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Legame di affinità: cessa con la morte?

devo chiedere la residenza presso la mia matrigna vedova, all’anagrafe mi hanno detto che devo scrivere Non sussistono rapporti di coniugio, parentela, affinità, adozione, tutela o vincoli affettivi con i componenti della famiglia già residente in quanto mio padre è deceduto. Ho fatto delle ricerche in rete che dicono che c’è affinità, è giusto ? Lo chiedo perché se fosse vero quello mi hanno detto all’anagrafe si creerebbero due nuclei distinti e in tale caso io potrei chiedere l’esenzione del ticket per reddito

L’affinità è la relazione che lega un coniuge ai parenti dell’altro coniuge.

Un legame non di sangue, dunque, ma mediato da un matrimonio con effetti civili.

Secondo il codice civile, «L’affinità non cessa per la morte, anche senza prole, del coniuge da cui deriva, salvo che per alcuni effetti specialmente determinati. Cessa se il matrimonio è dichiarato nullo, salvi gli effetti di cui all’articolo 87 n. 4» (art 78, comma 3°).

Se ho ben capito, questa donna, che definisci la tua «matrigna», aveva sposato tuo padre, determinando la nascita di un rapporto di affinità tra di voi.

Dal momento che dici che ora è vedova, immagino che tuo padre sia nel frattempo purtroppo deceduto, ma il rapporto di affinità, a mente del codice civile, permane tra di voi.

Per quanto riguarda le disposizioni di stato civile, si tratta di aspetti che andrebbero approfonditi: ti consiglio di parlarne con i funzionari dell’ufficio di stato civile e, solo se del caso, di acquistare una consulenza da un avvocato per un adeguato approfondimento.

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Divorzio consensualizzato: si può impugnare?

ieri mi sono recato in tribunale con la mia ex moglie per la prima Udienza Presidenziale di divorzio giudiziale da me richiesto.
Il giudice ha deciso che la ns. non era una causa per la quale si dovevano discutere mantenimenti o condizioni all’inifinito, pertanto ci ha proposto di raggiungere un accordo in sede di udienza per chiudere il tutto quel giorno (accordo sfavorevole per la mia ex visto che chiedeva un mantenimento elevato sia per lei che convive che per ns. figlia che lavora, a tempo determinato, ma lavora).
Tale accordo però è stato accettato sia da me che dalla mia ex.
Avrei due domande:
In pratica è come se il divorzio da giudiziale si fosse trasformato in consensuale?
Nonostante lei fosse d’accordo e non sia stato fatto firmare l’atto di aquiescienza, potrebbe comunque impugnare la sentenza entro 30 gg dalla notifica del ns. avvocato?
Il mio avvocato dice di no, ma non lo vedo molto convinto.

Purtroppo non posso darti maggiori informazioni di quelle che può darti il tuo avvocato, che ha partecipato all’udienza, ha visto il provvedimento del presidente e conosce sia il fascicolo che il tuo caso.

In generale, c’è da dire che sei stato molto fortunato a trovare un giudice del genere, che si è prodigato per farvi consensualizzare subito il divorzio: ti sei risparmiato anni inutili di lite, che purtroppo molte altre persone si devono sorbire.

Come sia avvenuta la consensualizzazione di preciso non lo so, può darsi che vi abbia fatto andare a conclusioni congiunte come avviene nella maggior parte dei casi, in questa ipotesi deve comunque ancora essere scritta e depositata la sentenza relativa.

Al di là della impugnabilità o meno della sentenza o dell’altro provvedimento che si è formato nel tuo caso, di cui potremmo discutere a lungo, ma comunque poco utilmente, se solo sapessimo di preciso cosa è accaduto, è estremamente improbabile che un coniuge possa impugnare una soluzione di tipo consensuale e, soprattutto, è ancor più improbabile che la sua impugnazione possa mai venire accolta.

A naso, direi che abbia dunque ragione il tuo avvocato e che tu possa stare tranquillo ed essere grato per come sono andate le cose.

Ovviamente per poter dire di più bisognerebbe vedere il verbale, il provvedimento e il fascicolo, cosa per fare la quale dovresti acquistare una consulenza, ma non credo proprio, onestamente, che ne potrebbe valere la pena.

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Mantenimento dopo nuova convivenza: si può chiedere?

il mio compagno ha fatto ricorso per divorzio giudiziale dopo 10 anni di separazione (lei ostacolava in tutti i modi un consensuale).
La prima udienza sarà a gg.
Hanno due figlie di cui una con un bimbo e residente dal padre, mentre l’altra residente dalla madre.
In fase di separazione ognuno si impegnava a mantenere una figlia (senza pretendere spese né ordinarie ne extra dall’altro)
Lei si è costituita chiedendo:
-350€ per lei (si sta facendo licenziare dopo 15 anni poiché dice di non poter piu’ lavorare – con certificati medici)
– 350€ per la secondogenita residente con la madre,un lavoro a tempo determinato con il quale prende 1500€, scadrà a Luglio
-2500€ x spese arretrate straord.
Lui chiede:
-150€ di mantenimento per la figlia (prende 1000€/mese c/contratto fino a luglio) e 150€ per il nipote residenti con lui)
Può lei prendere il mantenimento nonostante conviva da 10 anni con un altro e hanno una figlia insieme?
e i mantenimenti per le figlie?

Secondo la giurisprudenza pressoché costante, la nuova convivenza determina il venir meno della solidarietà post coniugale, con conseguente impossibilità di richiedere un mantenimento per il coniuge che vive con un nuovo compagno.

Se, infatti, il coniuge dopo la separazione o il divorzio, forma un nuovo nucleo familiare, di fatto o di diritto, tramite celebrazione di un nuovo matrimonio, non si vede perché, in caso di bisogno, questo coniuge debba continuare a farsi aiutare dall’altro coniuge, dividendo attualmente la vita con un nuovo compagno, cui toccano i relativi doveri di solidarietà, a livello etico nella convivenza, giuridico nel matrimonio.

Secondo una pronuncia di Cassazione del 2015, peraltro, una convivenza con una certa durata esclude la possibilità di richiedere di nuovo il mantenimento al precedente coniuge anche dopo la sua eventuale cessazione… Anche qui è facile capire che una solidarietà post coniugale non può durare per sempre, specialmente se nel frattempo il coniuge ha avuto rapporti stabili, duraturi e importanti, tanto che il rapporto con l’ex coniuge è molto sfilacciato ed allentato e non si può certo farlo rivivere solo quando si tratta di percepire del denaro.

Il mantenimento per i figli può sempre essere chiesto, ma bisogna vedere se ci possono essere i presupposti. In sede di divorzio, invece, non si possono affatto chiedere arretrati di spese straordinarie.

Mi sembra una situazione che ben avrebbe dovuto e potuto essere gestita consensualmente, probabilmente uno dei coniugi si è impuntato su richieste che non hanno tanta ragione di essere, facendo perdere, come spesso accade, tempo e soldi a tutti.

Non credo che vi serva un avvocato per la gestione di questa fase del divorzio, dal momento che avete già un difensore che mi pare abbia impostato correttamente ogni cosa, ma se mai doveste averne bisogno, anche a livello di un secondo parere, potete chiedere un preventivo compilando il modulo apposito nel menu principale del blog.

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Casa coniugale: il giudice può ordinarne la vendita?

chiedo un consiglio per il mio compagno. separato consensualmente da 3 anni, in sede di separazione lui e la ex moglie hanno convenuto che lei rimanesse a vivere nella casa coniugale, con la bimba di 4 anni, e che lui andasse a vivere altrove, affidamento congiunto. pagano il mutuo contratto insieme prima del matrimonio, dividendo equamente la rata al 50% totale circa 600€ e inoltre lui passa alimenti per la bambina per circa 300€ mese, per differenze salariali, oltre a pagare anche metà delle spese condominiali. la bimba passa metà del suo tempo con il papà e con la mamma. ma mentre la mamma vive in un tre locali, il papà vive a casa dei nonni, con la bimba. ora il papà vorrebbe divorziare, ma ci chiedevamo se fosse possibile chiedere al giudice di disporre la vendita della casa e che ognuno poi viva come crede, per liberare il papà dal mutuo e permettergli di vivere una situazione educativamente corretta nella quotidianità con la bimba.

Non è possibile, il giudice della separazione non può intervenire, tantomeno d’imperio su aspetti proprietari o dominicali.

È una cosa che potete ottenere solo attraverso negoziazione con la madre, che, ovviamente, trovandosi, di riflesso, in una posizione di vantaggio, perché gode interamente di una casa che è solo per metà sua, non è così facile che possa accettare.

Ma non è detto che sia impossibile, in molte situazioni il coniuge interessato acconsente ad una vendita e una ripartizione del ricavato, magari perché vuole sistemare definitivamente la questione e comprarsi una casa che, per quanto magari più piccola, possa essere di sua proprietà esclusiva.

La risposta, dunque, è che, come al solito, non esistono strumenti magici e immediati, ma ci si può solo provare.

Quello che dovete fare è incaricare un bravo e onesto avvocato che, magari approfittando della necessità di fare il divorzio, provi a trattare anche la questione della vendita della casa.

Se volete un preventivo dal nostro studio, potete compilare il modulo apposito nel menu principale del blog.

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Divorzio in comune senza mantenimento: può chiederlo dopo?

sono divorziato dal 2017 da un matrimonio in regime di separazione dei beni. Io e la mia ex abbiamo usufruito del divorzio breve consenziente in Comune, entrambi eravamo d’accordo di non farci affiancare da un avvocato e non abbiamo stabilito nessuna condizione economica, tipo assegni di divorzio e di mantenimento, in quanto senza figli ed entrambi autonomi lavorativamente parlando. Semplicemente lei si è presa le cose di sua proprietà io mi sono tenute le mie. La mia domanda ora è questa: può la mia ex , alla luce di tutto questo, andare in tribunale e richiedere un mantenimento o un qualsiasi risarcimento? Lei convive con un altro uomo da quando abbiamo ottenuto il divorzio, io invece mi sono risposato. Siamo sempre stati in buoni rapporti finora, ma temo che questo suo nuovo compagno possa indurla a fare tali richieste.

Personalmente, come sa chi segue regolarmente il blog, sono abbastanza sfavorevole alla separazione e divorzio in comune senza alcuna assistenza da parte di un avvocato, proprio perché, al di là dell’operazione in sé, ci sono alcune cose da capire che, senza l’intervento di un legale, sono destinate invece a rimanere oscure e a genere, di conseguenza, dei problemi.

Purtroppo, quando dico che separarsi o divorziare in comune è sconsigliabile, le persone, non conoscendomi e non sapendo che spesso consiglio cose contro il mio interesse, pensano che, al contrario, voglia solo guadagnarci.

In realtà, un buon compromesso, che poi è quello che consiglio in questi casi, potrebbe essere quello di fare separazione e/o divorzio in comune, ma chiedendo al contempo una consulenza di approfondimento ad un avvocato. Con una spesa contenuta di massimo due-trecento euro, si può affrontare la cosa con molta più cognizione di causa.

Detto questo, in linea di principio le condizioni di divorzio possono sempre cambiare, ovvero ognuno dei coniugi può depositare in tribunale un ricorso per modifica condizioni – salvo che non si tratti di modifiche consensuali, che possono essere fatte con un accordo in house.

Quindi in astratto la tua ex moglie questo diritto ce l’avrebbe.

Tuttavia, la nuova convivenza, per giurisprudenza piuttosto costante, fa venir meno il diritto ad un assegno di mantenimento da parte dell’ex coniuge, perché determina la decadenza della solidarietà post coniugale che, se il coniuge ha formato un nuovo nucleo, anche di fatto, con un’altra persona, non ha più ragione di esistere.

Tra l’altro la Cassazione, con la sentenza 6855 del 3 aprile 2015, ha chiarito che la solidarietà post coniugale viene meno per sempre nel momento in cui si è instaurata una convivenza stabile e duratura, anche qualora questa convivenza, in seguito, dovesse venir meno.

In conclusione, credo che molto ben difficilmente la tua ex moglie potrebbe presentare un ricorso per vedersi riconosciuto un assegno di mantenimento.

Per ulteriori approfondimenti, puoi valutare di acquistare una consulenza, anche se non credo che nel tuo caso ne possa valere la pena.

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Reversibilità e assegno di divorzio: occorre liquidazione?

Il tema è di quelli caldi, non lo si può negare.

E così la Cassazione aggiunge un elemento destinato a far parlare di sé e ad alimentare contenziosi che, per loro stessa natura, sono già incandescenti.

Stiamo parlando della pensione di reversibilità per il coniuge (ormai ex) divorziato.

L’articolo 9 comma 2 della legge 898/1970 riconosce infatti l’attribuzione della pensione di reversibilità al coniuge superstite divorziato come  diritto, specificando espressamente che esso è condizionato alla circostanza che il superstite sia titolare dell’assegno di mantenimento da parte dell’ex coniuge venuto a mancare e che, naturalmente, non sia passato a nuove nozze.

Nella pronuncia di cui sopra, la Cassazione nel richiamare l’art. 9, sottolinea anche come tale diritto postuli “l’avvenuto riconoscimento dell’assegno medesimo da parte del tribunale, con la conseguenza che, ai fini del riconoscimento del predetto diritto, non è sufficiente la mera debenza in astratto di un assegno di divorzio, e neppure la percezione in concreto di un assegno di mantenimento in base a convenzioni intercorse tra le parti, occorrendo invece che l’assegno sia stato liquidato dal giudice nel giudizio di divorzio ai sensi dell’art. 5 cit., ovvero successivamente, quando si verifichino le condizioni per la sua attribuzione ai sensi dell’art. 9 cit.”

La Cassazione, con la recente ordinanza n.25053/2017 Corte di Cassazione Sesta Civile pubblicata il 23.10.2017,  quindi ha voluto aggiungere e specificare che ai fini del riconoscimento del diritto alla pensione di reversibilità deve ricorrere il requisito che tale assegno sia stato riconosciuto- e quindi liquidato- dal giudice al termine del giudizio di divorzio, escludendo in tal modo che l’essere tenuti in astratto alla corresponsione di tale assegno di divorzio, così come il fatto di percepirlo materialmente sulla base di convenzioni ed accordi intercorsi tra le parti, non sia condizione sufficiente a configurare il diritto alla pensione di reversibilità.

Sempre in tale ottica, ed in riferimento al caso su cui la Suprema Corte si pronuncia, non possono considerarsi sufficienti le conclusioni rassegnate dal coniuge all’esito dell’istruttoria, con la conseguenza che il riferimento all’accordo intervenuto tra le parti all’udienza di comparizione dinanzi al Presidente del Tribunale, contenuto nella motivazione della pronuncia di divorzio, non è ritenuto sufficiente a far sorgere il diritto alla reversibilità: ciò perché il riconoscimento del relativo diritto, dev’essere formulato nella fase contenziosa successiva all’udienza presidenziale, escludendo in siffatta maniera la possibilità di valorizzare, a tal fine, le istanze formulate nel corso dell’ udienza di cui sopra, in quanto esclusivamente correlate ai provvedimenti temporanei ed urgenti. Pertanto per quanto indicato con l’ordinanza n. 25053 del 2017 della Corte di Cassazione Sesta Civile, se l’assegno che corrispondeva il defunto all’ex coniuge era frutto di semplici convenzioni intercorse tra le parti, magari nate anche con la finalità di porre fine alle lungaggini processuali che inevitabilmente una separazione prima ed un divorzio dopo si trascinano inevitabilmente con sé,  la reversibilità non spetta.

La pronuncia si colloca all’interno di una discussione giurisprudenziale che si agita ormai da molti anni, soprattutto riguardo a quei casi in cui oggetto di contenzioso sia la ripartizione della pensione di reversibilità tra l’ex coniuge divorziato titolare di assegno e il coniuge superstite del defunto.

Già il richiamato art. 9 della legge 898/1970 ha reso necessario l’intervento del legislatore che, con la norma interpretativa di cui all’art. 5 legge 263/2005, ha statuito definitivamente che per la titolarità dell’assegno deve intendersi l’avvenuto riconoscimento in capo all’ex coniuge divorziato, al momento della morte dell’ex coniuge pensionato e della richiesta della pensione di reversibilità, dell’assegno medesimo da parte del Tribunale.

Ma le diatribe non si sono esaurite, poiché ulteriori contrasti sono sorti in merito alla facoltà, peraltro concessa ai coniugi espressamente dalla legge, di preferire per i motivi più svariati la corresponsione dell’assegno in unica soluzione.

La domanda è quella che si chiede se la corresponsione dell’assegno divorzile in unica soluzione sia in grado di integrare il presupposto della titolarità attuale dell’assegno ex art. 5 ai fini del riconoscimento della pensione di reversibilità a favore dell’ex coniuge divorziato.

E su questo l’ ordinanza n. 11453 del 10 maggio 2017 della Sezione I Civile della Suprema Corte di Cassazione ha posto nuovamente l’attenzione, trattandosi di tema di grande attualità: la pronuncia è intervenuta in merito all’eccezione di legittimità costituzionale degli artt. 5 e 9, Legge n. 898/1970 sollevata dalla ricorrente avverso la sentenza di Corte d’Appello e della sua lettura interpretativa in senso negativo della problematica in questione.

Quale è quindi la  natura giuridica del diritto alla pensione di reversibilità alla luce della interpretazione della condizione di legge ai fini dell’ esercizio del diritto in questione, ossia l’essere il richiedente “titolare dell’assegno di cui all’art. 5”?

La Corte aderisce in prima battuta a quanto già statuito dalla Sezione Plenaria (sentenza n. 159/1998), che ha risolutivamente attribuito la qualifica di autonomo diritto avente natura previdenziale al trattamento di reversibilità in favore del coniuge divorziato, diritto che sorge in modo automatico alla morte del coniuge pensionato in forza di un’aspettativa maturata, sempre in via autonoma, nel corso della vita matrimoniale.

Ciò, per quanto confermato nelle successive pronunce, ha però condotto nella giurisprudenza giuslavoristica alla conseguenza dell’insussistenza del diritto quando la corresponsione periodica dell’assegno di divorzio non sia in corso al momento della domanda: posto il prerequisito dell’ attualità della titolarità del diritto all’assegno di divorzio, “la pensione di reversibilità (o una  quota di essa) può essere riconosciuta solo nei casi in cui, in sede di regolamentazione dei rapporti economici al momento del divorzio, le parti non abbiano convenuto la corresponsione di un capitale una tantum.” (Cass. Civ. sez. lav. n. 10458/2002).

Stessa conclusione è quella cui è giunta la Sezione Civile I della Corte (sentenza n. 17018/2003), che ha sottolineato come in sede di determinazione dei criteri di quantificazione della quota di pensione di reversibilità spettante al coniuge divorziato in concorso con il coniuge superstite,  il diritto in questione si fonda sulla precondizione della corresponsione periodica dell’assegno medesimo.

Anche in merito alla costituzione o trasferimento di un diritto in luogo di un versamento periodico di una somma di denaro e della sua riconducibilità al concetto di titolarità dell’assegno divorzile,  la Suprema Corte si è trovata ad affermare difatti che  “l’accordo intervenuto tra i coniugi in ordine all’attribuzione dell’usufrutto sulla casa coniugale a titolo di corresponsione dell’assegno di divorzio in un’unica soluzione, è idoneo a configurare la titolarità di detto assegno; ne consegue che tale costituzione di usufrutto soddisfa il requisito della previa titolarità di assegno prescritto dall’art. 5 della legge ai fini dell’accesso alla pensione di reversibilità o, in concorso con il coniuge superstite, alla sua ripartizione.” (Cass. Civ. n. 13108/2010; Cass. Civ. n. 16744/2011).

Il principio affermato da questo orientamento, in sostanza, è quello secondo cui, indiscussa la natura previdenziale e l’autonomia del diritto alla pensione di reversibilità (o ad una quota di essa) in capo al coniuge divorziato, il requisito della titolarità dell’assegno richiesto dalla legge per il suo riconoscimento deve ritenersi soddisfatto tutte le volte in cui vi sia stato un accertamento giudiziale relativo alla sussistenza delle condizioni solidaristico-assistenziali ad esso sottese, restando irrilevante il fatto che sia stato già riconosciuto ed assolto il relativo pagamento in un’unica soluzione.

Giuslavoristicamente, invece, si è mantenuto fermo il convincimento espresso nella sentenza del 2002, sostenendo costantemente che la corresponsione in unica soluzione dell’assegno divorzile su accordo delle parti, e soggetto alla verifica di equità da parte del Tribunale, non rientra nella nozione di assegno che dà titolo alla pensione di reversibilità in forza della sua idoneità a regolare definitivamente i rapporti economici tra gli ex coniugi ed a costituire certo adempimento dell’obbligo di sostentamento del coniuge medesimo, così da escludere, per il futuro, il diritto in favore di quest’ultimo ad ogni erogazione economica (da ult. Cass. Civ. sez. lav. n. 9054/2016).

Permane quindi un netto e- ad oggi- insanabile contrasto giurisprudenziale in ordine al diritto dell’ex coniuge divorziato, titolare di un assegno divorzile corrisposto una tantum, alla pensione di reversibilità, o ad una quota di essa, cui va ad aggiungersi, nella variegata ampiezza dei temi proposti, anche quello trattato dalla recente ordinanza n.25053/2017 Corte di Cassazione Sesta Civile relativo all’accertamento ed alla liquidazione dell’assegno ad opera del Tribunale al termine del giudizio di divorzio.

 

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TFR conferito al fondo pensione e coniuge divorziato: ne ha diritto?

sono divorziata, ho un assegno di mantenimento mensile e sto cercando di farmi liquidare la percentuale del tfr del mio ex marito che però lo ha versato in buona parte in un fondo (previndai). Cosa prevede la legislatura in questo caso?

Nel caso in cui il tfr sia conferito ad un fondo di previdenza complementare la situazione è purtroppo abbastanza problematica.

In questo caso, in effetti, la liquidazione, al lavoratore stesso, non è riconosciuta al momento in cui finisce il rapporto di lavoro, ma alla maturazione dei requisiti per la pensione e quindi in un momento successivo. Inoltre, le somme versate non sono riconosciute come liquidazione, ma come pensione integrativa, che può essere data come rendita (ciò che avviene nella maggior parte dei casi) o come capitale.

La sentenza della Cassazione 8228/2013 sostiene che i versamenti alla previdenza complementare non hanno natura retributiva, al contrario del tfr, che è una vera e propria retribuzione pagata successivamente.

Da questo ragionamento, condiviso anche da alcuni giuristi, anche a prescindere dalle modalità di liquidazione delle somme (se come rendita o in un’unica soluzione come capitale), non essendo un tfr considerabile come “retribuzione”, discenderebbe che il coniuge non avrebbe diritto alla quota di liquidazione conferita al fondo pensione.

Se si segue questa interpretazione, dunque, nel momento in cui il lavoratore mette nel fondo previdenza complementare una parte del tfr, si determinerebbe la privazione del diritto del coniuge ad una quota dello stesso, potendosi il coniuge soddisfare solo sulla parte di tfr maturata precedentemente.

In pratica, il “dirottamento” del tfr alla previdenza complementare priverebbe il coniuge divorziato della corresponsione della sua quota, eccettuata la parte versata prima ovviamente.

In conclusione, la strada per ottenere il pagamento della tua quota di tfr, per la parte conferita in fondo pensione, al momento si presenta abbastanza in salita e l’unica opzione è quella di sostenere una interpretazione della legislazione vigente diversa da quella che sembra maggioritaria, cosa per la quale qualche spiraglio c’è, dal momento che non sembra così giusto che un lavoratore possa sottrarre all’ex coniuge la quota del tfr semplicemente cambiando regime dello stesso, quando c’è una disposizione della legge sul divorzio che ne prevede espressamente il diritto.

Ti consiglio di approfondire con l’aiuto di un bravo avvocato. Acquistando una consulenza da un professionista, inizierai un percorso che potrà essere anche di monitoraggio di legislazione e giurisprudenza vigenti, in modo da cogliere quelle novità che potrebbero essere a tuo favore.

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Donazione alla moglie: si può revocare?

Vorrei sapere se si potrebbe REVOCARE DONAZIONE IMMOBILIARE a favore della moglie convivente da sempre con relativa rinuncio all’usufrutto e anche rinuncia da parte dei figli fatta con atto notarile, fatta chiaramente per togliere disponibilità finanziaria da un truffatore. Fare questo dimostrando che il DONATORE e’ collegato sia alla moglie che a suo tempo ha firmato in Banca come GARANTE per fargli ottenere un prestito, e sia come AUTORIZZATO DAL FIGLIO AD AGIRE SUL SUO C/C in sua vece. Si può fare domanda di revoca anche se sono passati 5 anni, oppure si puòrivalersi su moglie intestataria dell’appartamento DONATO o sul figlio per la correlazione del C/C?

È una cosa che si deve studiare ed approfondire molto di più, anche perché non si capisce nemmeno bene cosa significhi «per togliere disponibilità finanziaria ad un truffatore»: occorre capire esattamente come sono andate le cose.

Può darsi che ci siano i presupposti, in un caso del genere sembra che qualche elemento che possa costituire un’adeguata base legale per un’azione di invalidità, annullamento, revocatoria, revoca possa esserci, ma va approfondito appunto molto di più.

Questo lavoro di approfondimento deve essere condotto esaminando innanzitutto la donazione ma tutte le altre circostanze del caso che potrebbero essere rilevanti, tra cui l’esistenza di questa garanzia prestata dalla donataria a favore di questa persona – che poi andrebbe in qualche modo tuttavia ricollegata al contesto.

Se vuoi approfondire, puoi acquistare una consulenza da noi o da un altro avvocato di tua fiducia. Ovviamente, dovrai fornirgli tutta la documentazione del caso.