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Gravi ingiustizie dai tribunali: che fare?

Note dell’episodio.

In questa puntata di radio Solignani, rispondo al seguente quesito, inviato al blog da un lettore:

Ho avuto una grave ingiustizia dal tribunale di bergamo.

Riferimenti.

Di seguito, alcuni precedenti post del blog, o puntate del podcast, menzionati durante l’episodio o comunque aventi ad oggetto tematiche collegate a quelle trattate in questa puntata, che ti consiglio di consultare.

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Da vittima a carnefice: è possibile?

Ho perso un processo, avevo attaccato il mio avvocato per negligenza, il giudice ha accettato la testimonianza della collega, associata dello studio, che affermava di avere sentito delle conversazioni ( dal suo ufficio) con me e il mio avvocato dove secondo lei rifiutavo di passare una visita, il CTU ordinato dal giudice che mi aveva condannato. non poteva sentire le conversazione telefoniche da dove era.
Il giudice ( quello che ha giudicato la causa contro l’avvocato ha anche accettato tutte le affermazione senza prove del avvocato e ha rifiutato tutto quello che affermavo , trovandoli delle scuse , li ha praticamente servito di avvocato. Non ho fatto appello perché non me lo potevo permettere, da vittima sono diventato accusato è un ingiustizia

Come abbiamo detto dozzine di volte, si può perdere benissimo una causa pur avendo ragione, sia sufficiente pensare a quelli che sono gli esiti istruttori, che sono imprevedibili: si pensa che un testimone possa riferire una determinata cosa, invece compare e ne sostiene un’altra. O viceversa.

Al di là di questo, non sono in grado di esprimere un giudizio vero e proprio sulla tua situazione, sia sulla causa «a monte» dove ci sarebbe stata la responsabilità del tuo avvocato precedente per negligenza, sia su quella di responsabilità che vi è stata successivamente, dove si sarebbe verificata una testimonianza infedele addirittura da parte di un’altra collega dello studio.

Se tu volessi approfondire, sarebbe indispensabile esaminare con cura il fascicolo del primo procedimento, per valutare se effettivamente ci possano essere dei profili di responsabilità, ma a questo punto, avendo tu rinunciato a proporre appello, sarebbe solo un esercizio volto a toglierci la curiosità.

In generale, si può dire che il sistema giudiziario italiano, come tutti i sistemi giudiziari statuali, non serve a dare giustizia, ma ad applicare il diritto, sia quello sostanziale che quello processuale, che è una cosa diversissima, con lo scopo vero di evitare che le persone si facciano giustizia da sole e che i conflitti vengano composti in modo definitivo.

Chi si accosta al sistema giudiziario ricercando giustizia rimane regolarmente deluso, perché si tratta di un apparato burocratico da cui verrà, sì, la parola fine a molte situazioni conflittuali, e sia pure a volte dopo svariati anni, ma quasi mai in modo corrispondente al nostro interiore senso di giustizia.

Sono comunque cose di cui avrebbero dovuto parlarti i tuoi avvocati.

Se vuoi approfondire, puoi valutare di acquistare una consulenza, ma personalmente te lo sconsiglierei, a questo punto.

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Tribunali: perché non li smantelliamo e facciamo decidere a Forum?

Per ottenere giustizia, sei costretto a incaricare un difensore avvocato. L,ordinanza ex art. 700 ti dà, ragione, però, ti condanna a pagare le spese pocessuali anche della controparte. Protetto da tale imprevidente ordina, il colpevole ripete il reato di non consegnare documenti dovuti. Già questa è ingiustizia. Poi chiedi al tuo difensore il rimborso dell’onorario perché lascio’ scadere il termine per impugnarla, ma ti offre solo uno sconto. Allora penso che il modello di giustizia proposto da “Forum” andrebbe esteso il piu’ possibile e, almeno nel cause di condominio, andrebbero eliminati gli avocado di parte.
Lei cosa ne pensa ?

Innanzitutto, non si capisce bene che cosa è successo nel tuo caso. Non è possibile che una parte totalmente o comunque principalmente vittoriosa venga condannata a rimborsare le spese avversarie. Quello che può essere successo è che il giudice abbia compensato le spese, perché magari c’era soccombenza reciproca, come avviene abbastanza spesso, o parziale, o perché le circostanze lo consigliavano.

Con la compensazione delle spese, che può essere anch’essa totale o parziale, ognuna delle parti si paga le proprie spese legali, provvede a compensare il proprio avvocato, il chè, per la parte che riteneva di avere ragione, viene sentito come una ingiustizia.

Detto questo, e quindi al netto dell’impossibilità di valutare effettivamente quale sia stata la tua esperienza, rimane il discorso circa l’opportunità di definire delle forme di amministrazione della giustizia «alternative» rispetto a quella offerta dal procedimento civile italiano «classico».

A questo riguardo, va detto che il problema non è, a mio giudizio, in sé rappresentato dalla presenza – necessaria – di un avvocato per parte, che è una cosa che serve sia all’utente del sistema giustizia, sia al sistema giustizia in generale.

All’utente serve innanzitutto perché nei sistemi giudiziari statuali si applica il diritto, sia sostanziale che processuale, che è una materia complessa e per nulla intuitiva, al contrario di quel che si può pensare comunemente. L’avvocato è indispensabile così come è necessario un meccanico quando c’è da riparare un motore o un idraulico quando c’è da rifare un bagno. Nessuno si metterebbe in testa di aprire il motore di una macchina moderna o di rifare da solo la ristrutturazione di casa propria, perché mancano quelle nozioni e quell’esperienza che sono indispensabili per fare quel tipo di lavoro.

Al sistema giudiziari, gli avvocati sono ancora più indispensabili perché, grazie alla presenza della loro intermediazione e al confezionamento da parte loro di atti giuridici scritti o comunque di discorsi orali «condensati», la trattazione di un singolo caso dura 10 minuti al posto delle tre ore che sarebbero necessarie se si ammettessero le parti a parlare direttamente, parti che quasi sempre non hanno alcuna idea di come si espone un problema, tantomeno giuridico, né di quali siano le regole del procedimento civile italiano, che restano vincolanti e la cui inosservanza determina spesso decadenze e impossibilità di far valere i propri diritti.

Una udienza di forum dura oltre un’ora e senza che il caso venga approfondito più di tanto; un’udienza civile nel processo civile italiano dura anche solo 10 minuti, ma il caso è approfondito molto di più, specialmente sotto il profilo probatorio, grazie al lavoro svolto dagli avvocati.

Il modello di giustizia proposto da forum peraltro si basa sull’arbitrato irrituale, che è previsto dal nostro codice di procedura civile ed è a disposizione di tutti coloro che se ne vogliono servire, anche al di fuori di Forum, solo che purtroppo è molto poco diffuso, sostanzialmente pur esistendo da svariati decenni le persone non lo usano. Occorre comunque il consenso di entrambe le parti coinvolte per farvi ricorso.

Ci sono, poi, una miriade di sistemi di gestione dei conflitti alternativi rispetto al ricorso al sistema giudiziario, di cui in Italia, proprio a causa dell’inefficienza della giustizia, si è tentato, anche maldestramente, purtroppo, di imporre la cultura e la diffusione, come la negoziazione assistita, la mediazione civile, i vari tentativi di conciliazione obbligatori previsti in determinate materie, come ad esempio le telecomunicazioni.

Va nominata anche la mediazione familiare, che è un tentativo di risolvere i conflitti familiari con un approccio alternativo, nel quale credo moltissimo.

Anche io, dopo oltre venti anni di professione forense, penso che la vera, o comunque il massimo di, giustizia che l’uomo, nel corso della sua storia, abbia mai avuto o possa mai avere fosse quella impartita, sulla base dell’equità e non del diritto, dai capi villaggio o dai saggi nelle più elementari forme di aggregazione umana, aggregazioni di cui parla ad esempio il sociologo Jared Diamond nei suoi bellissimi e indispensabili libri.

Lo stesso Diamond riporta come in alcune zone del suo stato di origine, il Montana, siano ancora oggi sopravvissute forme di amministrazione della giustizia del genere: persone o società che hanno un conflitto si rivolgono ad una persona ritenuta saggia ed imparziale affinché indichi una strada, vincolante o anche solo non vincolante, ma convincente. È una specie di arbitrato, ma basato moltissimo sulla fiducia nel «saggio», che può inventarsi anche soluzioni creative e slegate da riferimenti giuridici, anche perché i conflitti tra gli uomini non hanno se non raramente ragioni davvero economiche, sono per lo più problemi con una profonda radice emotiva.

È quello che ho realizzato con il mio cumSolvere, per le persone che hanno optato per servirsene, ed è l’unica forma di «giustizia» in cui mi sento di credere, non basata sull’applicazione di regole astratte scritte prima che insorgessero i problemi che si vogliono risolvere con esse, applicazione che peraltro avviene da parte di un «giudice» che è in realtà un burocrate che occupa quella posizione per il solo fatto di aver superato, magari decenni prima, un concorso, ma una giustizia basata sulla unanimemente riconosciuta qualità delle persone che sono chiamate ad impartirla per saggezza, capacità negoziali, capacità di leggere l’animo umano, creatività e ingegno.

Resta il fatto che purtroppo il ricorso a queste forme di giustizia alternativa rimane subordinato alla volontà di entrambe o comunque tutte le parti, per cui basta che una sola di esse rifiuti di prestare il proprio consenso che ritorni ad essere necessario il ricorso al sistema giudiziario statuale.

Vale comunque la pena, in ogni caso, di formulare un apposito invito prima di instaurare una vertenza giudiziale, naturalmente tramite un atto scritto e successivamente documentabile.

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Mediazione familiare: quando è nata?

Come avrete visto, recentemente parliamo ancor più spesso del solito di mediazione familiare nel blog. Può essere interessante vedere quando è nata e come si è evoluta questa pratica, importante per molte famiglie e relazioni, dapprima a livello internazionale e, poi, nel nostro Paese (magari in un post a parte).

La mediazione familiare, prima ancora che una disciplina codificata ed istituzionalizzata, è appunto una pratica, probabilmente, sotto certi profili, addirittura anche un atteggiamento, di talché è impossibile definirne una data precisa di «inizio», nel contesto storico, come se fosse un qualsiasi altro evento incastonato negli annali dell’umanità. Probabilmente, forme di mediazione familiare sono state praticate sin dai primi agglomerati umani, come tipicamente quelle stesse comunità ben descritte nei meravigliosi libri del sociologo Jared Diamond e che ogni antropologo e sociologo conosce bene.

In tali forme di aggregazione sociale, i conflitti erano gestiti tramite l’intervento di una persona che non rappresentava l’autorità come si conosce nelle società contemporanee, ma l’autorevolezza – tipicamente il capo villaggio, il soggetto più anziano e di riconosciuta saggezza, che risolveva ed affrontava i diversi casi non applicando regole costituite di diritto, ma secondo quello che gli pareva più giusto nel caso concreto.

Tra le varie vertenze che venivano poste all’attenzione di questi «saggi» vi erano anche quelle di famiglia. In tali casi, l’intervento aveva diversi stigmi della mediazione familiare contemporanea o comunque assomigliava molto di più alla stessa di quanto non gli assomigli l’intervento giudiziario in tema familiare.

Quest’ultimo, infatti, si basa sull’applicazione di norme di diritto, pertanto precostituite, da parte di un funzionario inserito in un apparato statale, tramite l’intermediazione necessaria di professionisti abilitati, anche a prescindere, purtroppo, della giustizia ed equità del caso concreto. Nel caso, invece, della risoluzione dei conflitti familiari all’interno delle strutture tribali, i protagonisti della vicenda venivano ascoltati personalmente, senza alcuna intermediazione, e il «saggio» interveniva con indicazioni volte a ricercare un buon componimento, una soluzione migliore e quindi in base ad equità, tendendo non a fare una sentenza, ma a fluidificare la comunicazione tra le parti e a proporre una soluzione che fosse convincente per la sua ragionevolezza, il più possiile riconosciuta dai soggetti coinvolti.

Sulla base di queste notazioni, identificare il momento preciso di nascita della mediazione familiare è dunque impossibile, essendo verosimilmente nata con l’uomo stesso o con la sua aggregazione in società più o meno elementari, nelle quali comunque vi era, necessariamente, una forma di famiglia, anche se molto diversa da quella contemporanea – che, peraltro, è diversissima anche solo da quella del secolo scorso.

Ciò premesso, dunque, l’indicazione di un momento di origine della mediazione familiare può essere solo convenzionale e, dunque, di comodo, per la individuazione di un punto di riferimento al riguardo.

Da questo punto di vista, la maggior parte degli autori individua la «nascita» della mediazione familiare negli Stati Uniti, più precisamente nel corso dell’anno 1974, quando un avvocato e psicoterapeuta, di nome O. James Coogler, si pose il problema di trovare un metodo affinché si potesse arrivare allo scioglimento del vincolo matrimoniale nel modo meno traumatizzante possibile.

La istituzione, avvenuta nel 1939, della Los Angeles Conciliation Court, non si ritiene invece significativa, in quanto tale organismo non aveva come scopo la mediazione familiare, bensì la riconciliazione, che è appunto una cosa molto diversa dalla mediazione.

L’attività di Coogler, che partiva appunto dalla riflessione sull’opportunità di evitare che la gente consumasse le proprie tragedie familiari nelle inadatte aule dell’apparato giudiziario statale, consistette nella fondazione, avvenuta nel 1975, della Family Mediation Association. Questo servizio fu aperto a tutte le coppie che si stavano separando o divorziando o, ulteriormente, avevano la necessità di rinegoziare le condizioni a suo tempo concordate, proprio perché nel frattempo erano cambiati i presupposti di fatto (evitando, in questo ultimo caso, il ricorso ad un procedimento di modifica condizioni, che occupa molto lavoro ad esempio nei tribunali italiani contemporanei).

Coogler definì un proprio modello operativo, che chiamò di «mediazione strutturata».

Sulla scorta del buon esito delle opere di Coogler, nacquero diverse altre scuole e servizi volti alla mediazione familiare. Coogler costituì quindi nel 1978 la rivista Family mediation e nello stesso anno compilò il manuale Structured Mediation in Divorce Settlement.

Per la prima volta, dunque, per le coppie di coniugi, conviventi o genitori era disponibile un servizio e una pratica strutturata che consentisse loro di gestire il difficile momento dello scioglimento della coppia stessa, particolarmente delicato in caso di presenza di figli.

In seguito, si diffusero altri approcci e altri metodi alla mediazione familiare. Tra questi, va menzionato quello del canadese John Haynes, fondatore della Accademy of Family Mediators, che introdusse – siamo già negli anni 80 – nella mediazione familiare tecniche proprie della negoziazione commerciale, la cosiddetta negoziazione ragionata (brainstorming), formulando una declinazione della mediazione che avrebbe avuto poi largo seguito in Europa.

Un altro pioniere della mediazione familiare da menzionare è Howard Irving, che attivò il servizio Toronto Conciliation Project, che proponeva la mediazione in caso di divorzio al fine di fluidificare i conflitti e facilitare la comunicazione.

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Mediatore familiare: finalmente.

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Ebbene sì, sono diventato finalmente, in questi giorni, mediatore familiare.

Come ho scritto nei social, adoro la mediazione perché mi consente finalmente di lavorare con il cuore.

Il mio cuore, innanzitutto. Dopo, certo, anche quello dei miei assistiti, ma quello credo anche in altri ambiti in cui si svolge la vita umana, che è vissuta da ognuno di noi col cuore, nel bene e nel male.

Il paragone è con l’attività forense che ho svolto per oltre 20 anni, dove il riferimento è il complesso delle regole giuridiche, scritte da altri prima che insorgessero i problemi, spesso non condivisibili e inadeguate al caso, per vari motivi.

Nella mediazione invece c’è molta più libertà, anche per lavorare con il cuore, una cosa che è molto benefica per qualsiasi lavoro.

Finalmente ho uno spazio di creatività che sento adeguato per me e credo che i risultati si vedano.

Purtroppo la nostra professione forense, come tanti altri mestieri, é stata burocraticizzata; parallelamente, il sistema giudiziario offre un servizio sempre più deficitario, così è sempre più raro riuscire a dare quelle risposte di cui, al di là del tocco umano, che deve sempre esserci, le persone hanno bisogno.

Per questo la mediazione per me è uno spazio percepito come nuovo, un quaderno intonso dove posso scrivere senza essere finalmente costretto dai limiti del contesto legale.

Per non dire che nel diritto non ho mai creduto, i conflitti si risolvono solo con la saggezza e uno che ti aiuta a recuperarla.

Se avete un problema in famiglia, tentate sempre la strada della mediazione! Sia per cercare di ricomporre, sia per andare ciascuno per la propria strada nel modo migliore e più civile possibile.

Se volete incaricare me come mediatore o uno della mia squadra (siamo, ad oggi, in quattro) chiamate lo 059 761926 per un appuntamento. Oppure scrivetemi dalla pagina dei contatti. Lavoriamo anche a distanza tramite skype o altri sistemi di teleconferenza, anche se almeno una volta consigliamo di venire di persona, quando possibile.

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Restare umano: il primo dovere di un avvocato.

La prima cosa che ho intuito quando ho iniziato a fare l’avvocato è che la più importante e fondamentale sfida di ogni legale, assolutamente necessaria e che viene prima di ogni altra, è quella di diventare da un lato capace al massimo grado di interagire con la burocrazia, conoscerla a fondo e capirne le logiche anche più intime, senza però dall’altro vendersi neanche di un millimetro ad essa, restando umano, umano, umano al 100%.

Proprio questa infatti è la funzione dell’avvocato: prendere per mano una persona e guidarla attraverso i corridoi di quei castelli kafkiani che sono i tribunali non solo italiani ma di ogni stato al mondo. Fare da intermediario tra le istanze degli individui e la grande e stolida macchina giudiziaria. Un apparato nato per scongiurare il ricorso alla violenza fisica, ma che spesso finisce semplicemente per sostituire, a quel tipo di violenza, una violenza di altro tipo: quella di sentenze magari perfette in diritto, ma ingiuste nella sostanza, da cui derivano conseguenze inique e gravi per le parti.

Per fare questo, bisogna capire la logica del diritto e della giustizia con una resistenza assoluta e spietata a farsene contaminare, conservando intatta tutta la propria umanità, mettendo sempre il cuore davanti a tutto, con il cervello e la consapevolezza a fare, a loro volta, da guida.

Se mi volto indietro, o mi soffermo a guardare quello che faccio, mi pare questa sfida di averla vinta, sia per lo stile con cui faccio questa professione, sia per i contenuti, che sono spesso quelli di consigliare i miei clienti di fare tutto il possibile per evitare il ricorso alla giustizia, cercando piuttosto soluzioni alternative, anche a costo di fare compromessi e questo anche quando loro questo non vorrebbero sentirselo dire (ecco come un avvocato deve usare le famose palle, a mio modo di vedere).

Ricordiamoci sempre che il diritto è uno strumento dell’uomo, se l’uomo diventa strumento del diritto – e io l’ho visto accadere davvero molto, troppo spesso – allora c’è qualcosa nel profondo che non va.