Categorie
counseling

Ascolto: il primissimo comandamento.

«Io lo so com’è il tuo cuore, l’ho ascoltato a lungo, tutti i giorni, per molti anni. Anche se era a volte doloroso… Perché il primo comandamento di chi vuol amare davvero è ascoltare. Chi non sa mettersi in ascolto, non può mai amare davvero…» (Le tre donne di D.)

La prima storia.

Oggi voglio parlarti di una storia zen, contenuta peraltro in una raccolta che ho già recensito in un altro post che ti invito a leggere, un libriccino che ti invito a procurarti quanto prima.

Si tratta di una storia che all’epoca, al momento in cui la lessi per la prima volta, trovai abbastanza banale e minimale, mentre invece in seguito ho capito che si tratta di un insegnamento assolutamente fondamentale.

La utilizzo infatti molto spesso quando ricevo delle persone in appuntamento, sia per la mia attività di avvocato che di mediatore, anche familiare, che soprattutto di counselor.

Per quelle persone che vengono per un percorso di cura e sofferenza, propongo infatti come counselor come prima riflessione quella contenuta e sollecitata in questa storia.

Non è un caso, peraltro, che si tratti della storia numero uno della raccolta, proprio perché è la storia che ti prepara ad ascoltare e capire effettivamente tutte quelle successive e, in realtà, tutta la tua vita.

Ma leggiamola.

Nan-in

«Nan-in, un maestro giapponese dell’era Meiji (1868-1912), ricevette la visita di un professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen.

Nan-in servì il tè. Colmò la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare.

Il professore guardò traboccare il tè, poi non riuscì più a contenersi. «E ricolma. Non ce n’entra più!». «Come questa tazza,» disse Nan-in «tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. Come posso spiegarti lo Zen, se prima non vuoti la tua tazza?»».

Svuotare il vaso.

Ora, probabilmente, anche a te questa storia può essere sembrata niente in tutto.

In realtà, essa riguarda un problema oggi diffusissimo e che evidentemente rappresentava una difficoltà anche in passato: il fatto che le persone si accostano a degli insegnamenti, o anche semplicemente ad una persona che può dare loro dei consigli, delle indicazioni o stimolare delle riflessioni, infarcite letteralmente di convinzioni, pregiudizi, decisioni già prese e punti già dati per fermi.

É il caso tipico della persona che si presenta a studio e viene in appuntamento dopo essersi già fatta un’idea pressoché completa del suo problema e della possibilità di risolverlo o meno e dei modi in cui può risolverlo.

Peccato che l’idea che se ne è fatta la persona è, nella pressoché totalità dei casi, completamente sbagliata ed è altrettanto gravemente limitante, perché rende molto più difficile così trattare il problema – oltre a rendere necessario trascorrere mezz’ora o anche 45 minuti, e quindi la maggior parte dell’appuntamento che di solito é di un’ora, per smontarla, per poi cominciare così a lavorare davvero, dopo aver eliminato tutta la spazzatura, tutte le cose che la persona stessa si è costruita da sola per remare contro a se stessa.

Questa storia bellissima – non a caso come dicevo, collocata in apertura di tutte le altre storie Zen e quindi al numero uno – ci dice esattamente questo: che quando ci accostiamo a qualcosa che ci può illuminare la strada che può essere un libro, una persona, un corso, un percorso di formazione, qualsiasi cosa che ci può cambiare la vita in meglio, dobbiamo per prima cosa svuotarci potenzialmente di tutte le convenzioni che abbiamo costruito fino a quel momento, accettando di poterle mettere in discussione.

L’ascolto.

In altri termini, dobbiamo predisporci ad un vero ascolto, un ascolto aperto e non giudicante – non giudicante sulla base di quelli che sono i nostri pregiudizi, le nostre convinzioni, i concetti che si sono ormai incancreniti nella nostra festa.

L’ascolto come sai è il primo comandamento della religione cristiana…

Quando Dio detta i suoi famosi dieci comandamenti che, come è noto, non sono tanto regole sociali di civile convivenza, quanto vere e proprie ricette per la felicità e per la crescita individuale e personale, dice per prima cosa «ascolta».

La prima parola che Dio pronuncia nel dettare i comandamenti ad Israele è dunque «ascolta», nel famoso versetto «ascolta Israele».

Quindi il primissimo comandamento, quello che rende possibile osservare tutti gli altri, compresi quelli dell’amore che sono i comandamenti fondamentali, è quello dell’ascolto perché tu non puoi assolutamente amare una persona se non sei in grado di ascoltarla davvero ed è questo un problema che, nelle mie sedute di coppia o individuali che comunque riguardano relazioni, mi trovo davanti sostanzialmente in quasi tutti i casi.

L’ascolto è tanto più necessario quanto più vuoi che il tuo amore sia più virato verso l’animico che verso l’egoico, come spiego in questa lezione registrata, che ti invito a leggere con attenzione.

Sii una tazza vuota.

Quindi ricordati della tazza di tè, tutte le volte in cui parli con una persona a cui vuoi bene oppure leggi un libro o vai da una persona che ti deve dare delle indicazioni o dei consigli…

Mettiti sempre in discussione, non ancorarti alle tue convinzioni, che sono spesso dei pregiudizi: piuttosto di fare, parti dal meraviglioso presupposto che in fondo siamo tutti degli ignari, é bellissimo – ecco perché un ignaro delle volte riesce a trattare meglio un suo problema di una persona evoluta, perché segue con adesione totale quello che riesce a capire dell’insegnamento del maestro, quando invece la persona che è rimasta a metà del suo percorso di evoluzione non ascolta davvero il maestro, ma al maestro antepone i propri pregiudizi, le proprie convinzioni inveterate, anche quando le stesse sono infondate.

Ricordi Renzo quando va dall’ Azzeccagarbugli? È la stessa identica cosa, leggi questo post dove te ho parlato più approfonditamente – comunque Renzo, pieno dei suoi problemi, pieno di paura, spaventato, non va dall’avvocato per ascoltarlo, ma va pieno di congetture e quindi, anziché esporgli il fatto accaduto, gli fa delle domande che non hanno alcun senso, perché sono domande basate sulle sue insensate congetture.

Azzeccagarbugli a questo punto si arrabbia, ma io comunque ti dico che la gente ancora oggi si presenta dagli avvocati in questo modo: anziché raccontare il fatto accaduto, formula delle domande sulla base di quelle congetture completamente sbagliate che si è fatta nella testa e quindi avanzando richieste completamente inutili, prive di senso e di utilità.

Quando vai da un avvocato, da un mediatore da un counselor o da qualsiasi altro professionista, devi raccontare i fatti: tutto il resto è un lavoro che deve fare lui.

Condividi questo post.

Se pensi che questo post possa essere utile a una persona a cui vuoi bene, mandaglielo per email, WhatsApp o Telegram. Se credi che possa interessare ai tuoi amici sui social, condividilo tranquillamente, a me fa solo piacere.

Condividere vuol dire amore per chi crea contenuti interessanti e per gli altri cui questi contenuti possono essere utili.

Vuoi iniziare un percorso?

Se vuoi iniziare un percorso di counseling, contattami compilando il modulo apposito, che trovi nel menu principale del blog, oppure chiama lo studio al numero 059761926 per concordare un primo appuntamento.

Categorie
mediazione familiare

Mediazione familiare: come si pratica?

Dopo aver passato in rassegna la mediazione familiare, anche nella sua evoluzione storica, e i vari modelli più diffusi nella pratica, passiamo adesso ad alcune conclusioni sul ruolo del mediatore e su come quindi si può operare concretamente intervenendo in una situazione familiare in crisi.

Bisogna ricordare al riguardo che la mediazione è una «giustizia informale».

Come è stato detto, infatti, «la mediazione è uno degli strumenti che le società contemporanee hanno a disposizione per cercare di risolvere i loro conflitti. Essa trova il suo posto accanto alla legislazione, al giudizio, ai provvedimenti amministrativi, ai negozi contrattuali, alle regole consuetudinarie (dove riconosciute). Nelle nostre società questi strumenti sono spesso correlati tra loro in modi vari e complessi: si pensi ad esempio alla norma prodotta dal potere legislativo che viene applicata in un provvedimento giudiziario relativo a una controversia intorno a un negozio tra privati. Nelle società di tipo tradizionale queste distinzioni sfumano o risultano del tutto assenti, tanto che in questi contesti è quasi del tutto inutile cercare di discernere ciò che per noi sono ‘legge’ e ‘diritto’ dagli altri sistemi di gestione dei conflitti. Dal punto di vista di noi moderni, si potrebbe tendere a pensare che la distinzione tra le varie forme di regolazione sociale e tra gli strumenti di soluzione conflittuale sia la conseguenza di un’approfondita discussione tra tecnici competenti circa le loro rispettive funzioni e i modi di applicazione più appropriati. All’opposto, vediamo che l’emergere di un metodo è dovuto al semplice eclissarsi di fatto di un altro.»

Il mediatore dunque non è vincolato a norme di diritto, come avviene per il giudice, un funzionario – burocrate dell’apparato giudiziario statuale, seppure in alcuni casi, tra cui segnatamente il diritto di famiglia, si tratti di un diritto a maglie molto larghe, se non larghissime, come abbiamo visto.

Resta il fatto che il mediatore gode di ampia libertà di forme, iniziative, atteggiamenti, metodi, approcci e così via. Questo è tanto vero che non è nemmeno richiesto che la formazione del mediatore sia specifica, ma possono diventare mediatore figure che provengono dall’ambito forense, da quello medico, psicologico e persino sociologico ed altri.

Sarà bene, tuttavia, che il mediatore riesca ad avere una visione interdisciplinare, studi e si aggiorni anche su temi e materie che non fanno parte del proprio bagaglio di provenienza.

Mediazione significa cura delle persone come pochi altri mestieri al mondo e, data la complessità dell’essere umano, è assolutamente necessario che il mediatore abbia una elasticità e una propria «saggezza» e visione d’insieme che possano metterlo in grado di spaziare tra diversi tipi di conoscenze ed esperienze dell’uomo.

Il mediatore deve essere sicuramente prima di tutto un ascoltatore, ma anche ascoltare è uno skill, una capacità oggigiorno da acquisire.

Della sua libertà resta il fatto che il mediatore dunque deve fare buon uso. Si è visto come ciascuno dei sei approcci più diffusi abbia una sua logica, la conclusione è che il mediatore può scegliere sia quello che gli è più congeniale o nell’applicazione del quale è più bravo ma anche quello che conviene maggiormente nel caso concreto. Ricordando, peraltro, che questi sei approcci che abbiamo passato in rassegna non sono certo compartimenti stagni ma possono essere integrati nella loro applicazione tra loro, mutuando volta per volta ciò che appare più utile dall’uno o dall’altro per la gestione del conflitto.

 

Categorie
mediazione familiare

Mediazione familiare: il modello ecosistemico.

Continuiamo con la nostra «serie» sulla mediazione familiare, esaminando uno degli ultimi modelli da passare in rassegna.

Secondo i sostenitori di questo metodo, la mediazione sarebbe “un rituale” che mira a mutare la natura dell’unità familiare, al fine di ritrovare un equilibrio che possa permettere alla coppia stessa di superare il conflitto. Anche questo approccio, dunque, insieme a quello sistemico si propone di andare a scavare più in profondità rispetto ad altri tipi di intervento.

Presupposto fondamentale in questo modello è la non negazione del conflitto, che anzi diventa esso stesso uno strumento per portare al cambiamento della coppia. Il conflitto, paradossalmente, diventa quasi uno strumento per portare, da una situazione conflittuale, ad una situazione migliore.

Chiaramente con questo presupposto il ruolo del mediatore all’inizio del percorso è quello di comprendere adeguatamente il conflitto attraverso il colloquio con le parti, per quanto si possa comprendere un conflitto familiare che spesso si è stratificato nel corso degli anni: diciamo che se ne possono comprendere i termini, mentre per quanto riguarda le cause o le ancora più evanescenti responsabilità il discorso diventa non praticabile e non utilmente percorribile.

Alla base di un approccio di questo genere, sta la considerazione dell’importanza della consapevolezza del proprio dolore, del proprio stato emotivo e della propria visione dell’altro protagonista del conflitto. Con questo metodo, le parti vengono aiutate a comprendere la vera portata della situazione, da uno stato in cui confusamente provano ostilità per l’altra parte vengono a prendere coscienza più in dettaglio dei loro sentimenti e di parte delle motivazioni alla base degli stessi, secondo un approccio suggerito dalle tecniche di mindfulness praticate sia per il dolore fisico che per il dolore dell’anima, dove si insegna ai pazienti a «tenere gli occhi ben aperti» anche di fronte al dolore, anche perché solo non negandolo si attivano i meccanismi di guarigione.

Resta il fatto che il conflitto, per quanto doloroso e carico di ricadute emotive pesanti e spiacevoli, è un’occasione di crescita e di cambiamento.

Come nel modello strutturato, anche in questo approccio il mediatore utilizzerà dei criteri di valutazione oggettivi ed equi, insomma quelle regole che avanti abbiamo definito «di procedura», scelti congiuntamente dalla coppia, sempre con l’aiuto del mediatore, prima di avviare la trattazione dei problemi.

Per quanto riguarda l’oggetto della mediazione, in questo approccio, a differenza di quello strutturale, non ci si pongono limiti.

Questo modello di mediazione prevede tre essenzialmente di snodarsi attraverso tre fasi, l’ultima delle quali di raccordo tra la fase di mediazione e quella più propriamente «legale» in corrispondenza della quale c’era invece il «troncamento» nel metodo strutturato:

  1. lo sviluppo del contesto preliminare
  2. la negoziazione sul motivo del contendere
  3. l’incontro della mediazione con la legge.

Questo modello, volgendo lo sguardo sia alle problematiche di natura pratica che a quelle emotive, come si può vedere, raccoglie in sé schemi propri anche di altri modelli, come abbiamo visto essere auspicabile.

Categorie
mediazione familiare

Mediazione familiare: il modello strutturato.

Proseguiamo, all’interno della nostra «serie» sulla mediazione familiare, con l’analisi dei vari modelli, occupandoci oggi di quello strutturato.

Tra i vari metodi ed approcci passati in rassegna sino ad ora, quello strutturato è quello più «burocraticizzato»: le virgolette sono d’obbligo, in quanto non si tratta di regole imposte per esigenze eterodeterminate, ma volte tutto al contrario a garantire un miglior risultato del processo di mediazione. Resta comunque il fatto che è sicuramente l’approccio dove il ruolo del mediatore è meno liberamente dispiegabile, quindi più che un approccio è sicuramente un metodo, in cui il mediatore deve rispettare alcuni precetti nell’accostarsi alla materia.

Un aspetto positivo di questo metodo è, paradossalmente, la minor ambizione rispetto ad esempio a quello sistemico passato in rassegna nel capo immediatamente precedente e quindi il fatto di essere molto più circoscritto ad uno o più obiettivi specifici. È un dato di esperienza comunque quello per cui quando il risultato o lo scopo cui tende un’iniziativa è ritagliato in modo più definito e circoscritto, tale scopo è solitamente raggiungibile più facilmente. Non si tratta solamente di semplificazione o del fatto che accontentandosi di un risultato percepibile come minore lo si rende più facile da raggiungere, dal momento che in mediazione non esistono risultati facili o difficili, dipendendo sempre dalla situazione e dall’atteggiamento delle parti, che dipende – quest’ultimo – spesso dal loro vissuto. Ha a che fare con il «posizionamento» dello scopo della mediazione nella mente dei suoi protagonisti, prendendo a prestito per descrivere questo fenomeno una categoria studiata dagli operatori del marketing, che non a caso è la scienza della vendita.

Se si «taglia» un obiettivo in modo molto circoscritto, esso penetra e si «posiziona» molto meglio nella mente dei protagonisti della mediazione. Un conto, ad esempio, è invitare le parti in conflitto ad una seduta con lo scopo di «cercare un metodo per riuscire ad andare un minimo d’accordo», tutto un altro conto è invitarli stabilendo come ordine del giorno una cosa molto più limitata, concreta e precisa come «stabilire chi tiene la casa familiare».

La differenza riguarda il modo di funzionare della nostra mente e probabilmente anche del nostro inconscio che, nel primo caso, si metterebbero presto in stand by, non sapendo bene cosa pensare a riguardo, proprio per la difficoltà di poter inquadrare e classificare un obiettivo così vago e generico, per quanto importante e, in linea di principio, condivisibile. Nel secondo caso, invece, le menti dei due protagonisti si metterebbero subito al lavoro alla ricerca di possibili, potenziali soluzioni al problema, presentandosi poi all’incontro ben focalizzate sul tema e in grado di discuterne a dovere, senza alcun imbarazzo specifico ulteriore rispetto a quello determinato dalla situazione.

Sappiamo, peraltro, che uno degli aspetti fondamentali della mediazione è quello di determinare le parti spesso recalcitranti a sedersi per la prima volta ad iniziare il percorso. Come si dice nella pratica dello yoga, l’esercizio più difficile di tutti è quello di aprire il lettino e mettersi a praticare. Così è anche per la mediazione, come abbiamo accennato anche precedentemente c’è l’esigenza di rompere il ghiaccio con l’idea di andare davanti ad uno «sconosciuto», il mediatore, a parlare di dettagli emotivi spesso anche molto intimi, cosa cui le persone si determinano solo se pensano che la cosa possa avere una qualche efficacia nella risoluzione dei loro problemi: contrariamente a quanto si pensa comunemente, è difficile che le parti si presentino davanti ad un mediatore semplicemente per potersi sfogare, anche perché nel momento in cui il conflitto raggiunge la gravità che presenta nei casi in cui di solito viene portato in mediazione difficilmente le parti hanno ancora voglia semplicemente di sfogarsi.

È sicuramente, da questo punto di vista, più allettante un obiettivo ben tagliato, circoscritto e posizionato, perché le parti si accostano alla seduta di mediazione investendo il loro tempo, denaro e carico emotivo ma sapendo che potrebbero uscire da quella seduta con intanto almeno un piccolo tassello della loro crisi messo a posto.

Lo svantaggio di questo approccio è che, come abbiamo accennato anche in precedenza, tutte le questioni che compongono la sfaccettata e poliedrica crisi familiare sono intimamente e fortemente legate l’una all’altra, per cui dal punto di vista tecnico sarebbe un grave errore per il mediatore affrontarle «a compartimenti stagni», dato che in caso di fallimento sul terzo o quarto tassello affrontato in ordine di tempo con molta probabilità verrebbero rimessi in discussione anche quelli affrontati precedentemente.

Non si intende dunque sostenere un metodo del genere, che sarebbe probabilmente poco produttivo, ma solo l’opportunità della definizione di un obiettivo ridotto e circoscritto in una prima fase iniziale della mediazione, quando è necessario rompere il ghiaccio e determinare le parti ad iniziare questo percorso di cui probabilmente hanno bisogno come del pane, per poi, una volta raggiunto un minimo di collaborazione e magari un embrione di decisione sul primo tassello proposto, passare subito ad affrontare la situazione più in generale o comunque i suoi nodi centrali.

In sostanza, sempre mutuando per comodità di esposizione dalla terminologia del mondo del marketing, il mediatore in questi casi deve fare upselling: le parti ad esempio sono venute in mediazione per decidere limitatamente a chi tiene la casa familiare, il mediatore deve proporre loro di affrontare, visto che il primo «nodo» è già stato gestito, anche le altre questioni sul tappeto. Considerato che le parti hanno trovato modo di decidere sulla casa, perché non parlare ora anche della calendarizzazione dei figli?

È proprio partendo da un obbiettivo circoscritto che poi si riesce ad affrontare il tutto mentre quasi sempre se si propone direttamente di affrontare tutta la situazione non si riesce nemmeno ad iniziare il percorso.

Ad ogni modo, e chiudendo la digressione a riguardo, per riprendere il tema in generale, in questo modello di discussione lo spazio lasciato agli aspetti emotivi, a differenza di ciò che avviene in quello sistemico, torna ad essere limitato, mentre si cerca più genericamente di ristabilire un equilibrio nella coppia che consenta la comunicazione e magari anche la collaborazione, focalizzandosi abbastanza sulla responsabilizzazione dei protagonisti del conflitto.

In questo approccio, si tendono a non fare incontri individuali, perdendo dunque quella dimensione di emotività che si aveva nell’approccio sistemico, che così viene grandemente compromessa, sacrificandola sull’altare del valore dell’equidistanza del mediatore, che, se incontrasse separatamente le parti, potrebbe essere visto con sospetto e non solo non essere ma soprattutto non sembrare più così equidistante.

Lo strumento adottato dal mediatore con la collaborazione delle parti è quello della definizione di regole.

Un esempio di regola potrebbe essere che tutte le comunicazioni tra le parti debbano avvenire per mezzo di telefono o di persona, abbandonando le comunicazioni per iscritto che tanto oggi vanno di moda ma che ancor di più di prestano a fraintendimenti, specialmente in situazioni di conflitto dove causano quasi sempre e regolarmente incomprensioni, ulteriori pregiudizi e così via. Manca, nella comunicazione per iscritto, la percezione del «tono della voce» e dell’atteggiamento dell’interlocutore, cosicchè la unica «chiave di lettura» delle comunicazione scritte di una parte sono i pregiudizi negativi ben radicati nell’altra, con i disastrosi risultati che tutti possono immaginare.

Una regola come questa può sembrare, vista da fuori, banale, stupida e persino demenziale, specialmente oggigiorno che siamo in piena rivoluzione digitale. Tutto al contrario, essa è invece sacrosanta e benedetta e può far recuperare una molto miglior comunicazione a molte parti in conflitto.

Sottoporsi all’applicazione di regole peraltro così banali e semplici può essere percepito come umiliante da una o da entrambe le parti, ma bisogna realizzare che in questi casi non ci si trova in una situazione normale, ma all’interno di un conflitto, che rende tutto più complicato; per quanto i protagonisti del conflitto stesso possano essere persone degne, istruite, colte, in gamba, di buon senso, non rispettando regole che paiono stupide riporteranno, sia essi stessi che presso la loro controparte, conseguenze negative che potrebbero anche compromettere l’intero risultato della mediazione.

Una parte del tempo dunque dovrà essere spesa dal mediatore per illustrare l’opportunità di rispettare le regole che vengono man mano definite, ma soprattutto di credere fino in fondo nella loro opportunità, capendo il senso di ognuna ma soprattutto dell’opportunità di procedere in questo modo, altrimenti le parti tenderanno sempre a pretermetterle. Quest’ultimo aspetto è tanto più vero nel nostro Paese, in cui la cifra comportamentale più diffusa è l’egoismo e la scarsa aderenza a regole dettate da altri, sulla scorta della presunzione per cui «non importa» e «basta un po’ di buon senso». Ovviamente, il mediatore non potrà affatto ottenere il rispetto delle regole con autoritarismo e nemmeno con autorevolezza – anche se quest’ultima sicuramente avrà forza persuasiva e dunque agevolerà il processo – ma semplicemente con una adeguata opera di convinzione, cercando di penetrare davvero nei cuori delle parti per convincerli che avere delle regole, anche quando possono sembrare stupide o banali, è una cosa opportuna e fondamentale per il loro interesse e per quello dei loro figli.

Altri tipi di regole di cui fino a poco fa non si sarebbe sentito il bisogno della formulazione o del concepimento riguardano ad esempio la pubblicazione delle foto dei figli, magari insieme ai nuovi compagni o addirittura ad opera degli stessi, sulle reti sociali (social network), episodi che riaccendono violentemente la gelosia del genitore per i figli e compromettono spesso gravemente il percorso di mediazione. Anche in questo caso si tratta di circostanze che sicuramente in astratto potrebbero essere rimesse al famoso «buon senso» delle parti ma va registrato che purtroppo così facendo non si impedisce affatto che accadano cose del genere, per cui è sicuramente – lo si dice proprio sulla scorta dell’osservazione della realtà – meglio prevedere una regola esplicita al riguardo.

Ovviamente oltre alle regole di condotta per le parti della mediazione, regolette semplici e molto circoscritte come quelle che abbiano appena accennato, che, come tali, possono più difficilmente essere messe in discussione o dare adito a problemi interpretativi, per cui sono di più facile applicabilità, non essendoci facili scuse per la parte che intendesse trasgredirle, ci sono tante altre regole possibili e opportune, che potremmo definire regole di procedura che riguardano gli incontri di mediazione e che, al di là della loro banalità, nascondono e tutelano importanti aspetti, come ad esempio presentarsi puntuali, frequentare costantemente le sedute, mantenersi in tema rispetto all’argomento che si sta trattando, non profferire offese nei confronti dell’altra parte né ricordare circostanze spiacevoli che non siano necessarie per l’argomento in questione e così via. Anche queste regole sono banalissime, ma chi ha mai partecipato ad un incontro di mediazione sa perfettamente quanto siano importanti e quanto sia a volte difficile non solo ottenerne il rispetto ma definirle e ottenere il consenso su di esse da parte di entrambe le parti.

Le regole possono essere auspicabilmente definite, in un primo nucleo, all’inizio delle mediazione, dalle parti con l’aiuto del mediatore. A costui spetterà il compito di proporre quelle più utili in generale ma anche in relazione al caso concreto, cosa che il mediatore valuterà dopo aver ascoltato le parti sia nel contenuto di quello che dicono sia soprattutto nel loro atteggiamento. Anche durante il percorso di mediazione si potranno ovviamente definire regole, starà al mediatore proporle, non come un legislatore che si pronuncia dall’alto ma più come un gioco, volta per volta in relazione ai problemi emersi, cercando di formularle sempre in maniera semplice e minimale, lasciando poco spazio per la loro elusione.

Categorie
mediazione familiare

Mediazione familiare: il modello sistemico.

Continuiamo l’analisi dei vari modelli di mediazione familiare diffusi nella pratica.

Il modello sistemico è quello più diffuso nella pratica, tanto che anche molti professionisti del settore, in primis ancora una volta gli avvocati, intendono inconsapevolmente come mediazione familiare la sola declinazione sistemica, spesso proprio perché le limitate esperienze che ne hanno avuto sono state con professionisti pertinenti a questa scuola di pensiero e di pratica.

Alla base di questo approccio, sicuramente più ambizioso e approfondito sotto certi versi dei precedenti, c’è la soluzione delle problematiche emotive ed affettive che stanno alla base del conflitto. Volendo esemplificare, prendendo a prestito categoria dalla psicologia, potremmo dire che mentre gli altri approcci fanno un utilizzo più strategico dello strumento mediazione familiare, così come ad esempio fa in Italia Giorgio Nardone, che cura le patologie dei suo pazienti con strumenti che prescindono dalla ricerca delle cause e, in buona sostanza, anche dall’analisi del paziente stesso, l’approccio sistemico invece è più simile ad una terapia di analisi classica, in cui si va o si tende alla ricerca dell’eventuale trauma e delle sua cause o comunque gli si conferisce adeguata rilevanza e non lo si mette da parte, ma gli si riconosce un ruolo centrale.

Toccando questa differenza possiamo capire un aspetto che avevamo accennato precedentemente e cioè che non è possibile stabilire in astratto quale sia l’approccio migliore per la mediazione familiare, ma sarebbe bene che il professionista fosse in grado, con una certa elasticità, di attingere dalla metodologia e dell’uno e dell’altro approccio a seconda della convenienza del caso concreto.

E’ il caso di fare un esempio.

Nel caso, in ipotesi, di una coppia di genitori già di mezza età, con figli già abbastanza cresciuti, può essere preferibile un approccio di tipo integrato o più semplice. Nel caso, invece, di un rapporto destinato a durare per molto più tempo, come quello tra genitori molto più giovani, a loro volta con figli molto più giovani, o addirittura tra genitori e figli o, sempre ad esempio, tra fratelli, può valer la pena spendere più tempo e lavoro per andare a identificare le cause del disagio emotivo che ha portato al conflitto. Si tratta insomma sempre di fare una valutazione del rapporto tra costi e benefici in relazione al lavoro che sarebbe necessario prodigare adottando un approccio di questo tipo, oltre che valutare, ovviamente, se la situazione concreta lo consente (in alcuni casi, non così rari purtroppo, ci sono termini imposti, tipicamente dall’autorità giudiziaria, che appunto impongono di “accontentarsi” di quei pochi risultati auspicabilmente ottenibili in poche sedute, anche quando si ha la sensazione che, potendo approfondire, si riuscirebbe a raggiungere un assetto molto migliore).

Tornando, comunque, ad esaminare le caratteristiche del modello sistemico e del relativo approccio, in questo contesto va detto che il ruolo del mediatore, oltre a quello, già indicato, di fluidificatore della comunicazione tra i protagonisti del conflitto, deve essere quello di una figura che tenda anche a riportare un po’ di armonia, quel minimo che è possibile nella situazione, tra le parti stesse, non tanto perché ci si consideri eticamente approvabile o desiderabile, ma perché la stessa armonia, recuperata nel suo contenuto minimo, è ritenuta funzionale per tutte le interazioni che le parti dovranno avere in futuro tra di loro.

Il mediatore dovrà quindi farsi lettore ed interprete dei diversi punti di vista delle parti, per illustrare quelli dell’uno anche all’altro e viceversa, demolendo o comunque intaccando quei pregiudizi e quei blocchi di cui si è già cennato e che sono alla base del deficit di comunicazione.

Una volta che sarà stato ristabilito un minimo di armonia tra le parti, si potrà cercare di agevolare tutte le decisione da adottare in dipendenza della intervenuta crisi familiare, tra cui la calendarizzazione delle visite e delle frequentazioni dei figli, l’assegnazione o comunque la gestione della casa familiare, i rapporti economici o, più correttamente, di mantenimento tra le parti e gli eventuali investimenti o aspetti patrimoniali ancora in comune tra le parti.

È evidente che ciascuna di queste decisioni può essere agevolata riavvicinando i protagonisti del conflitto, sia pure di poco, ammorbidendo le rispettive rigidità.

Proprio per questi motivi, viene concesso un largo spazio e un vasto contesto per l’espressione delle emozioni connesse al conflitto, avendo peraltro tale modello una matrice tipicamente psicologica, allo scopo di favorire la cooperazione per il futuro. Ovviamente, l’apertura agli sfoghi emozionali, specialmente nel contesto del colloquio di coppia, rischia di determinare il riaccendersi di livori ormai in via di affievolimento, ma se condotto con la giusta cautela e, auspicabilmente, per lo più in sede di colloquio individuale può consentire al protagonista del conflitto di recuperare una dimensione in cui sentirsi a più agio. Tutto ciò avviene a condizione che il mediatore sappia fornire un vero ascolto, che è un momento apparentemente inattivo, in realtà fecondissimo, tanto quanto inusuale e raro oggigiorno. Ciò in quanto le persone, generalmente, non hanno interlocutori che le ascoltino davvero. È stato calcolato che nelle discussioni delle persone ogni interlocutore interrompe l’altro dopo appena 17 secondi di discorso. In tali condizioni, più che al vecchio piacere della conversazione, che era ristoratore per il cuore e per la mente di chi ne era protagonista, viene da pensare ad un concorso di soliloqui, una gara di monologhi dove ognuno dei due «dialoganti» sembra affannarsi a riversare sull’altro il proprio copione, senza nemmeno attendere riscontro al riguardo, ma per il solo piacere di esternarlo, fine a se stesso.

Tornando al fulcro di questo approccio di mediazione, va detto che dunque il compito del mediatore è quello di consentire ai protagonisti del conflitto di superare anche emotivamente il loro blocco e non solo mentalmente come avviene di più negli altri due approcci, in cui il lato emotivo non viene tanto superato quanto messo da parte temporaneamente in vista di un bene superiore che viene concepito come ragionevole e tale da consentire di «sacrificare» la propria emotività medio tempore in vista di un risultato appunto più alto.

Lo svantaggio di questo approccio è quello ovviamente di richiedere più tempo, più lavoro e più approfondimenti – almeno nella maggior parte dei casi -, mentre per contro il vantaggio è sicuramente quello di tradursi inevitabilmente in un lavoro sulla persona che rappresenta un importante investimento per il futuro, sia per la miglior gestione della situazione in cui si è originato e si radica il conflitto, sia per la persona stessa più in generale, che potrebbe finire per affezionarsi alla mediazione concependola dapprima e sentendola poi come un importante lavoro su se stessa.

Alcuni mediatori che implementano il metodo sistemico ritengono di non far mai partecipare alle sedute di mediazione i figli, mentre altri sì, per meglio far comprendere agli stessi, specialmente nei casi in cui è necessaria la loro collaborazione, la situazione in cui si trova a vivere la famiglia. Ovviamene, anche a questo riguardo si possono fare delle valutazioni, che riguarderanno soprattutto la maturità e l’età (che, ovviamente, sono correlate) dei figli stessi: è evidente che un figlio di quattro anni non può mai essere reso partecipe di una seduta di mediazione, mentre dai dodici anni in poi, a seconda delle circostanze, e con tutte le cautele del caso, questo si può senz’altro valutare. Altrettanto ovviamente il mediatore dovrà valutare sia il tema di discussione sia la maturità degli stessi genitori per evitare ad esempio che, convocati per discutere ad esempio di come gestire la ex casa familiare, comincino a litigare per finire magari per rinfacciarsi avventure extraconiugali o altre piacevolezze consimili di fronte ai figli.

Nel caso in cui il processo di mediazione dovesse interrompersi per un ostacolo che il mediatore arriva a definire insormontabile in mediazione, lo stesso invita le parti a fare comunque tesoro dei frammenti di intesa raggiunti e di rivolgersi al tribunale per risolvere definitivamente la controversia.

La rassegna dei vari modelli proseguirà, come al solito, con il prossimo post della serie.

Categorie
mediazione familiare

Mediazione familiare: il modello globale / operativo.

La differenza fondamentale di questo modello rispetto al precedente, visto appunto nel precedente post della «serie», ci viene indicata già dalla denominazione di globale.

Mentre, come abbiamo visto, nel modello integrato il focus dell’attenzione è dedicato alla genitorialità, lasciando gli aspetti economici e legali alla cura dei professionisti del diritto per lo più, l’aspetto peculiare del modello globale è che il mediatore tratta tutti i conflitti che interessano i protagonisti della mediazione, sia quelli connessi alla gestione dei figli, sia tutti gli altri che quasi immancabilmente si presentano ogni volta che si è in presenza di una crisi familiare.

C’è una considerazione di buon senso collegata a questo approccio e cioè che la comunicazione deve essere fluidificata riguardo a tutti gli aspetti del conflitto, perché il disagio e il malessere che i suo protagonisti provano nella vicenda è globale ed unitario e solo artificiosamente può essere ripartito in comparti diversi, affidati a professionisti altrettanto diversi. Inoltre c’è l’opportunità di sfruttare sino in fondo, a 360 gradi, tutte quelle finestre di dialogo che, a volte miracolosamente, si riescono ad aprire, e sinchè sono aperte, senza delegare, ma soprattutto rimandare, a successivi incontri presso peraltro altre figure in occasione dei quali le parti possono benissimo essersi «richiuse» in loro stesse.

C’è anche da dire che, come abbiamo già accennato sopra parlando del modello integrato, gli accordi che si prendono in sede di mediazione sono legati da un equilibrio molto stretto tra loro, per cui non è affatto detto che vengano mantenuti tutti nel caso in cui parte di loro per qualche motivo naufraghi, anzi tutto al contrario è solitamente un dato di esperienza che, in presenza di un ostacolo relativo ad un singolo aspetto o considerazione, quasi sempre le parti si trovino a voler rimettere in discussione tutti gli accordi, specialmente quando quell’aspetto non è propriamente un dettaglio, ma un dato importante rispetto al tutto.

Vale di nuovo la considerazione per cui le persone, gli utenti, sono titolari di un problema e si rivolgono al mediatore affinchè li aiuti a risolverlo, senza potersi interessare di ripartizione di competenze, questioni di opportunità, aspetti legali che, in questi momenti, anzi particolarmente in questi momenti, sono sentiti – più che in molti altri casi – come inutili complicazioni burocratiche.

Al netto della necessità di rispettare comunque la legge, forgiando accordi che si possano sussumere tranquillamente nel suo alveo – se non altro per esigenze concrete, quali quelle di consentire il passaggio al vaglio della magistratura – va ricordato che la percezione dei problemi di famiglia da parte dei suoi protagonisti è unitaria dal punto di vista emotivo e qualsiasi frammentazione può rendere precari quei già debolissimi equilibri che il mediatore riesce faticosamente a creare e sui quali si trova a dover camminare, con la massima cautela e leggerezza possibili, per tutto il suo percorso.

L’approccio del mediatore, comunque, resta quello classico di incoraggiare entrambe le parti, con equidistanza, a farsi reciproche concessioni, nell’ottica del compromesso che resta l’unica soluzione per affrontare qualsiasi conflitto e che è in fondo una cosa nobile, tutto al contrario di quanto si pensa comunemente, perché consente la pace sociale, familiare, individuale con la rinuncia a proprie pretese, spesso anche legittime, ma che vengono messe in secondo piano per il bene superiore del raggiungimento di un assetto stabile, utile sia per gli adulti protagonisti della crisi sia per i minori stessi.

In tale approccio, si cerca di definire all’inizio del percorso alcuni criteri di equità. In realtà, questa operazione può essere interessante, perché da un lato può agevolare il raggiungimento di un compromesso facilitando dal lato emotivo la rinuncia a proprie pretese ad opera delle parti, ma porta in sé anche il rischio di cadere nel problema tipico delle norme giuridiche, quelle di essere impiegati per risolvere problemi che sono nati dopo che le stesse sono state forgiate, per non dire del fatto che formulare norme di diritto, o prescrittive, e farle adeguatamente comprendere dai loro destinatari non è affatto un’operazione semplice. Quand’anche si riuscissero a individuare criteri generali dotati di qualche validità in astratto, parti del conflitto già esasperate e con comunicazione bloccate facilmente, senza nemmeno farlo apposta, tenderanno a fraintenderle e ad usarle come «clave» l’una nei confronti dell’altra.

La mano del mediatore al riguardo deve essere delicata e molto cauta, indicando più che norme strette e rigorose, alcune considerazioni generali, sulle quali le parti non possono non essere d’accordo – come tipicamente la necessità di tutelare tutte le volte e in tutti gli aspetti in cui è possibile i figli – da richiamare durante la negoziazione e il confronto, più come un campanello emotivo che un vero e proprio «regolo» per la discussione stessa.

Nel modello globale, il mediatore ovviamente si fa garante infatti anche degli interessi dei minori e la loro presenza è talvolta anche prevista nella stanza della mediazione, prima della redazione degli accordi, in modo da rendere il metodo il più inclusivo possibile.

Nel prossimo post della serie proseguiremo l’analisi dei modelli di mediazione familiare.

Categorie
mediazione familiare

Modelli di mediazione familiare: quello integrato.

Il quadro generale.

Continuiamo la nostra importante «serie» di post sulla mediazione familiare passando all’esame dei vari modelli diffusi nella pratica di mediazione, cominciando da quello integrato.

Sono infatti ormai presenti, anche nel nostro Paese, diversi modelli di mediazione familiare, che si differenziano tra loro per vari aspetti tra cui gli scopi più immediati, le tecniche tramite le quali essi vengono perseguiti e le applicazioni.

I principali sono almeno sei:

  1. il modello integrato o parziale di Emery, Marlow, Bernardini;
  2. il modello globale o operativo di Heynes e Buzzi;
  3. il modello sistemico di Irving, Ardore, Malagoli, Togliatti e Mastropaolo;
  4. il modello strutturato di Coogler e Roberts;
  5. il modello ecosistemico di Babu e Bèrubè e Parkinson;
  6. il modello transizionale – simbolico di Cigoli e Marzotto.

Il ruolo del mediatore è ovviamente destinato a variare a seconda del tipo di approccio nel cui contesto si muove, naturalmente dando conto del fatto che ogni professionista interviene in modo diverso nel caso su cui sta lavorando e che, a parte le proprie propensioni personali, derivanti da aspetti formativi o esperienziali, il mediatore può comunque integrare tecniche prese dall’uno o dall’altro approccio, se ritenute più idonee per la situazione da trattare. Così infatti come lo psicologo o psichiatra, pur essendo specializzato in un determinato tipo di metodo, può smussarlo o integrarlo con interventi presi a prestito da altri metodi a lui non congeniali ma che ben possono adattarsi alla personalità del paziente da seguire.

Ad ogni buon conto, può essere opportuno sviluppare alcuni cenni relativi ai vari metodi di mediazione familiare sopra elencati.

 Il modello integrato o parziale

In questo modello, il focus è sui problemi relativi all’affidamento e alla gestione dei figli, concentrandosi sulla definizione di un gruppo di regole, atteggiamenti e modalità riguardo al tema, ma lasciando una certa discrezionalità e forse anche libertà alle parti, anche con riguardo ai loro stati emotivi, e ampia discrezionalità di forma e interventi al mediatore.

La gestione delle sedute, di conseguenza, è abbastanza informale, non essendoci regole precostituite in modo rigido ma solo indicazioni di massima. Questo è probabilmente uno degli aspetti in base ai quali i diversi approcci alla mediazione si differenziano tra loro, ed è fondamentale per il tema che ci occupa in questa sede, che è appunto il ruolo del mediatore familiare.

Nel modello integrato, come in quello sistemico, la formalità è mantenuta al minimo livello rispetto, ad esempio ad altri modelli che in materia sono molto più rigidi: tra questi ovviamente il principale è il modello strutturato.

Il punto di riferimento dell’approccio integrato è la ricerca di una soluzione pratica, a prescindere dall’applicazione di regole di diritto, che non vengono più di tanto prese in considerazione nemmeno come riferimento culturale, ciò che causa a volte un certo disorientamento per i protagonisti della mediazione, che sono abituati a far comunque «ossequio» a quello che prevede la legge – peccato che, tuttavia, in materia familiare la legge sia assolutamente generica e limitata per lo più a dichiarazione di principi o di valori, lasciando ampissima discrezionalità agli operatori giuridici; del resto, tuttavia, non potrebbe essere altrimenti, data la molto vasta eterogeneità delle situazioni familiari e relative problematiche, cosa che mal si presta, come tutte le situazioni eterogenee, ad essere gestita tramite l’applicazione di norme di diritto costruite a maglie eccessivamente rigide e dettagliate e dove rimane assolutamente necessaria una discrezionalità attenta del magistrato o comunque dell’operatore, che, proprio in questi casi, non potrà affatto esser la bouche de la loi come avrebbero desiderato gli Illluministi.

All’inizio della mediazione, in questo tipo di approccio si chiede alle parti di effettuare una piccola «rivoluzione copernicana» rispetto alla mentalità corrente, che vede l’accostarsi alla gestione di una crisi familiare come un conflitto o un agone, dove entrambi i contendenti devono dare il meglio di sé per poter portare a casa il risultato migliore. Alle parti si chiede, tutto al contrario, di pensare a cosa intendono ancora avere in comune con l’altra parte, a quel «nocciolo» di cose in comuni che, nonostante tutti i conflitti e le emozioni negative, le parti si rendono conto di avere ancora e di poter opportunamente gestire insieme, a partire spesso dai figli.

Per questo si ritiene, generalmente, che per la praticabilità di questo tipo di approccio mediatorio sia necessario un minimo di capacità di collaborazione all’interno della coppia. In realtà, sembra che proprio nel recupero di quel minimo comun denominatore che consenta di iniziare davvero questo percorso si possano concentrare le prime sedute, i primi incontri, che oltre a saggiare meglio la situazione concreta, possono iniziare ad essere utilizzati per cercare di sciogliere le tensioni, i conflitti e vedere se man mano nasce un minimo di spirito collaborativo tra le parti.

È un dato di esperienza comune che molte persone si accostano alla mediazione con diffidenza verso lo strumento ed inoltre cariche di tensione e conflitti non sopiti verso gli altri protagonisti della mediazione stessa. Ma quando si riesce a «rompere il ghiaccio» (questa espressione, presa a prestito dal linguaggio comune, descrive davvero bene il fenomeno, tanto che difficilmente se ne potrebbe trovare una che per quanto tecnica possa essere ritenuta più appropriata), spesso sgorgano tanto inaspettate quanto abbonandanti aperture e disponibilità collaborative che anteriormente non si potevano nemmeno scorgere.

La denominazione di questo metodo come «integrato» si riferisce al rapporto che il mediatore deve mantenere con i professionisti che si occupano degli aspetti più propriamente legali, e soprattutto economici, della crisi familiare: il mediatore si incarica di fluidificare la coppia o comunque le parti del rapporto, agevolando la consensualizzazione anche dal punto di vista emotivo e psicologico, mentre il legale e cioè l’avvocato si occupa della parte, a lui più congeniale, istituzionale e burocratica.

Tipicamente, in un approccio di questo genere, le parti vengono inviate ad incontrarsi, senza la presenza di nessun avvocato, ma personalmente, con il mediatore, per riprendere la collaborazione e il dialogo tra loro; il mediatore definirà un corpus di condizioni per la gestione della crisi familiare, tramite il dialogo con le parti. A quel punto, la palla passerà al legale, o ai legali, delle parti che avrà il compito di trasfondere tali condizioni in una forma legale e giuridicamente valida e vincolante. Compito del legale è anche quello, fondamentale, di controllare la validità di quanto le parti sono arrivare a decidere, con l’aiuto del mediatore, di voler praticare, perché abbastanza di sovente le parti chiedono cose di cui non si può ottenere l’omologazione. Il caso tipico è quello delle compensazioni tra eventuali canoni di affitto o occupazione di immobili e spese di mantenimento di minori, oppure dell’esclusione addirittura di qualsiasi mantenimento a favore di minori.

In questi casi, nei casi in cui cioè il legale rileva che la negoziazione ha portato alla definizione di clausole che non sono omologabili, sia nel contesto di una separazione consensuale, sia nel nuovo contesto delle convenzioni di negoziazione assistita – che comunque sono soggette al controllo da parte della magistratura tramite deposito in Procura (e va ricordato, al riguardo, che gli avvocati che vi partecipano devono attestare che le convenzioni non sono contrarie a norme imperative di legge, di talché si può affermare che un primo controllo deve essere effettuato proprio dai legali), in tali casi, si diceva, il legale deve informare prima possibile sia il mediatore che le parti della necessità di rivedere gli accordi riformulandoli in modo da renderli compatibili con le disposizioni di legge.

Spesso, tali circostanze determinano la necessità di rivedere l’intero impianto, perché cambiare una clausola determina uno squilibrio dell’assetto complessivo che le parti avevano peraltro attraverso non poche difficoltà individuato. Per questo è importante che lo «stop» che il legale giustamente e correttamente impone a parti e mediatore in questi casi sia illustrato prima possibile e con chiarezza e abbondanza di motivazioni, in modo che la spinta, anche emotiva, che le parti, con l’aiuto del mediatore, hanno trovato verso la consensualizzazione non vada dispersa, ma anzi, tutto al contrario, venga raccolta e si ricominci a lavorare di nuovo verso una soluzione di ripiego che tuttavia sia conforme alla legge e in grado di passare al vaglio della magistratura.

Le osservazioni che si possono fare al riguardo in relazione al ruolo del mediatore sono che appunto è opportuna in capo al mediatore stesso una conoscenza di base del diritto di famiglia dell’ordinamento in cui si trova ad operare, per prevenire il più possibile situazioni di «rimpallo» come questa tra la fase di mediazione e quella davanti al legale, che, specialmente se non ben gestite, possono essere perniciose intervenendo in circostanze di crisi familiare in cui gli equilibri sono sempre precari e possono venire a mancare, già addirittura spontaneamente, in qualsiasi momento.

Queste problematiche sono ovviamente destinate ad avere minor rilievo nei casi in cui il mediatore è anche un avvocato ben preparato in diritto di famiglia, che ha adeguatamente compreso i concetti di base della materia, mentre nel caso in cui il mediatore possegga una formazione non giuridica, come spesso avviene, con anche eccellenti risultati, una integrazione specifica al riguardo non sarebbe male o comunque una particolare attenzione al dato esperienziale maturato di volta in volta nella collaborazione con il legale.

Nell’approccio in esame, si considera possibile ed auspicabile il colloquio individuale tra mediatore e parte al fine di sbloccare eventuali situazioni in quel momento ferme in attesa della fluidificazione delle parti. Il colloquio con il singolo protagonista può avere la funzione di rinsaldare il rapporto di fiducia con il mediatore e di consentire alla parte interessata di confidare quel vasto novero di cose e pensieri che sicuramente non si sente di esternare nella seduta di coppia; naturalmente, la parte cercherà di farsi «alleato» il mediatore, ciò, altrettanto naturalmente, potrà avvenire solamente a livello emotivo, nel senso che il mediatore potrà manifestarsi vicino alla sofferenza e alla difficoltà della parte, mantenendo e dichiarando sempre tuttavia la sua equidistanza e non dando mai nemmeno il sospetto di poter favorire una parte rispetto all’altra, cosa che determinerebbe il fallimento pressochè immediato della mediazione. Il colloquio individuale è uno strumento molto delicato, nel corso del quale il mediatore ha molte responsabilità, ma ha anche molte opportunità circa l’efficacia del suo intervento e delle sue sedute. Se opportunamente gestito, questo strumento può determinare l’efficacia della mediazione.

Vedremo nei prossimi post gli altri modelli di mediazione.

Categorie
mediazione familiare

Mediazione familiare: per capire i pregiudizi.

famiglia

Purtroppo, quando la comunicazione inizia ad incrinarsi e i conflitti quotidiani non vengono gestiti adeguatamente, i pregiudizi che si formano sono per lo più negativi, considerato che, come accennato nei post precedenti della serie, la pressoché totalità delle persone non lavora su se stessa, non incrementa il proprio livello di consapevolezza e tende a individuare sempre nei comportamenti altrui la causa dei conflitti e dei problemi sul tappeto.

Naturalmente, dal dare quasi sempre e costantemente la colpa agli altri alla formazione di pregiudizi negativi su quegli stessi altri il passo è brevissimo.

Questo fenomeno accade e si riproduce quasi in ogni conflitto irrisolto che si verifica in famiglia, di talchè dopo qualche tempo, e a maggior ragione dopo anni e decenni, è facile capire come la comunicazione ne risulti completamente bloccata: uno dei suo protagonisti dice una cosa, magari completamente neutrale e immune da qualsiasi cattiva intenzione, mentre l’altro la «legge» ed «interpreta» facilmente in modo distorto ed ostile, come l’ennesimo (ennesimo nella sua mente) tentativo di sopraffazione, violenza, prevaricazione, distorsione, inganno, raggiro, offesa.

Facendo ora un passo indietro, va ricordato anche un altro importante pilastro del discorso che stiamo affrontando e cioè che qualsiasi relazione umana, non solo la coppia, è conflitto in re ipsa.

È conflitto perché ogni individuo ha le sue idee circa il modo in cui vivere la vita e, nel momento in cui decide di viverla assieme ad un’altra persona, come avviene solitamente nelle coppie in cui ci si è scelti, oppure nel momento in cui si trova a doverla condividere, come avviene ad esempio nelle famiglie, tipicamente per i figli, che non hanno scelto i propri genitori né i fratelli, ogni individuo, dicevamo, deve poi stipulare continuamente compromessi con coloro che gli vivono accanto, su temi che vanno dai più banali (quando mangiare, cosa mangiare, quale film vedere, come trascorrere la serata, cosa fare il fine settimana, eccetera) ai più seri (che lavoro fare, in quale città andare a vivere, come curare questa malattia che uno di noi ha scoperto di avere ecc.).

Va realizzato in altri termini che se la famiglia, rispetto alla vita individuale o, per dirla con un termine oggi molto a la page, da single, rappresenta una risorsa, un luogo di conforto, solidarietà e reciproco aiuto, rappresenta anche, allo stesso tempo, come tutti gli «strumenti» e le esperienze dell’uomo, un momento di maggior impegno, maggior complessità – una complessità che il membro deve imparare a gestire, partendo dal primo momento necessario che è quello di acquisirne consapevolezza.

La famiglia, insomma, se volessimo semplificare, potremmo dire che ti dà tanto, ma ti richiede anche tanto, sotto forma di elasticità, comprensione, impegno, disponibilità ai tanti – piccoli o grandi – compromessi che possono essere necessari. Se non si prende consapevolezza di questo, e si continua a vivere in famiglia, allora per forza la famiglia si deteriora, con il meccanismo dei pregiudizi che abbiamo già descritto, ma anche in tanti altri modi.

La esplosione dei casi in cui sarebbe opportuno l’intervento di un mediatore familiare è dovuto proprio alla scarsa o nulla consapevolezza di queste circostanze.

Ecco allora che probabilmente il primo fronte di intervento del mediatore familiare, quando si dice che deve agevolare la comunicazione, sia proprio quello di non demolire, che sarebbe impossibile, ma cercare di pian piano di diluire e attenuare nell’efficacia la stratificazione di pregiudizi di probabilmente tutti i protagonisti della crisi familiare.

Nei prossimi post della serie passeremo ad esaminare i vari modelli di approccio a questo strumento diffusi in teoria ma anche nella pratica, cioè i vari modelli di mediazione familiare.

Categorie
mediazione familiare

Mediazione familiare e pregiudizi: per scioglierli.

Nel post di ieri, si chiedevamo come è possibile che persone che condividono scelte, affetti importanti e totalizzanti come quelli dei figli, esperienze, spesso anche affinità, finiscano per riuscire a comunicare peggio tra di loro che quando lo fanno con estranei?

Le cause sono sicuramente molteplici, si tratta certamente di un fenomeno multifattoriale, tuttavia una buona parte della responsabilità si può probabilmente individuare nella stratificazione dei pregiudizi che man mano si formano nella vita di coppia o comunque in famiglia.

Il nostro cervello, secondo le discipline che ne hanno studiato più approfonditamente il funzionamento, funziona per pregiudizi, per abitudini acquisite, per automatismi che vengono incamerati e di cui si perde la coscienza o consapevolezza.

Se così non fosse, perderemmo la capacità di andare in bicicletta, o di guidare un’automobile, manovrando volante, cambio, pedali e al contempo conversando con la persona al nostro fianco.

Pregiudizio significa etimologicamente giudizio preformato, acquisito, appunto. Esso non è affatto, come comunemente si crede oggigiorno, a causa dell’utilizzo più comune, un giudizio negativo, ma semplicemente un giudizio già svolto ed acquisito dalla nostra mente, sia in senso negativo, che positivo, che neutro (come, in quest’ultimo caso, la guida di un veicolo, che può essere svolta sia per scopi buoni che meno buoni).

I pregiudizi sono una necessità dell’uomo, è inevitabile usare queste scorciatoie che non sono certo implementate solo per pigrizia ma perché sarebbe impossibile che ognuno di noi ripartisse, con la propria mente, ogni volta da zero.

I pregiudizi possono dunque essere anche positivi. Il caso tipico e più lampante è sicuramente quello della fase dell’innamoramento, fase che ha una durata, secondo gli studi in materia (citati da Gary Chapman, in «I 5 linguaggi dell’amore»), di un paio di anni, al massimo due anni e mezzo, nei casi in cui la relazione è contrastata, durante la quale è impossibile per chi vi si trova realizzare i difetti del partner che vengono considerati, quando si ha la capacità di vederli, piccoli dettagli che si sarà sempre in grado di gestire.

Lo stesso Charles Bukowski, a riguardo, disse con spietata esattezza «L’amore è una forma di pregiudizio. Si ama quello di cui si ha bisogno, quello che ci fa star bene, quello che ci fa comodo. Come fai a dire che ami una persona, quando al mondo ci sono migliaia di persone che potresti amare di più, se solo le incontrassi? Il fatto è che non le incontri.»

I pregiudizi, dunque, sono una modalità operativa connaturata all’essere umano, un nostro limite operativo intrinseco. Le persone che sviluppano maggior consapevolezza nella vita, coloro che Budda chiamerebbe i «risvegliati», sono quelle che, pur essendo anche loro piene di pregiudizi, riescono a gestirli in modo migliore, sottoponendoli a verifiche periodiche, comunque conoscendone i limiti.

Tutte le altre persone, la pressochè totalità, continua a farsene condizionare.

La famiglia, da questo punto di vista, se è vero che resta un luogo di rifugio, conforto, sostegno, è anche un luogo in cui, dato l’alto numero di interazioni che si svolge tra i suoi vari componenti, è molto più agevolato lo sviluppo di pregiudizi reciproci, dato dalla conoscenza e dalle frequentazione sempre maggiore.

Ecco dunque il nervo scoperto dove di solito deve iniziare il suo lavoro la mediazione familiare. Vedremo maggiori dettagli al riguardo nel post di domani, che continua la serie sulla mediazione familiare.

Categorie
mediazione familiare

Mediazione familiare: sciogliere i pregiudizi, sbloccare il dialogo.

Dialogo

La mediazione familiare è, come noto, un intervento, da parte di un professionista, rivolto tipicamente alle coppie, quasi sempre genitoriali, ma praticabile anche in altri ambiti familiari, come ad esempio tra fratelli, tra figli e genitori, e, volendo, estensibile anche a contesti dove non esiste una situazione definibile come familiare in senso stretto, ma che rappresentano aggregazioni in cui, come è naturale nell’esperienza umana,  possono svilupparsi conflitti; a questo ultimo riguardo, la pratica offre numerosi esempi riguardo agli ambienti di lavoro: in questi ultimi casi, l’applicazione delle pratiche di negoziazione civile ha mostrato tutti i suoi limiti nel momento in cui gli operatori hanno dovuto riconoscere che la radice del conflitto non è in questioni materiali, ma in aspetti personali e nei rapporti tra i loro protagonisti, caso classico il rapporto tra dipendente e responsabile ma anche quello tra colleghi di ufficio.

Siccome alla base di pressoché ogni conflitto, specialmente in ambito familiare o parafamiliare, c’è un deficit più o meno vasto di comunicazione, l’obiettivo della mediazione dovrebbe essere in primis quello di «sbloccare» il dialogo tra i protagonisti del conflitto, fluidificando il confronto tra di loro, precedentemente ingessato in modo grave.

La mediazione familiare, si scopre così, ha a che fare con uno dei tanti paradossi che costellano l’esperienza dell’uomo su questa terra:

Come sempre, è la letteratura che ci fa comprendere la vita, anticipandone e codificandone i movimenti. Infatti, questo paradosso era ben noto, come abbiamo già detto in un altro post, a Tennesse Williams, autore del dramma teatrale «Un tram chiamato Desiderio» (in lingua inglese: A Streetcar named Desire), che fa pronunciare alla protagonista, Blanche DuBois, la celebre battuta «Ho sempre confidato nella gentilezza degli sconosciuti».

Blanche, donna dai molti lati oscuri, provata dalla vita, messa di fronte alla bassezza di quelle relazioni familiari nelle quali dovremmo in teoria cercare protezione, rifugio e ristoro, finisce dunque per rendersi conto della difficoltà della famiglia e per, appunto, vedere di buon occhio gli estranei, gli sconosciuti. Se tanto ci dà tanto…

Orbene, la mediazione serve dunque anche a superare questo paradosso, che non è una immagine della sola letteratura, ma un fatto reale, un’esperienza concreta, che dalla letteratura viene ripresa.

Dobbiamo però anche chiederci come mai si verifica questo, cioè come è possibile che persone che condividono scelte, affetti importanti e totalizzanti come quelli dei figli, esperienze, spesso anche affinità, finiscano per riuscire a comunicare peggio tra di loro che quando lo fanno con estranei?

Lo vedremo nel prossimo post della serie, i cui protagonisti sono i pregiudizi, una particolare forma di lavoro della nostra mente.