È una questione interessante e ancora controversia sia in teoria che in pratica. Dalla stessa, naturalmente dipende il riacquisto dello stato libero e la possibilità di celebrare un nuovo matrimonio.
I termini del problema sono descritti come meglio non si potrebbe probabilmente fare in questo brano dell’articolo di Francesco P. Luiso, Questioni varie in tema di impugnazione dei provvedimenti di separazione e divorzio, in www.judicium.it. Il testo è tecnico e sicuramente non comprensibile interamente per gli utenti, intanto proviamo a leggerlo insieme, al termine qualche nota illustrativa con linguaggio più divulgativo.
L’altro problema che intendo affrontare riguarda la legittimazione ad impugnare le sentenze pronunciate nel procedimento di divorzio, con speciale riguardo a quelle pronunciate su domanda congiunta (art. 4, comma 16, della L. 898/1970).
Per chiarire bene i termini della questione, è opportuno premettere che, secondo opinione concorde, la sentenza di divorzio è efficace dal momento in cui passa in giudicato, e che tale efficacia non è retroattiva: sicché il momento in cui avviene il passaggio in giudicato assume un significato particolare, in quanto ogni ostacolo alla pronuncia di divorzio, che si dovesse verificare fra la pronuncia della sentenza ed il passaggio in giudicato della stessa, ne impedisce la produzione degli effetti. Così, se la morte di uno dei coniugi ha luogo dopo la pubblicazione della sentenza, ma prima del passaggio in giudicato, la sentenza di divorzio non produrrà mai i suoi effetti; il contrario accade, se uno dei coniugi decede dopo che la sentenza di divorzio è passata in giudicato. Con la conseguenza che, ad esempio, nel primo caso il coniuge sopravvissuto acquista la qualità di erede, mentre nel secondo caso no.
Ora, si può certamente convenire sulla soluzione; ma sembra riduttivo, per verificare se la sentenza è o meno passata in giudicato, far riferimento esclusivamente al decorso dei termini, come è accaduto allorché la fattispecie appena ipotizzata è stata portata all’attenzione della Corte di cassazione, e questa si è limitata a verificare se la morte di uno dei coniugi era sopravvenuta o meno durante la decorrenza del termine per impugnare[13].
Come ognun sa, infatti, il giudicato formale dipende dalla impossibilità di proporre le impugnazioni c.d. ordinarie (art. 324 c.p.c.[14]) e dunque dalla perdita del potere di impugnare non solo per decorso dei termini, ma anche per acquiescenza: ma, ancor prima, per perdere il potere di impugnare è necessario che esso sia sorto, e dunque sia l’acquiescenza sia la mancata proposizione dell’impugnazione ordinaria nei termini assegnati debbono riguardare un soggetto, rispetto al quale quel potere è venuto ad esistenza[15]. Dunque, la corretta impostazione è la seguente: individuare se ed in capo a chi è sorto il potere di impugnare; verificare se tale potere è stato perso (per acquiescenza o per l’inutile decorso dei termini prescritti) prima o dopo che sia verificato l’evento ostativo alla produzione degli effetti da parte della pronuncia di divorzio[16].
Secondo i principi generali, il potere di impugnare sorge a favore della parte soccombente: chi, invece, ha avuto dalla sentenza quello che aveva richiesto, non è legittimato ad impugnare. Tant’è vero che l’impugnazione da lui eventualmente proposta è inammissibile e comunque inidonea ad impedire il passaggio in giudicato della sentenza, se manca la tempestiva impugnazione di una parte legittimata, oppure quest’ultima fa acquiescenza[17].
Si deve dunque concludere che, a favore del coniuge che aveva chiesto la pronuncia di divorzio, non sorge il potere di impugnare, sicché l’eventuale acquiescenza, prestata dalla controparte prima che uno dei coniugi deceda, non impedisce al divorzio di operare. E soprattutto si deve concludere che, se il divorzio è chiesto da ambedue i coniugi, il potere di impugnare non sorge a favore di alcuno e dunque la sentenza di divorzio nasce già passata in giudicato formale[18].
Questa conclusione, in linea con i principi generali delle impugnazioni, è invece disattesa dalla giurisprudenza sopra indicata[19], la quale è giunta a ritenere inefficace il divorzio a causa della morte di uno dei coniugi, verificatasi in pendenza del termine per impugnare, anche in presenza di domanda congiunta[20], oppure in un caso, nel quale il coniuge convenuto aveva concluso per l’accoglimento della domanda di divorzio[21]. Anche la dottrina maggioritaria giunge alla stessa conclusione. Ma francamente la soluzione non convince.
In primo luogo, l’espressione utilizzata dall’art. 5, comma 5, della L. 898/1970 (secondo la quale “la sentenza è impugnabile da ciascuna delle parti”) non è sufficiente ad espellere dal sistema un requisito fondamentale[22] e – a quanto risulta – immune da eccezioni, quale quello della soccombenza[23]: requisito che, oltretutto, realizza il principio di buona fede e correttezza processuale[24]. Sarebbe contrario ad ogni canone di lealtà e probità consentire ad una parte, che ha ottenuto quello che aveva richiesto[25], di venire contra factum proprium[26], e proporre impugnazione “pentendosi” di quanto aveva voluto.
In secondo luogo, la eventuale natura indisponibile del diritto, oggetto del processo, è irrilevante in questa direzione[27], poiché le conclusioni prese da una parte – e sulle quali si misura la soccombenza – non costituiscono un atto di disposizione del diritto. Altrimenti il giudice dovrebbe pronunciare anche quando, in materia di diritti indisponibili, l’attore rinuncia agli atti del processo o l’impugnante rinuncia all’impugnazione: ciò che non è mai stato sostenuto da alcuno.
Ancora: è vero che “il passaggio in giudicato della sentenza civile dipende necessariamente dall’estinzione del potere di impugnarla con i mezzi ordinari” e che non è configurabile “un’estinzione del potere di impugnazione anteriore a quello della nascita della sentenza”[28]: però è anche vero che il potere di impugnazione, oltre che estinguersi, può anche non nascere, e che a tal fine è rilevante proprio “il concreto contenuto delle domande e delle difese proposte nel corso di un determinato giudizio”[29], poiché a favore della parte non soccombente il potere di impugnare non nasce proprio, e dunque rispetto alla parte vittoriosa acquiescenza e decorso del termine sono istituti senza significato, in quanto la sua acquiescenza non rileva, e la sua impugnazione non ha alcun effetto.
Dunque, tirando le fila: la sentenza di divorzio pronunciata su domanda congiunta, o a seguito di concordi conclusioni dei coniugi, nasce passata in giudicato perché non esiste alcun soggetto a cui favore sorga il potere di impugnare: non il P.M., come abbiamo visto; non i coniugi, perché nessuno dei due è soccombente. Né si può opporre che – quantomeno con riferimento alla sentenza di primo grado – resta esperibile il regolamento di competenza[30], e ciò per una duplice ragione: in primo luogo, perché il regolamento di competenza (ovviamente facoltativo) è esperibile solo se la sentenza di divorzio decide anche di una questione di competenza; e, dunque, se nessuna questione di competenza è decisa, la sentenza non è impugnabile con il regolamento. In secondo luogo perché, quando insieme al merito è decisa una questione di competenza, ciò significa che il tribunale si è ritenuto competente (altrimenti non avrebbe pronunciato nel merito), e dunque – secondo i principi – la parte vittoriosa nel merito non ha mai il potere di impugnare in rito, per carenza di interesse.
La conferma a contrario della insostenibilità della tesi maggioritaria si può ricavare proprio dagli assurdi e barocchi escamotages pensati dai suoi sostenitori, per ottenere il passaggio in giudicato senza attendere lo spirare del termine lungo: si va dalla dichiarazione di acquiescenza che ambedue i coniugi effettuano dinanzi al cancelliere, all’autonotificazione della sentenza o alla notificazione della sentenza a se stesso, nell’ipotesi in cui ambedue i coniugi siano difesi da un unico avvocato, alla proposizione di un appello inammissibile al solo fine di farlo dichiarare tale [31]. Bizantinismi che mostrano quanto sia errato il punto di partenza.
NOTE
[13] Cass. 19 giugno 1996 n. 5664, in Giust. civ. 1996, I, 2544; Foro it. 1996, I, 2729; Giur. it. 1997, I, 1, 634; Dir. famiglia 1997, 543; Cass. 18 agosto 1992 n. 9592, in Foro it. 1993, I, 1171; Dir. famiglia 1993, 102.
[14] La cui centralità, nell’argomento che ci interessa, è giustamente sottolineata da CIPRIANI, Il passaggio in giudicato della sentenza di divorzio congiunto,in Riv. dir. civ. 1996, I, 612.
[15] CIPRIANI, Nuove norme sullo scioglimento del matrimonio, in Nuove leggi civili commentate 1987, 891, il quale fa esattamente notare che i termini per impugnare non sono concessi a chiunque, na al solo soccombente; ID., Il passaggio in giudicato, cit., 613 ss.
[16] Contra FINOCCHIARO, La domanda congiunta di divorzio, in Riv. dir. civ. 1987, I, 513-514, secondo il quale “nel nostro ordinamento costituisce principio generale quello per il quale, ove sia previsto un certo termine per proporre impugnazione avverso un provvedimento, quest’ultimo non acquista efficacia se non dal momento in cui il termine è decorso”. Si noti che l’A. afferma che non vi sono soccombenti a fronte di una sentenza pronunciata a seguito di domanda congiunta, sicché non sono possibili né l’acquiescenza né la notificazione della sentenza per rendere operante il termine breve. E dunque, sempre secondo l’A., la sentenza di divorzio pronunciata su domanda congiunta passa in giudicato solo dopo che sia decorso il termine annuale: essa dunque rimane inefficace in attesa di un evento (l’acquiescenza o l’impugnazione) che lo stesso FINOCCHIARO afferma non potersi verificare! Sorge spontanea la domanda: ma allora che si attende a fare? Considerazioni analoghe in CIPRIANI, Il passaggio in giudicato, cit., 614.
[17] CIPRIANI, in Nuove leggi civili, cit., 892.
[18] Così PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, 5^, Napoli 2006, 761: “La sentenza pronunciata a termine del processo svoltosi nelle forme abbreviate del rito camerale è appellabile, con la sola ovvia [corsivo nostro] limitazione derivante dal difetto di soccombenza ove la domanda congiunta sia stata accolta senza che sia sopravvenuto, nel corso del processo, alcun disaccordo delle parti”. Nello stesso senso GRAZIOSI, La sentenza di divorzio, Milano 1997, 255, il quale correttamente afferma che la sentenza “non < > in giudicato, ma < > in giudicato”. Conf. CARPI – GRAZIOSI, Procedimenti in tema di famiglia, in Dig. Disc. Priv., XIV, Torino 1996, 545; BARBIERA, Il divorzio dopo la seconda riforma, Bologna 1988, 88; e, si vis, LUISO, Diritto processuale civile, 3^, IV, Milano 2000, 257 ss.
[19] Ma v., nel senso del testo, App. Roma 15 aprile 1991, in Foro it. 1992, I, 474; Trib. Bari 9 luglio 1987, in Foro it. 1987, I, 2494.
[20] Cass. 19 giugno 1996 n. 5664, cit.
[21] Cass. 30 ottobre 1984 n. 5538, in Giust. civ. 1985, I, 345. Nella controversia decisa da Cass. 18 agosto 1992 n. 9592, cit., invece, uno dei coniugi era rimasto contumace, pur avendo dichiarato, in sede di udienza presidenziale, di non opporsi dalla domanda dell’altro.
[22] Sul quale v. ora le limpide parole di VACCARELLA, Lezioni sul processo civile di cognizione, Bologna 2006, 241 ss.
[23] Conf. BASILICO, Qualche osservazione, cit., 257 ss.; NICOTINA, Problemi processuali della nuova disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio,in Giust. civ. 1989, II, 15 (il quale, peraltro, dopo aver sostenuto che la principale caratteristica del divorzio su domanda congiunta “è costituita dalla sottrazione, pressoché totale, della sentenza all’impugnazione delle parti perché essa deve essere esclusa quando manca la soccombenza”, afferma poi (op. cit., 16) che, “con l’intento di determinare un sollecito passaggio in giudicato della decisione”, un coniuge può notificare all’altro la sentenza. Contra SALVANESCHI, L’interesse ad impugnare, Milano 1990, 237 ss.; MONTESANO, Le impugnazioni dei coniugi contro la sentenza di divorzio su domanda congiunta, in Riv. dir. proc. 1999, 15-16, il quale ritiene che la possibilità di impugnare, anche in mancanza di una soccombenza, si fonda “sull’interesse a conseguire col gravame un margine di vantaggio giuridicamente qualificabile in riguardo a beni che la legge garantisce ai soggetti e che si identificano qui con quelli che l’uno e l’altro coniuge perderebbero col venir meno dei diritti indisponibili nascenti dal matrimonio”.
[24] CIPRIANI, in Nuove leggi civili, cit., 892.
[25] E che magari ha anche notificato la sentenza alla controparte, come è accaduto nella fattispecie decisa da Cass. 19 giugno 1996 n. 5664 (CIPRIANI, Il passaggio in giudicato, cit., 603).
[26] Nel significato che questa espressione assume in materia processuale, come espressione di uno stringente dovere di coerenza: v. sul punto FESTI, Il divieto di “venire contro il fatto proprio”, Milano 2007, 228 ss.
[27] Così, invece, Cass. 30 ottobre 1984 n. 5538, cit.; MANDRIOLI, Diritto processuale civile, III, 19^, Torino 2007, 128 e, con riferimento alla domanda congiunta, 133; SALVANESCHI, L’interesse ad impugnare, cit., 254.
[28] Così TOMMASEO, Lo scioglimento del matrimonio, cit., 680.
[29] Le quali, secondo TOMMASEO, op. loc. cit., non avrebbero rilievo per determinare il passaggio in giudicato della sentenza.
[30] TOMMASEO, Lo scioglimento del matrimonio, cit., 681.
[31] V. in arg. TOMMASEO, Lo scioglimento del matrimonio, cit., 959-950; CIPRIANI, in Foro it. 1996, I, 2731; NICOTINA, Problemi processuali, cit., 16; FINOCCHIARO, La domanda congiunta, cit., 514.
In sostanza, secondo questo giurista, la sentenza di divorzio congiunto passa in giudicato direttamente, senza che si possa parlare nemmeno di decorrenza dei termini, dal momento che affinchè nasca il potere di impugnare è necessario che una parte vi abbia interesse perchè una sua richiesta non è stata accolta: se il ricorso è stato congiunto, tutte le richieste delle parti sono state accolte e quindi non c’è interesse ad impugnare. Quindi la sentenza resa al termine di un procedimento di divorzio congiunto diventerebbe definitiva automaticamente ed immediatamente. Sempre secondo questo autore, le soluzioni come quella da te vagheggiata dell’autonotifica e simili sarebbero «assurdi e barocchi escamotages» ed in effetti è difficile, sul punto, dargli torto dal momento che un difensore che notifica una copia autentica di una sentenza a sè stesso è un non-sense. La notifica alla parte personalmente, poi, a mio giudizio non sarebbe idonea a far decorrere il termine breve per impugnare, dal momento che la legge prescrive espressamente che sia valida a tale scopo solo ed esclusivamente la notifica fatta al procuratore, che conosce il diritto e sa che cosa comporta la notifica, cosa che invece non si può dire per la parte.
Non so se poter concordare con questo autore, probabilmente la sua tesi è corretta nella quasi totalità dei casi ma può anche darsi che ci siano delle ipotesi in cui c’è un interesse ad impugnare delle parti. In materia familiare il giudice ha poteri d’ufficio che prescindono dalle richieste delle parti, specialmente se ci sono figli il cui affidamento e la cui gestione possono essere da regolamentare. Può darsi che il Tribunale, preso atto della volontà dei coniugi di divorziarsi e quindi di acquistare nuovamente lo stato libero, accolga solo in parte le condizioni di divorzio proposte dai coniugi stessi, modificandole, anche solo in piccola parte, magari per quanto riguarda i figli, non ritenendole coerenti con gli interessi dei minori, in luogo di diverse disposizioni. L’ipotesi è sicuramente più di scuola che di pratica, ma nulla esclude che possa verificarsi. In questi casi, la parte potrebbe aver interesse ad impugnare, per dimostrare, ad esempio, che le condizioni di affido che aveva proposto erano, al contrario di quanto ha ritenuto il giudice di primo grado, effettivamente più favorevoli all’interesse dei figli.
Quindi non so se si possa dire che questo genere di sentenze passa sempre e comunque in giudicato.
Il problema, dal lato pratico, è che l’avvenuto passaggio in giudicato, e la conseguente definitività o meno, della sentenza deve essere valutato da operatori cui comunque non spetta il potere e la competenza per andare a valutare se vi può essere soccombenza o meno, come i funzionari dell’ufficio anagrafe, i quali avrebbero bisogno semplicemente di un documento attestante l’irrevocabilità della sentenza. Per questo, nella pratica, si «scade» nel ricorso a quegli escamotages di cui sopra, la auto-notifica o la dichiarazione di acquiescenza, per poter formare qualcosa che sia in grado di convincere un funzionario che bene o male non può andare a valutare nel merito la sentenza. Nel tuo caso, quindi, tutto può far brodo per convincere l’ufficiale di stato civile del riacquisto da parte tua dello stato libero, conviene tuttavia prima parlarne direttamente con lui stesso e poi mettere in pratica il sistema che consiglia.
Noi, in studio, da anni facciamo mettere alle parti la rinuncia all’impugnazione nel testo del ricorso congiunto, per quel che può valere, e il Tribunale di Modena in questi casi subito dopo l’emissione della sentenza la rilascia con la dichiarazione di irrevocabilità. In questo modo i nostri assistiti non hanno mai avuto problemi particolari, anche se in un caso un ufficio anagrafe ha voluto anche una dichiarazione di acquiescenza per scrittura privata, probabilmente un episodio di mera burocrazia privo di particolare significato.