono le seguenti:
– cosa prevede la legge, la giurisprudenza, stocazzo sul punto?
– cosa è giusto fare?

Le domande che ti devi fare sono piuttosto:
cosa mi conviene fare adesso?
come è meglio muovermi?
da chi mi posso far aiutare per superare questo problema?

Qual è, insomma, la strategia migliore da adottare, a prescindere dal diritto, da quello che sarebbe giusto, per togliermi questa rogna (l’Italiano è una lingua bellissima, chiamiamo le parole con il loro nome) di dosso?

Ecco perché è inutile perdere ore e giorni a cercare di capire cosa prevede il diritto su un determinato tema ma è preferibile, ad esempio, mandare subito una diffida con cui si apre la vertenza e si inizia una negoziazione e cioè, più in generale, passare subito all’azione.

L’azione è la cosa più importante per trattare qualsiasi problema. I problemi legali non fanno eccezione, anzi forse per loro è ancora più importante.

Prendi subito un avvocato: basta «solo» che non sia un idiota.

Ovviamente, il primo, spesso anche l’unico, e più importante gesto strategico di chi ha un problema legale è quello di a) capire che i problemi legali si trattano solo facendosi aiutare da un avvocato e non in altro modo e b) sceglierne uno bravo.

Già capire che non è il caso di perdere tempo con sistemi alternativi demenziali (Carabinieri, Polizia municipale, cuggggini, ecc.) è un momento di alta importanza, come ho spiegato meglio in questo precedente post.

Un altro grande momento magico è capire che, nella scelta di un avvocato, non contano le specializzazioni, perché nessuno ci capisce un cazzo nelle specializzazioni se non è del settore, anche perché spesso non ci capisce niente nemmeno chi è del settore, ma anche perché gli approcci non olistici hanno mostrato tutti i loro limiti in tutti i campi, a partire ad esempio da quello della medicina.

L’unica cosa importante è: scegliere un avvocato che non abbia la testa piena di segatura.

Non è così facile, per la verità, ma con un po’ di impegno ce la puoi fare.

L’avvocato, una volta incaricato, sceglierà e consiglierà attingendo da un vasto carniere di interventi possibili la strategia migliore.

Tutto può far brodo!

Può essere che consigli il cliente di:

  • parlare di persona
  • attendere
  • utilizzare la mediazione di un familiare, un sacerdote, un amico di famiglia, chi ti pare
  • inviare una lettera scritta con il suo aiuto ma firmata dal cliente
  • inviare una lettera con la carta intestata dello studio legale
  • iniziare una causa per sbloccare una negoziazione (io l’ho fatto molto spesso, specie nel campo delle separazioni)
  • fare una o più telefonate
  • iniziare una mediazione familiare o civile
  • iniziare una causa perché è l’unico sistema e allora si va a scegliere quale causa se con rito ordinario o con il 702 bis, se fare una CTU preventiva, ecc. ecc. ecc.
  • qualiasi altra cosa che sia lecita e possa essere utile a risolvere il problema

L’unica cosa che importa è che lo strumento scelto sia quello che appare più opportuno per la strategia di risoluzione del problema, che è quello di superarlo senza considerare l’eventuale applicazione del diritto o il raggiungimento di una soluzione equa, ma semplicemente di una soluzione conveniente.

Iniziare prima possibile a lavorare sul problema: la fase del fare.

L’approccio strategico da me proposto e praticato ormai da diversi anni consiglia e consente generalmente comunque di passare prima possibile alla fase dell’azione, a quella del fare, che, come è importante per tutti i problemi, è fondamentale anche per quelli legali.

È perfettamente inutile lambiccarsi il cervello per ore, giorni, settimane ed anni per cercare di capire cosa sarebbe giusto fare, cosa prevede il diritto sul punto.

È molto meglio, invece, passare subito all’azione, cioè a trattare concretamente il problema, con uno degli strumenti elencati prima, magari anche molto semplici e poco «invasivi» come una telefonata, una lettera e così via.

Non trascurare i problemi, non crogiolarti nell’apatia, non indugiare nelle lamentele!

Vai prima possibile da un avvocato.

Pur con tutte le incertezze che ci sono sempre in questi casi, è importante iniziare comunque prima possibile a lavorare sul problema.

Ci sono problemi che sulla carta, dentro ai nostri cuori, sembrano irrisolvibili, giganteschi, terribili, salvo poi scoprire che con un paio di mosse giuste, azzeccate e magari un po’ di fortuna si avviano a risoluzione molto più semplicemente di quello che pensavamo.

È una esperienza che abbiamo fatto tutti.

Quindi l’imperativo è: muoviti.

Senza fretta, ovviamente, ma nemmeno senza aspettare senza che in realtà vi sia nessun motivo per farlo.

Prima ci si comincia a lavorare sopra e prima si finisce.

La breve ma fondamentale fase dell’ascolto.

Nel mio approccio strategico, l’analisi del problema passa in secondo piano.

Ovviamente c’è, comunque, necessariamente una fase di analisi e soprattutto di ascolto del cliente, che è molto importante, ma dopo un primo incontro si può, anzi si deve, già iniziare a lavorare concretamente sul problema senza bisogno di approfondimenti ulteriori.

L’analisi di un problema, peraltro, è bene che non si protragga più di tanto, perché, specialmente in persone provate da anni di situazioni di disagio, rischia di far rivivere questo disagio quando magari si stava sopendo, cosa che è deleteria perché per risolvere il problema il cuore dei protagonisti deve essere il più possibile «rinfrescato» e alleggerito.

Servono avvocati in grado di capire i termini umani del problema dopo massimo mezz’ora di ascolto e in grado ulteriormente di tracciare delle indicazioni strategiche entro la conclusione del primo incontro, per iniziare subito dopo a lavorare in concreto sul problema.

Ogni incontro si deve concludere con la definizione di un prossimo passo. Cioè con la individuazione della cosa da fare come prossima mossa. Prima si parla insieme, poi si decide insieme che cosa fare. Così semplice.

Hai un problema legale?

Se hai un problema legale, e hai letto attentamente sino a qui, ti sarà chiaro che è bene passare prima possibile a lavorarci sopra con un bravo avvocato.

Se vuoi un preventivo da parte del nostro studio, puoi chiedercelo compilando questo modulo. Ovviamente è gratuito.

Se, invece, preferisci acquistare direttamente un’ora o più della nostra attenzione sul tuo problema, puoi valutarlo da questa pagina.

Vuoi diventare un avvocato ad indirizzo «strategico»?

Se sei un avvocato e ti piace questa impostazione, contattami in privato. C’è un importante progetto al riguardo di cui magari potremmo parlare.

Ringraziamenti.

Si ringrazia la collega Sara Mascitti del foro di Latina per gli opportuni chiarimenti sull’uso più corretto del termine «sticazzi».

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Counseling: molto utile per chi ha un problema legale.

Sapete che da sempre valutiamo e pratichiamo sistemi alternativi o complementari alla pratica legale classica. Nelle domande di assistenza che ci rivolgono i clienti, non vediamo solo casi giuridici, ma problemi umani, come tali bisognosi di una soluzione o almeno di essere trattati, qualunque sia il metodo o il campo dal quale possa provenire lo strumento adatto. Mediazione famigliare, mediazione civile, supporto psicologico e adesso anche counseling, un altro supporto che stiamo valutando e che giudichiamo estremamente interessante. Ospitiamo pertanto questo intervento di Silvia Gibellini che ci spiega che cosa è il counseling e perchè può essere molto utile a chi ha un problema legale. (ts, 23 gennaio 2016)


 

 

In particolari fasi della propria vita ci si trova ad affrontare problematiche complesse che coinvolgono la persona da molti punti di vista. Un aspetto spesso quasi o del tutto trascurato è quello emotivo che pure governa il 90% delle decisioni prese.
La sfera emotiva guida moltissime decisioni, non soltanto di tipo più personale (es. separarsi o non separarsi; dividere i beni che ci sono pervenuti in eredità in modo da fare o non fare un dispetto agli altri eredi; comportarsi in un certo modo col vicino di casa con cui si litiga o col collega di lavoro, gestire i rapporti con i soci della propria società in caso di
disaccordo) ma anche in ambiti teoricamente più asettici, dove apparentemente solo la razionalità dovrebbe comandare.
Di solito, ci si rivolge all’avvocato che, in qualità di esperto giuridico, è in grado di consigliare la scelta più aderente alle
norme. A volte però questo può non essere sufficiente proprio perché le parti sono coinvolte in dinamiche conflittuali che
se non opportunamente gestite sconfinano in ulteriori problemi di allungamento dei tempi delle cause, maggiori costi,
malessere…
Ecco che in queste situazioni entra in campo il Counselor che ha la funzione di accompagnare la persona a scoprire ed
attuare strategie alternative che le consentano di raggiungere un obiettivo definito o la risoluzione di un problema; offre
l’opportunità di rinforzare la capacità decisionale, indispensabile per intraprendere strade volte al raggiungimento di
nuove mete.

Il counseling NON è un intervento psicologico o psicoterapeutico. Il Counselor è una figura che viene formata in apposite
scuole e che segue un percorso di studi triennale.

Il servizio prevede che nei primi colloqui con il cliente, l’avvocato sia affiancato da un
Counselor al fine di effettuare un’analisi maggiormente accurata delle dinamiche del problema presentato non solo dal
punto di vista giuridico-legale, ma anche nelle sue implicazioni emotive e relazionali.

In seguito il cliente potrà, avvalersi nuovamente della competenza del Counselor come figura di supporto decisionale per
mettere e fuoco le proprie esigenze e necessità personali, per gestire le emozioni, per sostenere , ad esempio in caso di
separazione o di problematiche legate all’affidamento dei figli, la funzione genitoriale.

Focalizziamo ancora più dettagliatamente.

Il counseling può rappresentare un valido supporto nei casi di separazione per:
– aiutare a fare chiarezza e a distinguere i propri obiettivi, le necessità personali, a gestire le emozioni e a stare nel
conflitto in un modo più equilibrato e sano sviluppando anche le capacità di negoziazione. Molte dinamiche conflittuali
non gestite, contribuiscono ad allungare i tempi della separazione e, conseguentemente anche i costi della causa.
– Supportare la funzione genitoriale: uno degli aspetti più problematici della separazione è senza dubbio legata ai figli e
alla capacità di dare loro spiegazioni, supportarli , proteggerli e guidarli nel delicato processo di separazione garantendo
loro
il
maggior
equilibrio
possibile
all’interno
di
un
vissuto
doloroso
e
complesso.

Altri ambiti di intervento sono tutti quelli in cui è necessario gestire con competenza la negoziazione e il conflitto: per esempio, i rapporti con familiari a vario livello, le successioni, i rapporti fra vicini, fra assistito e badante, nei rapporti di
lavoro fra colleghi.
Un approccio interdisciplinare dunque, che permette di affrontare in modo globale le esperienze complesse ed
offrire così al cliente un’assistenza altamente qualificata

Il counseling è un’attività professionale (riconosciuta e regolata dalla Legge 4/2013), che ha la finalità di orientare,
accompagnare, sostenere e sviluppare le potenzialità del cliente promuovendo atteggiamenti positivi, propositivi e
stimolando le sue capacità di scelta verso il raggiungimento di un obiettivo o verso la soluzione di un problema,
utilizzando strategie alternative e rinforzando la capacità decisionale.

Il termine deriva dal latino “cum” e “solere” (alzare, sollevare con..) , ossia “consolare, confortare, venire in aiuto”, e
quindi ‘aiutare altri a sollevarsi’, a superare una situazione di crisi.

E’ una nuova figura professionale che si aggiunge nel panorama ormai ricco, dei servizi di aiuto, di sostegno e di
solidarietà alle persone in stato di disagio (esistenziale e/o sociale). Alle note figure degli Assistenti sociali, dei Consultori
familiari, dei Mediatori familiari, degli Amministratori di sostegno, dei Tutori e Curatori, dei professionisti in genere
Psichiatri, Psicologi, Psicoterapeuti, Avvocati, etc.) si aggiungono quindi i Counselor, recependo una figura che è nata
nella realtà americana e anglosassone ed è approdata in Italia agli inizi degli anni ‘90.
Il tutto per un’assistenza alla persona che, potrei definire, “dalla culla alla tomba” a 360 gradi!

Non è da confondere con la professione dello Psicologo/Psicoterapeuta in quanto i primi due utilizzano strumenti
conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico
rivolte alla persona e al gruppo (quindi= con somministrazione di test per individuare particolari aspetti del
funzionamento della psiche), il counseling è invece un incontro tra due persone (il Counselor e il cliente) che grazie ad un
dialogo professionale, instaurano una relazione che favorisce nel cliente la capacità di individuare, riconoscere e
ristrutturare il problema estrapolando dal cliente stesso le risorse che occorrono per superarlo.

Non siamo nell’ambito della ‘cura’, bensì in quello del ‘potenziamento decisionale’. La risposta finale, la soluzione
emergerà dal cliente stesso alla luce della propria aumentata conoscenza e consapevolezza di sè favorita dallo scambio e
dai feed-back offerti dal Counselor durante il colloquio.

Attraverso la tecnica ‘dell’ascolto attivo’ il cliente stesso impara ad allargare i propri orizzonti i propri confini mentali
cambiando la propria visione del problema, individuando nuovi modi per affrontarlo e risolverlo in un ambiente protetto
dove può essere se stesso , accettato, non giudicato qualsiasi cosa dica e VERAMENTE ascoltato.

E’ un ‘colloquio di aiuto’, non è una discussione, non è un’intervista, non è un interrogatorio, non è un discorso
dell’intervistatore, non è una confessione, non mira a una diagnosi, l’obiettivo è ‘abilitare’ il cliente a prendere da solo
una decisione riguardo a scelte di carattere personale o professionale, a situazioni bloccate e bloccanti che lo angustiano
e limitano o abbassano in modo significativo la qualità della sua vita e il suo benessere.

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Giustizia immediata, rapida, senza stress: nasce cumSolvere.

È molto più importante che la giustizia sia rapida, immediata, piuttosto che giusta, equa.

Il prodotto di un sistema giudiziario valido non è la bontà delle sue decisioni, ma la definizione dei problemi e il superamento degli stessi.

Esattamente come avveniva nelle situazioni tribali, dove ci si rivolgeva al capo villaggio e ogni questione veniva sistemata in poche ore, sistemi giudiziari di gran lunga superiori a quelli statuali moderni. Quello che non va bene è il grado enorme di stress per chi è parte di una vertenza, prolungato per anni.

Per molte persone, per quasi tutti, sarebbe di gran lunga preferibile decidere le proprie vertenze lanciando una monetina, facendo una partita a scacchi o anche a cazzotti, piuttosto che spendere migliaia di euro, dover avere a che fare con avvocati, giudici, cancellieri, burocrazia, tasse, provvedimenti incomprensibili, norme di diritto.

La misura della giustizia deve ritornare ad essere l’uomo e non la giustizia in sé.

Il diritto è uno strumento dell’uomo, non viceversa!

Non cercate mai di fare quello che è giusto, ma, nei limiti del lecito, fate sempre quello che vi conviene, che vi aiuta davvero a risolvere il problema. In nessun settore della vita una persona sana di mente si mette in testa di risolvere i suo problemi facendo quello che «è giusto»: provate a pretendere dai vostri figli, dal vostro coniuge quello che «è giusto» e vedrete come andrà a finire… Quando invece uno si trova ad affrontare un problema legale, vuole «quello che è giusto» e si taglia i coglioni da solo con una grossa mannaia!

È riflettendo su queste cose che ho creato cumSolvere, un sistema di risoluzione alternativo delle controversie, per il cui funzionamento più in dettaglio rimando alla scheda relativa. cumSolvere potrebbe davvero rivoluzionare il settore e dare un senso ancora più compiuto a tutto quello che ho fatto da venti anni a questa parte nella pratica forense.

Evviva noi, e buon 2016 a tutti!

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[guest post] Il problema conflittualità tra limiti del diritto ed etica forense.

Oggi una occasionale “convergenza” giornalistica permette di mettere bene a fuoco un problema poco denunciato e poco studiato: l’impatto del diritto sulla conflittualità.

Il Corriere della Sera riporta gli eccessi di intolleranza che sfociano in istanze punitive che, se non fossero reali, rasenterebbero il ridicolo, mentre la Stampa a margine della triste vicenda di Cittadella, pubblica (a pag. 29 della versione cartacea) un intervento di Carlo Rimini dal titolo “Il mediatore che manca per i figli contesi”. Il professore nota come “Tutti coloro che operano a contatto con la crisi della famiglia sanno che il nostro diritto ha una grave lacuna che neppure la legge sulla filiazione approvato nel dicembre scorso ha affrontato. Non esiste infatti una struttura in grado di gestire il conflitto quotidiano  fra genitori separati, evitando che questi diventino irrisolvibili. L’autore suggerisce l’istituzione di “un ufficio incaricato di seguire tutte le famiglie separate in cui vi è un acuto contenzioso relativo ai figli”.

Potrebbe essere una soluzione che però, come spesso accade, prevede un intervento Statale e una certa “istituzionalizzazione” del conflitto; magari in altre nazioni esiste un servizio simile ed è “giusto” ispirarsi a quelle nazioni che riescono a fornire servizi sociali migliori dei nostri. Tuttavia questa non è l’unica soluzione e di certo non intercetta il micro-conflitto quotidiano che resta nascosto tra agnolotti mal fatti o puzze condominiali.

Non è “corretto” accostare un conflitto grave (il bimbo conteso) con uno – apparentemente – banale come quello tra vicini?

Lo è nella misura in cui si considera che il conflitto è un fenomeno del tutto naturale nell’ambito delle relazioni umane e quindi perfettamente fisiologico, ma che, in certe situazioni, in cui sono coinvolti certi soggetti, può divenire patologico. La cosa grave è che quando un conflitto non si risolve subito e facilmente, allora, una o entrambe le persone in esso coinvolte, si rivolgono alla legge, pensando che questa stia lì a risolvere i loro problemi. Ma le cose stanno davvero così? Il diritto, il processo, gli avvocati sono al servizio del conflitto?

Temo proprio di no: il conflitto non vive nel dominio giuridico che, al contrario, non intercetta, considera o interagisce con gli elementi di cui il conflitto è composto, per i seguenti motivi.

  • L’ordinamento giuridico è costituito di un insieme di disposizioni che per definizione vanno interpretate ed applicate al fine giungere ad un sentenza che – in occasione della presentazione del libro “La comprensione del diritto” di Giuseppe Zaccaria è – stato definito dal Vice Presidente della Corte Costituzionale “un  provvedimento per la rimozione autoritativa del dubbio” (circa la “giusta” interpretazione). Nessuno spazio per emozioni, stati d’animo o sentimenti che, al contrario rilevano, semmai, come “aggravanti”.
  • Il conflitto nasce per problemi di comunicazione, difficoltà ad interagire costruttivamente per la risoluzione dei problemi, scarsità di risorse ed emozioni negative. Nel caso delle coppie, ma il discorso può essere esteso a qualsiasi organizzazione o comunità, è proprio la capacità di gestire efficacemente il conflitto a denotare la solidità della relazione.
  • La magistratura, tranne qualche isolata eccezione, non si cura delle persone, ma si limita – forse correttamente su un piano dogmatico – ad interpretare ed applicare le disposizioni di legge. Se questo porta sofferenza ai soggetti coinvolti direttamente e indirettamente o acuisce il conflitto è un problema che non sembra riguardare il giudice che si deve limitare a mettere una parola “fine” al processo. Il che non assicura affatto che finisca il conflitto.
  • Come nota William Ury (antropologo esperto di conflitti di fama internazionale, co-fondatore del Program on Negotiation presso l’Università di Harvard) il conflitto è di tutti, ma nessuno riesce davvero ad accoglierlo: non vogliono o possono farlo i vicini, i parenti, la comunità e così lo si trasferisce in un tribunale, producendo quel che il filosofo Eligio resta ha definito “tribunalizzazione del conflitto”. Nelle culture che noi definiamo arretrate e che vivono ancora oggi in una dimensione tribale, al contrario, il conflitto viene condiviso tra tutti i membri: il problema (ri)diventa di tutti. Il prof. Rimini pensava ai costi sociali, io invece penso ai costi umani: quando il conflitto oltrepassa un invisibile – per i non esperti – linea (ad esempio quella tra il 4° e 5° grado della cd. “Scala di Glasl”), diventa realmente distruttivo e si autoalimenta in una spirale senza fine dove l’autodistruzione a patto di far perire l’avversario è davvero un obiettivo.

 Ho lasciato fuori un protagonista: l’avvocato, che spesso è il primo a ricevere (il che non significa accogliere e risolvere) il conflitto. Egli potrebbe fare come il magistrato, con il quale condivide la formazione giuridica, estrapolando le questioni di diritto e lasciando fuori (davvero?) gli aspetti emotivi e relazionali. Comportamento ineccepibile giuridicamente e deontologicamente:  ma diritto e deontologia sono tutto? Qualcuno potrebbe dire – forse con un filo di cinismo – che sono anche “troppo” per un avvocato: io, invece, penso che siano troppo poco: senza una visione e una riflessione etica, infatti, il diritto da solo non riesce a risolvere i conflitti. E se lo Stato non fornisce un servizio in grado di rispondere a questa esigenza, certamente nulla impedisce all’avvocato di farlo di sua spontanea iniziativa: esistono centri di mediazione familiare in cui operano professionisti (veri) del conflitto, persone appositamente formate per gestire situazioni anche molto delicate. L’importante è non arrivare troppo tardi, quindi, il ruolo dell’avvocato è doppiamente delicato, non solo perché ha il potere di intercettare il conflitto, ma anche perché lo fa per primo: essere invitati ad andare in mediazione familiare dal giudice, significa andarci in una fase piuttosto avanzata della malattia il che può compromettere le possibilità di guarigione.

Come ben sanno gli esperti di conflitto, non tutti i conflitti possono essere risolti, ma tutti possono essere prevenuti. E’ vero, le facoltà di giurisprudenza non forniscono nozioni in tema di conflitto e raramente ne danno in materia di mediazione: ma l’errore dell’accademia può giustificare quello dell’avvocato o giustificare la sua inerzia?

Attendere un servizio pubblico senza fare nulla è moralmente ed eticamente corretto? Nei conflitti piccoli ed in quelli grandi spesso ci sono avvocati che in perfetta buona fede non si rendono conto – giacché è un fenomeno che non conoscono “professionalmente” – di quale efficacia perversa può avere il diritto nelle dinamiche conflittuali.

Ci sono le banche etiche, il bilancio sociale, la bioetica e la neurotica: occorre anche un diritto etico nei confronti del conflitto. O almeno un’avvocatura etica. Si può fare. Con qualche sforzo, ma senza rinunciare a nulla in termini economici e di prestazione professionale. Insieme, circa 250.000 avvocati potrebbero determinare una svolta.