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il figlio può far dichiarare nullo il matrimonio del padre dopo la sua morte?

mio padre vedovo, proprietario di un immobile, decide di sposarsi in comunione di beni dopo aver saputo di avere un male incurabile, dopo tre mesi è deceduto. La 2° moglie che viveva, in un immobile di sua proprietà, con la madre anziana non aveva mai dormito nella casa di mio padre né prima né dopo il matrimonio e non aveva neanche la residenza. Ho saputo che l’ha richiesta adesso dopo un mese dalla morte.Lei si è insediata all’interno della casa di mio padre e vuole l’usufrutto della casa vita natural durante, nonostante mio padre verbalmente, al sottoscritto ed alla sorella minore, avesse disposto la cessazione dei servizi quali luce, gas, telefono e di conseguenza la vendita dell’immobile con la dovuta spartizione tra me e mio fratello del corrispettivo. Vorrei chiedere come muovermi in queste circostanze e quali precauzioni prendere.

La vedo abbastanza grigia per voi eredi. Il fatto è che questa signora che ha sposato tuo padre è appunto la moglie a tutti gli effetti di legge, sino a che non viene dimostrato il contrario in Tribunale, con una eventuale azione di nullità del matrimonio. Come moglie, ha non solo il diritto di abitazione sulla ex «casa familiare», ma anche una quota di eredità, variabile a seconda del numero dei figli.

Vediamo separatamente questi due profili.

A) Per quanto riguarda la partecipazione all’eredità, il caso andrebbe certamente approfondito molto di più, ma in astratto, da questa sommaria, descrizione, si potrebbero profilare un paio di cause di nullità del matrimonio: la simulazione e l’incapacità di intendere e di volere di tuo padre al momento della celebrazione del matrimonio.

Purtroppo, per tutti questi casi il codice civile stabilisce che l’unico che può impugnare il matrimonio è il coniuge. L’art. 127, intitolato proprio «intrasmissibilità dell’azione» prevede appunto che «l’azione per impugnare il matrimonio non si trasmette agli eredi».

Se questo ha un senso, tuttavia, per quanto riguarda le ipotesi di simulazione e mancata consumazione, dove la legge può anche lasciare alla completa discrezionalità dei partners decidere se avvalersi o meno della facoltà di impugnazione, la cosa sembra avere meno senso per quanto riguarda l’ipotesi dell’incapacità al momento della celebrazione.

La disciplina al riguardo sembra essere basata sul presupposto che chi si trova incapace al momento del matrimonio riacquisti, poi, in seguito la sua capacità, per cui sia in grado di decidere da solo se impugnare o meno. In realtà, i casi in cui si è incapaci solo al momento della celebrazione e non in seguito sono meno frequenti nella pratica di quelli in cui un incapace si sposa e rimane tale anche in seguito, pur non essendo mai stato interdetto o sottoposto ad amministrazione di sostegno.

Si potrebbe insomma, forse, valutare di sottoporre la questione alla Corte costituzionale, che proprio di recente è intervenuta, sempre in materia familiare, anche se relativamente alla filiazione, per conferire maggiori diritti agli incapaci naturali.

Naturalmente, questo comporta per voi un percorso molto lungo e difficoltoso. Per prima cosa, dovreste dimostrare che vostro padre era incapace di intendere e di volere al momento della celebrazione del matrimonio e in seguito, quindi chiedere al giudice di mandare la questione alla Consulta. Il classico percorso, insomma, che sono più invogliati a percorrere coloro che amano più il sistema giudiziario delle loro esigenze personali e concrete…

Dal punto di vista istruttorio, la seconda moglie di vostro padre poi avrebbe un importante argomento a suo favore: se vostro padre era incapace al momento del matrimonio, perchè non vi siete attivati quando era ancora in vita, per fargli nominare un amministratore di sostegno che poi, con il consenso del giudice tutelare, avrebbe potuto presentare l’impugnazione per conto dell’amministrato?

Sarebbe comunque un caso molto interessante, che credo nella pratica si verifichi purtroppo più spesso di quel che si pensa.

B) Per ciò che concerne, invece, il diritto sulla casa di tuo padre, si potrebbe contestare, circostanze di fatto alla mano, che tale immobile sia stato mai adibito a «residenza familiare», come previsto dall’art. 540 cod. civ.. Lo scopo di questa norma è di derogare alle disposizioni ordinarie sulle successioni al fine di consentire al coniuge rimasto in vita di poter continuare ad abitare nella casa dove ha sempre vissuto. Se, al contrario, non ci ha mai abitato, viene meno lo scopo stesso della norma. Da valutare attentamente i modi in cui poter far valere tale circostanza.

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Quando passa in giudicato la sentenza di divorzio congiunto?

Sono separato da quasi 3 anni (a settembre scadono i 3 anni necessari dall’omologa per poter chiedere il divorzio). Il mio legale che è anche legale della mia ex moglie (la separazione è stata consensuale anche se non facile) ha accennato che ci vorranno circa 18 mesi dal momento in cui firmiamo il divorzio congiunto davanti al giudice per poter avere nuovamente lo stato civile libero. Di cui 1 anno e 45 giorni per poter impugnare la sentenza e/o fare il ricorso e il tempo restante per le varie trascrizioni nei comuni di residenza, nascita e matrimonio. Facendo un pò le ricerche su Internet ho trovato che ci sono due soluzioni per poter abbreviare questi tempi, di cui una è firmare l’atto di acquiescenza totale (la cosa che la mia ex moglie sicuramente non farà, in quanto ha cercato sempre di ostacolare la separazione, causa la mia compagna, solo per il gusto di farlo, visto che ha anche lei un uomo), la seconda soluzione invece è notifica della sentenza. E qui non ho capito tanto. C’è chi dice che l’avvocato notifica la sentenza a se stesso, chi dice no, si notifica alle parti e quando scade il termine breve di impugnazione di 30 gg ci vuole solo il tempo per la trascrizione di stato libero. Mi potrebbe chiarire gentilmente questo punto, è cioè se è vero che la notifica della sentenza effettivamente abbrevia i tempi e in che modo avviene nel caso del patrocinio dello stesso avvocato tra gli ex coniugi. Se Lei mi da la conferma di questa possibilità mi chiedo perchè il nostro avvocato non ha detto niente di tutto ciò.

È una questione interessante e ancora controversia sia in teoria che in pratica. Dalla stessa, naturalmente dipende il riacquisto dello stato libero e la possibilità di celebrare un nuovo matrimonio.

Fortunatamente, da novembre 2014 si può divorziare tramite un accordo in house, cosa che consente di superare nella pratica questi problemi, dal momento che per la trascrizione dell’accordo è prevista una procedura precisa.

I termini del problema sono descritti come meglio non si potrebbe probabilmente fare in questo brano dell’articolo di Francesco P. Luiso, Questioni varie in tema di impugnazione dei provvedimenti di separazione e divorzio, in www.judicium.it. Il testo è tecnico e sicuramente non comprensibile interamente per gli utenti, intanto proviamo a leggerlo insieme, al termine qualche nota illustrativa con linguaggio più divulgativo.

L’altro problema che intendo affrontare riguarda la legittimazione ad impugnare le sentenze pronunciate nel procedimento di divorzio, con speciale riguardo a quelle pronunciate su domanda congiunta (art. 4, comma 16, della L. 898/1970).

Per chiarire bene i termini della questione, è opportuno premettere che, secondo opinione concorde, la sentenza di divorzio è efficace dal momento in cui passa in giudicato, e che tale efficacia non è retroattiva: sicché il momento in cui avviene il passaggio in giudicato assume un significato particolare, in quanto ogni ostacolo alla pronuncia di divorzio, che si dovesse verificare fra la pronuncia della sentenza ed il passaggio in giudicato della stessa, ne impedisce la produzione degli effetti. Così, se la morte di uno dei coniugi ha luogo dopo la pubblicazione della sentenza, ma prima del passaggio in giudicato, la sentenza di divorzio non produrrà mai i suoi effetti; il contrario accade, se uno dei coniugi decede dopo che la sentenza di divorzio è passata in giudicato. Con la conseguenza che, ad esempio, nel primo caso il coniuge sopravvissuto acquista la qualità di erede, mentre nel secondo caso no.

Ora, si può certamente convenire sulla soluzione; ma sembra riduttivo, per verificare se la sentenza è o meno passata in giudicato, far riferimento esclusivamente al decorso dei termini, come è accaduto allorché la fattispecie appena ipotizzata è stata portata all’attenzione della Corte di cassazione, e questa si è limitata a verificare se la morte di uno dei coniugi era sopravvenuta o meno durante la decorrenza del termine per impugnare[13].

Come ognun sa, infatti, il giudicato formale dipende dalla impossibilità di proporre le impugnazioni c.d. ordinarie (art. 324 c.p.c.[14]) e dunque dalla perdita del potere di impugnare non solo per decorso dei termini, ma anche per acquiescenza: ma, ancor prima, per perdere il potere di impugnare è necessario che esso sia sorto, e dunque sia l’acquiescenza sia la mancata proposizione dell’impugnazione ordinaria nei termini assegnati debbono riguardare un soggetto, rispetto al quale quel potere è venuto ad esistenza[15]. Dunque, la corretta impostazione è la seguente: individuare se ed in capo a chi è sorto il potere di impugnare; verificare se tale potere è stato perso (per acquiescenza o per l’inutile decorso dei termini prescritti) prima o dopo che sia verificato l’evento ostativo alla produzione degli effetti da parte della pronuncia di divorzio[16].

Secondo i principi generali, il potere di impugnare sorge a favore della parte soccombente: chi, invece,  ha avuto dalla sentenza quello che aveva richiesto, non è legittimato ad impugnare. Tant’è vero che l’impugnazione da lui eventualmente proposta è inammissibile e comunque inidonea ad impedire il passaggio in giudicato della sentenza, se manca la tempestiva impugnazione di una parte legittimata, oppure quest’ultima fa acquiescenza[17].

Si deve dunque concludere che, a favore del coniuge che aveva chiesto la pronuncia di divorzio, non sorge il potere di impugnare, sicché l’eventuale acquiescenza, prestata dalla controparte prima che uno dei coniugi deceda, non impedisce al divorzio di operare. E soprattutto si deve concludere che, se il divorzio è chiesto da ambedue i coniugi, il potere di impugnare non sorge a favore di alcuno e dunque la sentenza di divorzio nasce già passata in giudicato formale[18].

Questa conclusione, in linea con i principi generali delle impugnazioni, è invece disattesa dalla giurisprudenza sopra indicata[19], la quale è giunta a ritenere inefficace il divorzio a causa  della morte di uno dei coniugi, verificatasi in pendenza del termine per impugnare, anche in presenza di domanda congiunta[20], oppure in un caso, nel quale il coniuge convenuto aveva concluso per l’accoglimento della domanda di divorzio[21]. Anche la dottrina maggioritaria giunge alla stessa conclusione. Ma francamente la soluzione non convince.

In primo luogo, l’espressione utilizzata dall’art. 5, comma 5, della L. 898/1970 (secondo la quale “la sentenza è impugnabile da ciascuna delle parti”) non è sufficiente ad espellere dal sistema un requisito fondamentale[22] e – a quanto risulta – immune da eccezioni, quale quello della soccombenza[23]: requisito che, oltretutto, realizza il principio di buona fede e correttezza processuale[24]. Sarebbe contrario ad ogni canone di lealtà e probità consentire ad una parte, che ha ottenuto quello che aveva richiesto[25], di venire contra factum proprium[26], e proporre impugnazione “pentendosi” di quanto aveva voluto.

In secondo luogo, la eventuale natura indisponibile del diritto, oggetto del processo, è irrilevante in questa direzione[27], poiché le conclusioni prese da una parte – e sulle quali si misura la soccombenza – non costituiscono un atto di disposizione del diritto. Altrimenti il giudice dovrebbe pronunciare anche quando, in materia di diritti indisponibili, l’attore rinuncia agli atti del processo o l’impugnante rinuncia all’impugnazione: ciò che non è mai stato sostenuto da alcuno.

Ancora: è vero che “il passaggio in giudicato della sentenza civile dipende necessariamente dall’estinzione del potere di impugnarla con i mezzi ordinari” e che non è configurabile  “un’estinzione del potere di impugnazione anteriore a quello della nascita della sentenza”[28]: però è anche vero che il potere di impugnazione, oltre che estinguersi, può anche non nascere, e che a tal fine è rilevante proprio “il concreto contenuto delle domande e delle difese proposte nel corso di un determinato giudizio”[29], poiché a favore della parte non soccombente il potere di impugnare non nasce proprio, e dunque rispetto alla parte vittoriosa acquiescenza e decorso del termine sono istituti senza significato, in quanto la sua acquiescenza non rileva, e la sua impugnazione non ha alcun effetto.

Dunque, tirando le fila: la sentenza di divorzio pronunciata su domanda congiunta, o a seguito di concordi conclusioni dei coniugi, nasce passata in giudicato perché non esiste alcun soggetto a cui favore sorga il potere di impugnare: non il P.M., come abbiamo visto; non i coniugi, perché nessuno dei due è soccombente. Né si può opporre che – quantomeno con riferimento alla sentenza di primo grado – resta esperibile il regolamento di competenza[30], e ciò per una duplice ragione: in primo luogo, perché il regolamento di competenza (ovviamente facoltativo) è esperibile solo se la sentenza di divorzio decide anche di una questione di competenza; e, dunque, se nessuna questione di competenza è decisa, la sentenza non è impugnabile con il regolamento. In secondo luogo perché, quando insieme al merito è decisa una questione di competenza, ciò significa che il tribunale  si è ritenuto competente (altrimenti non avrebbe pronunciato nel merito), e dunque – secondo i principi – la parte vittoriosa nel merito non ha mai il potere di impugnare in rito, per carenza di interesse.

La conferma a contrario della insostenibilità della tesi maggioritaria si può ricavare proprio dagli assurdi e barocchi escamotages pensati dai suoi sostenitori, per ottenere il passaggio in giudicato senza attendere lo spirare del termine lungo: si va dalla dichiarazione di acquiescenza che ambedue i coniugi effettuano dinanzi al cancelliere, all’autonotificazione della sentenza o alla notificazione della sentenza  a se stesso, nell’ipotesi in cui ambedue i coniugi siano difesi da un unico avvocato, alla proposizione di un appello inammissibile al solo fine di farlo dichiarare tale [31]. Bizantinismi che mostrano quanto sia errato il punto di partenza.

NOTE

[13] Cass. 19 giugno 1996 n. 5664, in Giust. civ. 1996, I, 2544; Foro it. 1996, I, 2729; Giur. it. 1997, I, 1, 634; Dir. famiglia 1997, 543; Cass. 18 agosto 1992 n. 9592, in Foro it. 1993, I, 1171; Dir. famiglia 1993, 102.

[14] La cui centralità, nell’argomento che ci interessa, è giustamente sottolineata da CIPRIANI, Il passaggio in giudicato della sentenza di divorzio congiunto,in Riv. dir. civ. 1996, I, 612.

[15] CIPRIANI, Nuove norme sullo scioglimento del matrimonio, in Nuove leggi civili commentate 1987, 891, il quale fa esattamente notare che i termini per impugnare non sono concessi a chiunque, na al solo soccombente; ID., Il passaggio in giudicato, cit., 613 ss.

[16] Contra FINOCCHIARO, La domanda congiunta di divorzio, in Riv. dir. civ. 1987, I, 513-514, secondo il quale “nel nostro ordinamento costituisce principio generale quello per il quale, ove sia previsto un certo termine per proporre impugnazione avverso un provvedimento, quest’ultimo non acquista efficacia se non dal momento in cui il termine è decorso”. Si noti che l’A. afferma che non vi sono soccombenti a fronte di una sentenza pronunciata a seguito di domanda congiunta, sicché non sono possibili né l’acquiescenza né la notificazione della sentenza per rendere operante il termine breve. E dunque, sempre secondo l’A., la sentenza di divorzio pronunciata su domanda congiunta passa in giudicato solo dopo che sia decorso il termine annuale: essa dunque rimane inefficace in attesa di un evento (l’acquiescenza o l’impugnazione) che lo stesso FINOCCHIARO afferma non potersi verificare! Sorge spontanea la domanda: ma allora che si attende a fare? Considerazioni analoghe in CIPRIANI, Il passaggio in giudicato, cit., 614.

[17] CIPRIANI, in Nuove leggi civili, cit., 892.

[18] Così PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, 5^, Napoli 2006, 761: “La sentenza pronunciata a termine del processo svoltosi nelle forme abbreviate del rito camerale è appellabile, con la sola ovvia [corsivo nostro] limitazione derivante dal difetto di soccombenza ove la domanda congiunta sia stata accolta senza che sia sopravvenuto, nel corso del processo, alcun disaccordo delle parti”. Nello stesso senso GRAZIOSI, La sentenza di divorzio, Milano 1997, 255, il quale correttamente afferma che la sentenza “non < > in giudicato, ma < > in giudicato”. Conf. CARPI – GRAZIOSI, Procedimenti in tema di famiglia, in Dig. Disc. Priv., XIV, Torino 1996, 545; BARBIERA, Il divorzio dopo la seconda riforma, Bologna 1988, 88; e, si vis, LUISO, Diritto processuale civile, 3^, IV, Milano 2000, 257 ss.

[19] Ma v., nel senso del testo, App. Roma 15 aprile 1991, in Foro it. 1992, I, 474; Trib. Bari 9 luglio 1987, in Foro it. 1987, I, 2494.

[20] Cass. 19 giugno 1996 n. 5664, cit.

[21] Cass. 30 ottobre 1984 n. 5538, in Giust. civ. 1985, I, 345. Nella controversia decisa da Cass. 18 agosto 1992 n. 9592, cit., invece, uno dei coniugi era rimasto contumace, pur avendo dichiarato, in sede di udienza presidenziale, di non opporsi dalla domanda dell’altro.

[22] Sul quale v. ora le limpide parole di VACCARELLA, Lezioni sul processo civile di cognizione, Bologna 2006, 241 ss.

[23] Conf. BASILICO, Qualche osservazione, cit., 257 ss.; NICOTINA, Problemi processuali della nuova disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio,in Giust. civ. 1989, II, 15 (il quale, peraltro, dopo aver sostenuto che la principale caratteristica del divorzio su domanda congiunta “è costituita dalla sottrazione, pressoché totale, della sentenza all’impugnazione delle parti perché essa deve essere esclusa quando manca la soccombenza”, afferma poi (op. cit., 16) che, “con l’intento di determinare un sollecito passaggio in giudicato della decisione”, un coniuge può notificare all’altro la sentenza. Contra SALVANESCHI, L’interesse ad impugnare, Milano 1990, 237 ss.; MONTESANO, Le impugnazioni dei coniugi contro la sentenza di divorzio su domanda congiunta, in Riv. dir. proc. 1999, 15-16, il quale ritiene che la possibilità di impugnare, anche in mancanza di una soccombenza, si fonda “sull’interesse a conseguire col gravame un margine di vantaggio giuridicamente qualificabile in riguardo a beni che la legge garantisce ai soggetti e che si identificano qui con quelli che l’uno e l’altro coniuge perderebbero col venir meno dei diritti indisponibili nascenti dal matrimonio”.

[24] CIPRIANI, in Nuove leggi civili, cit., 892.

[25] E che magari ha anche notificato la sentenza alla controparte, come è accaduto nella fattispecie decisa da Cass. 19 giugno 1996 n. 5664 (CIPRIANI, Il passaggio in giudicato, cit., 603).

[26] Nel significato che questa espressione assume in materia processuale, come espressione di uno stringente dovere di coerenza: v. sul punto FESTI, Il divieto di “venire contro il fatto proprio”, Milano 2007, 228 ss.

[27] Così, invece, Cass. 30 ottobre 1984 n. 5538, cit.; MANDRIOLI, Diritto processuale civile, III, 19^, Torino 2007, 128 e, con riferimento alla domanda congiunta, 133; SALVANESCHI, L’interesse ad impugnare, cit., 254.

[28] Così TOMMASEO, Lo scioglimento del matrimonio, cit., 680.

[29] Le quali, secondo TOMMASEO, op. loc. cit., non avrebbero rilievo per determinare il passaggio in giudicato della sentenza.

[30] TOMMASEO, Lo scioglimento del matrimonio, cit., 681.

[31] V. in arg. TOMMASEO, Lo scioglimento del matrimonio, cit., 959-950; CIPRIANI, in Foro it. 1996, I, 2731; NICOTINA, Problemi processuali, cit., 16; FINOCCHIARO, La domanda congiunta, cit., 514.

In sostanza, secondo questo giurista, la sentenza di divorzio congiunto passa in giudicato direttamente, senza che si possa parlare nemmeno di decorrenza dei termini, dal momento che affinchè nasca il potere di impugnare è necessario che una parte vi abbia interesse perchè una sua richiesta non è stata accolta: se il ricorso è stato congiunto, tutte le richieste delle parti sono state accolte e quindi non c’è interesse ad impugnare. Quindi la sentenza resa al termine di un procedimento di divorzio congiunto diventerebbe definitiva automaticamente ed immediatamente. Sempre secondo questo autore, le soluzioni come quella da te vagheggiata dell’autonotifica e simili sarebbero «assurdi e barocchi escamotages» ed in effetti è difficile, sul punto, dargli torto dal momento che un difensore che notifica una copia autentica di una sentenza a sè stesso è un non-sense. La notifica alla parte personalmente, poi, a mio giudizio non sarebbe idonea a far decorrere il termine breve per impugnare, dal momento che la legge prescrive espressamente che sia valida a tale scopo solo ed esclusivamente la notifica fatta al procuratore, che conosce il diritto e sa che cosa comporta la notifica, cosa che invece non si può dire per la parte.

Non so se poter concordare con questo autore, probabilmente la sua tesi è corretta nella quasi totalità dei casi ma può anche darsi che ci siano delle ipotesi in cui c’è un interesse ad impugnare delle parti. In materia familiare il giudice ha poteri d’ufficio che prescindono dalle richieste delle parti, specialmente se ci sono figli il cui affidamento e la cui gestione possono essere da regolamentare. Può darsi che il Tribunale, preso atto della volontà dei coniugi di divorziarsi e quindi di acquistare nuovamente lo stato libero, accolga solo in parte le condizioni di divorzio proposte dai coniugi stessi, modificandole, anche solo in piccola parte, magari per quanto riguarda i figli, non ritenendole coerenti con gli interessi dei minori, in luogo di diverse disposizioni. L’ipotesi è sicuramente più di scuola che di pratica, ma nulla esclude che possa verificarsi. In questi casi, la parte potrebbe aver interesse ad impugnare, per dimostrare, ad esempio, che le condizioni di affido che aveva proposto erano, al contrario di quanto ha ritenuto il giudice di primo grado, effettivamente più favorevoli all’interesse dei figli.

Quindi non so se si possa dire che questo genere di sentenze passa sempre e comunque in giudicato.

Il problema, dal lato pratico, è che l’avvenuto passaggio in giudicato, e la conseguente definitività o meno, della sentenza deve essere valutato da operatori cui comunque non spetta il potere e la competenza per andare a valutare se vi può essere soccombenza o meno, come i funzionari dell’ufficio anagrafe, i quali avrebbero bisogno semplicemente di un documento attestante l’irrevocabilità della sentenza. Per questo, nella pratica, si «scade» nel ricorso a quegli escamotages di cui sopra, la auto-notifica o la dichiarazione di acquiescenza, per poter formare qualcosa che sia in grado di convincere un funzionario che bene o male non può andare a valutare nel merito la sentenza. Nel tuo caso, quindi, tutto può far brodo per convincere l’ufficiale di stato civile del riacquisto da parte tua dello stato libero, conviene tuttavia prima parlarne direttamente con lui stesso e poi mettere in pratica il sistema che consiglia.

Noi, in studio, da anni facciamo mettere alle parti la rinuncia all’impugnazione nel testo del ricorso congiunto, per quel che può valere, e il Tribunale di Modena in questi casi subito dopo l’emissione della sentenza la rilascia con la dichiarazione di irrevocabilità. In questo modo i nostri assistiti non hanno mai avuto problemi particolari, anche se in un caso un ufficio anagrafe ha voluto anche una dichiarazione di acquiescenza per scrittura privata, probabilmente un episodio di mera burocrazia privo di particolare significato.

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Separazione o comunione dei beni: qual è meglio?

Homer e Marge

Che cosa sono.

Ecco una domanda sempre molto gettonata, che riceviamo periodicamente con una certa costanza:

Devo sposarmi, ma io e la mia fidanzata siamo incerti se fare la separazione dei beni o la comunione, che cosa è meglio?

È il caso, quindi, di fare un po’ di chiarezza.

Innanzitutto vediamo però che cosa sono comunione e separazione dei beni.

Si tratta di regimi patrimoniali della famiglia, cioè regole che stabiliscono di chi è la proprietà di quello che viene acquistato da uno dei due coniugi durante il matrimonio, a partire da subito dopo la celebrazione di esso. Questi regimi possono essere cambiati anche in seguito, passando ad esempio da comunione a separazione e viceversa, ma sempre solo con l’accordo dei coniugi, altrimenti il loro mutamento si può avere solo con separazione personale o divorzio, o decesso di uno dei due.

In generale, con la separazione dei beni ogni coniuge conserva la proprietà dei beni che acquista, mentre con la comunione alcune, molto importanti, categorie di beni che acquista uno dei due coniugi diventano di proprietà comune, per effetto del matrimonio. In realtà, il discorso è molto più articolato e non sempre facile da comprendere per i profani del diritto (e anche purtroppo a volte per qualche avvocato).

Ad ogni modo, per spiegare un po’ meglio la differenza, grosso modo, in modo che sia comprensibile a tutti, si può dire che con la separazione non cambia niente rispetto alla situazione precedente, ognuno rimane proprietario dei suoi beni e dei suoi redditi; con la comunione, invece, si costituisce una specie di “società” tra marito e moglie per cui gli acquisti fatti da uno dei due, con alcune importanti eccezioni, diventano di proprietà comune e sono soggetti a regole particolari per quanto riguarda la loro amministrazione e la possibilità che i creditori dei coniugi possano pignorarli.

Il sistema preferibile in linea generale.

In generale, secondo me è meglio la separazione dei beni, ma solo appunto in generale, perché la valutazione va rigorosamente fatta in relazione alle caratteristiche che si hanno in mente per la famiglia che si va a costituire.

La comunione dei beni è un istituto che viene messo «di default» solo nel nostro Paese, altrove il regime ordinario è quello della separazione. E’ stata, la comunione, introdotta storicamente per fare da contrappeso all’introduzione di separazione e divorzio e quindi in qualche modo anche per rendere più difficile sciogliere i vincoli matrimoniali. Purtroppo però i vincoli affettivi tra le persone non sono determinati dagli istituti patrimoniali vigenti per la famiglia e, quando vengono a mancare e si apre la crisi della famiglia, la comunione è solo un problema in più tra i tanti da risolvere e non certo un aiuto.

La comunione avrebbe anche la funzione di retribuire la donna o comunque il coniuge ch non lavora per il «lavoro casalingo», che svolge in casa e che, specialmente nel caso di famiglie con figli, è di importanza fondamentale. Si considera che il marito, ad esempio (potremmo parlare di moglie, a termini invertiti), può andare al proprio impiego o professione solo perchè la donna rimane a casa a mandare avanti la famiglia e quindi giustamente lo stipendio o comunque il reddito deve essere diviso per due.

Ma, a parte il fatto che oggigiorno lavorano nella maggior parte dei casi entrambi i coniugi, anche in regime di separazione dei beni nulla vieta che i coniugi si accordino affinchè la moglie (o, oggigiorno, anche il marito) stia a casa e poi a fine mese o anno i proventi dell’unico coniuge che lavora siano divisi. La cosa non è obbligatoria come nella comunione, ma al giorno d’oggi ciascun coniuge ha tutti i mezzi a disposizione per ottenere ciò che è giusto dall’altro coniuge ed in effetti questa sembra la strada preferibile.

Come è meglio procedere per scegliere il regime patrimoniale?

In conclusione, la cosa migliore, qualunque decisione si prenda, è non ignorare questi aspetti, come fa invece la maggior parte della gente che si sposa.

In altri paesi, come gli Stati Uniti, si usano per regolare questi ed altri aspetti addirittura i contratti prematrimoniali, che tanto scandalo suscitano qui in Italia. In realtà, a mio giudizio hanno ragione quelli che li fanno perchè quando le cose vanno bene si possono tranquillamente lasciare nel cassetto, mentre invece se vanno male, anzichè impelagarsi in separazioni che durano 10 o 15 anni come qui in Italia, si riesce a risolvere il vincolo in poco tempo e con poche complicazioni.

Qui i contratti prematrimoniali non si possono fare, perchè la materia è considerata indisponibile, in larga parte, tuttavia almeno una consulenza di base da un professionista sul regime patrimoniale da scegliere e su come amministrare la famiglia non è una cattiva idea, anche per tutelarsi contro i terzi nel caso in cui la famiglia continui. Oltre che sul solo regime patrimoniale, sarebbe bene farsi informare anche sul tipo di famiglia da costituire, cioè se basata su matrimonio, su sola convivenza e così via perché ci sono conseguenze importanti anche in relazioni a queste scelte.

Per questo tipo di problematiche, abbiamo anche definito un prodotto specifico: la consulenza prefamiliare.

Ulteriori approfondimenti

Per ulteriori approfondimenti, rimando al mio libro, disponibile anche in ebook, dove le differenze tra separazione e comunione sono illustrate più nel dettaglio, anche sotto il profilo di come vanno amministrati i beni a seconda della scelta dell’uno o dell’altro regime patrimoniale.