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Padri separati: situazione sempre pesante.

Sono separato dal 2017, la mia ex moglie mi ha tradito con un Poliziotto della stradale di riccione che oggi vive in casa mia, dove oltre al mantenimento per le mie 2 figlie verso il 50% del mutuo (€ 350). Lui si è insediato in casa mia già dalla fine del 2017 ed ho testimoni che lo possono provare, dalla relazione del CTU è emerso che è il compagno della mia ex e le mie figlie (la grande) in uno sfogo mi ha detto che lui vive in quella casa. Ho denunce penali inventate da parte della mia ex, ho denunce penali da parte di lui, ho denunce penali per maltrattamenti sulle mie figlie e di tutto questo non c’è una prova ma solo invenzioni e false testimonianze, ma non ne riesco a venire fuori in quanto nel riminese questo soggetto è molto ammanicato. Pago 400 euro di mantenimento, 350 di mutuo e 500 di affitto, mentre la mia ex moglie lavorando in nero fa la vita della signora e mi massacra

È la situazione comune dei padri separati, purtroppo.

Oggi si ciancia in continuazione di cose come i «femminicidi», una vera e propria parola truffa della neolingua di chi ci governa, che vorrebbe indurre la falsa e marcia idea per cui l’uccisione di una donna sarebbe più grave di quella di un uomo, quando sono entrambi omicidi; si parla – inoltre – in continuazione di «violenza di genere» alludendo sempre e solo a quella contro la donna, come se la violenza contro i maschi non esistesse o, se esistente, non avesse pari gravità.

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Prova ad esempio a rivolgerti ad uno dei tanti «centri antiviolenza» che si trovano sul territorio e vedi che cosa ti dicono: che, nonostante il nome generico, sono solo per le donne, mentre se tu subisci violenza ti devi sostanzialmente arrangiare diversamente.

La mascolinità tutti i media concordi vogliono fartela considerare «tossica», esattamente all’opposto di quello che è davvero, perché se c’è una cosa di cui ha bisogno la nostra società attuale sono padri forti, per poter proteggere meglio che possono la loro famiglia e i figli, mentre invece il disegno generale è quello di indebolire quanto più possibile le famiglie e i figli che ci vivono dentro.

Invece non così poche donne, purtroppo, non vedono l’ora di poter dichiarare giulive che «il vero padre dei miei figli è il mio nuovo compagno» e altre dichiarazioni consimilari – naturalmente maturate dopo che il padre biologico, sicuramente non perfetto ma pur sempre «vero» padre, è stato preso, mandato fuori casa, ridotto in miseria, amareggiato e distrutto e, sostanzialmente, reso incapace di poter prendersi cura di se stesso, prima ancora che degli altri. Ovviamente, il mantra «fai il padre!» segue subito a ruota, come se dopo aver tagliato le gambe a uno lo si potesse incitare a scrollarsi di dosso l’inedia e a correre – del resto, impossible is nothing!

Di vera e propria «character assassination» a proposito della figura del maschio parla il grande Claudio Risè nel suo bellissimo saggio, recentemente integrato e riformulato, di cui ti consiglio la lettura, Il maschio selvatico. Clicca qui per acquistare una copia.

A livello legale purtroppo, almeno al momento, è tutto corretto: la casa viene affidata alla madre perché considerata, specialmente quando i figli sono molto piccoli, il genitore più in grado di occuparsene.

Anche questo è un pregiudizio positivo ben incistato nella magistratura verso le donne, tutto al contrario di quanto la retorica contro la violenza di genere vorrebbe farci credere.

Alla collocazione dei figli, segue l’assegnazione della ex casa familiare, con tutto il corredo di mobilio. Se la casa era stata acquistata con un mutuo, il padre deve uscire di casa, pagarsi un affitto e, naturalmente, continuare a pagare il mutuo.

La povera mamma – che non è colpa sua se ha «smesso di amare», come ci informano con frequenza assillante e comunque sempre costante giornali, magazine, serie tv, opere cinematografiche e «letterarie» contemporanee – avrà pur diritto di «rifarsi una vita» (come se la vita non fosse una sola, ed eterna): così si mette in casa un altro uomo, spesso colui chattando con il quale mentre era ancora sposata – faccio il divorzista da venticinque anni e purtroppo so bene di cosa parlo – ha incredibilmente scoperto di non amare più il marito, perché – dicono – l’altro (ho sentito questa frase dozzine di volte e ogni volta che la risento vorrei ancora che mi scoppiassero le orecchie) «mi ha fatto sentire come una regina»…

Come dico sempre: non ce l’ho con le donne, sono loro che ce l’hanno con me, almeno alcune, non tutte per fortuna.

Costui di solito ovviamente approfitta volentieri dell’opportunità di un’abitazione a costo zero, dando appena una mano per il pagamento delle utenze e la gestione dei figli di un altro, che si troveranno privi dell’autorità di cui hanno bisogno e che potrebbe venire solo dal padre, e si guarda bene dal corrispondere alcunché, pur abitando nella casa, a titolo di contributo per le spese del mutuo.

Nei casi meno felici, purtroppo, si continua a sviluppare contenzioso, addirittura anche penale come nel tuo caso, addirittura in modo ipertrofico come accenni.

Per tutto questo, specialmente in un assetto sociale e in una politica / magistratura come quelli contemporanei, anche se le cose stanno sia pur lentamente cambiando, non esistono soluzioni «magiche»: ogni singolo procedimento va studiato, approfondito e affrontato con cura, come se… fosse una cosa seria, come in effetti legalmente è, perché, al di là delle ragioni effettive, può concludersi giuridicamente con un provvedimento sfavorevole che non farebbe che aggravare ancora di più la tua situazione.

Cosa si può fare, dunque?

Il primo passo è sicuramente studiare bene tutta la tua situazione, attraverso un primo colloquio che, ormai, potrebbe avvenire naturalmente tramite Skype o altri sistemi di videoconferenza, e l’esame della documentazione relativa.

Probabilmente sono da preventivare alcune ore di lavoro, un’ora non credo proprio possa essere mai sufficiente.

Se credi, puoi procedere direttamente all’acquisto di una ricarica dal nostro store legale: clicca qui per valutare.

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La violenza di genere: la violenza assistita.

La violenza di genere ha un risvolto particolare che tocca le basi ancestrali della nostra cultura: i minori; spesso assistono alla violenza e per questo sono violati e oggetto di violenza, chiamata nel gergo giuridico “violenza assistita”.

Va detto subito che i bambini non possono nulla, anche se sentono, vedo, percepiscono e subiscono le conseguenze della violenza in ambito familiare.

Queste violenze continuano a non essere considerate nella loro completa accezione; frequentemente, se emergono, vengono minimizzate e questo, a mio modesto avviso, è perché i minori non hanno una vera completa tutela e non mi so veramente spiegare il motivo di questa mancanza.

Se è vero che ogni persona viene al mondo “con il suo fagottino” ed è capace di badare a sé o di imparare a farlo; nulla giustifica l’abuso su minori.

Ecco alcune definizioni di abuso su minori:

OMS 2002 PER ABUSO “DEBBONO INTENDERSI TUTTE LE FORME DI MALTRATTTAMENTO FISICO E /O EMOZIONALE, ABUSO SESSUALE, TRRASCURATEZZA O NEGLIGENZA O SFRUTTAMENTO COMMERCIALE CHE COMPORTINO UN PREGIUDIZIO reale o potenziale per la salute del bambino per la sua sopravvivenza per il suo sviluppo o per la sua dignità nell’ambito di una relazione caratterizzata da responsabilità, fiducia, potere”.

CISMAI (Coordinamento Italiano del Servizi contro il Maltrattamento ed l’Abuso all’Infanzia) : “per violenza assistita da minori in ambito familiare si intende il fare esperienza da parte del bambino/a di qualsiasi forma di maltrattamento compiuto attraverso: –violenza fisica (percosse con mani od oggetti, impedire di mangiare, bere dormire, segregare in casa o chiudere fuori, impedire l’assistenza e le cure in caso di malattia) violenza verbale e psicologica (svalutare insultare, isolare dalle relazioni parentali ed amicali, minacciare di picchiare, di abbandonare, di uccidere…) –violenza sessuale (stuprare ed abusare sessualmente)  –violenza economica( impedire di lavorare, sfruttare economicamente, impedire l’accesso alle risorse economiche, far indebitare);VIOLENZA COMPIUTA DA FIGURE DI RIFERIMENTO O SU ALTRE FIGURE SIGNIFICATIVE, ADULTE O MINORI.

WITNESSING VIOLENCE: “si indicano tutti quegli atti di violenza compiute su figure affettive di riferimento di cui il bambino più fare esperienza e di cui può patire successivamente gli effetti”

Consideriamo che subire e vedere impotenti, percepire la distruzione (anche fisica) delle figure di cui il bambino si fida ed alle quali affida la propria vita, da cui -da 0 a 3 anni- riceve accudimento essenziale per la sua sopravvivenza; non è un piccolo battito d’ali di farfalla, ma un enorme solco che viene tracciato nel cuore di un bambino (inerme) da un gigantesco aratro: l’aratro  trascina il vomere  creando il solco in uno spazio spesso molto largo ed in un tempo spesso molto lungo; più la terra è fresca, più il solco si fa profondo.

Il bambino crescerà e si adatterà, ma ciò non significa che non vi sarà una compromissione di elementi essenziali che riguardano la sua crescita.

Un minore che ha vissuto l’esperienza della violenza ed anche quella assistita, sarà un adulto con delle difficoltà: non è mio compito individuarle, ma il mio compito è sottolineare fermamente il nesso di causalità fra violenza assistita e compromissione di elementi essenziali per la crescita del minore: un danno da far emergere nelle aule di tribunale.

Aggiungo un aspetto che necessita di sottolineatura: un minore è solo, non ha potere, non sa di avere tutela, al di là delle mura di casa; ha il grave problema di aver consapevolezza della violenza proveniente da una persona da cui dipende totalmente e di manifestarla anche se non sa farlo da adulto ed è atroce pretendere che lo faccia o impari a farlo da solo, invece di imparare tutti i gusti del gelato.

Desidero infine che questo mio post sia una piccola, ma ferma, luce che illumina sopra tutto i minori che sono senza mamma perché il papà l’ha uccisa.

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La violenza di genere: lo stalking

La parola stalking è molto usata e ha preso una connotazione generica; questo a mio avviso genera confusione mentre va subito detto che con la parola stalking si individua una precisa fattispecie giuridica: Il codice penale definisce lo stalking nel reato di atti persecutori: art.612 bis. Detto reato è stato introdotto dalla legge n.38 del 2009 ed ha come tutela il bene della libertà della persona. Si tratta di un reato abituale a forma parzialmente libera: “chiunque con condotte reiterate minaccia o molestia taluno in modo da cagionar un perdurante e grave stato di ansia e di paura o generare un fondato timore per l’incolumità propria e di un proprio congiunto perpetrata su una persone legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni (..)”

L’azione consiste in

minaccia: si prospetta un male ingiusto il cui verificarsi dipende dalla volontà dell’agente.

molestie: a detto sostantivo il legislatore ha voluto dare un significato non tipizzato ma tale da comprendere tutte le fantasiose ed imprevedibili condotte insidiose realizzate dal reo, al fine di minare la libertà della persona; una vasta fenomenologia di condotte che dal 2009 si è manifestata ad es. IN COMUNICAZIONI INTRUSIVE, REITERATE E ASSILLANTI COME TELEFONATE, LA POSTA SOTTO CASA E ALL’USCITA DAL LAVORO, (questi gli esempi più classici ma v’è da dire che non vi è limite alla fantasia umana) INVIO DI DONI E DI FIORI REITERATO, far trovare animali vivi o morti, violazione di domicilio, annullare o richiedere beni o servizi per conto della vittima inserzioni ed annunci pubblici con l’indicazione di dati personali della vittima, mettere in rete immagini della vittima con connotazioni sessuali, invio di email pornografiche, furto di identità della vittima, delegittimazione della vittima( attraverso false accuse di fatti infamanti) nel contesto relazionale e sociale di riferimento. Attivazione di azioni legali strumentali; dette condotte devono essere sottoposte all’interpretazione del magistrato; devono essere reiterate nel tempo; connotate dall’assillo.

Le conseguenze del delitto sono tipizzate: tutte queste condotte per essere oggetto di esame del magistrato ed indagate devono avere come conseguenza:

-soggettivamente, uno stato d’ansia grave o di paura della vittima per l’incolumità propria, di un proprio o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva;

-oggettivamente: deve essere tale da costringere la vittima a modificare le proprie abitudini: esempi classici: cambio del numero di telefono, cambio della sede di lavoro, cambio della targa automobilistica, cambio della residenza o del domicilio.

Per tutte queste azione il carnefice, ovvero il reo deve sentirsi soddisfatto quando ha raggiunto la sua meta: controllare la vittima a proprio piacimento, costringere la vittima a tollerare molestie, minacce, modificare la sua vita e stare in uno perdurante stato d’ansia e di paura.

La pena viene aggravata -se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è nota o che è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa; -o se il fatto è commesso con strumenti informatici o telematici (il cyberstalking: furto di identità propagazione di dati anagrafici e sensibili false inserzioni commerciali)

Questo è sommariamente l’ossatura del reato di stalking nella legislazione italiana: il contegno del carnefice deve essere ben individuato e compreso soprattutto per le donne, che inizialmente scambiano l’assillo e le attenzioni reiterate per gentilezza e corteggiamento.

Spesso l’assillo ossessivo si placa se la vittima cede, ritira la querela e ritorna alle abitudini tossiche; di solito tale decisione viene preceduta da un “chiarimento” con il carnefice attraverso il quale il medesimo si dice pentito e pronto a rimediare.

È stato notato invece che appena il carnefice è certo della riappacificazione, non ci mette molto a rimettere in atto più sicuro di sè e con maggiore violenza, la condotta vessatoria sulla vittima;

questo circolo vizioso viene chiamato tecnicamente “spirale della violenza”.

Tutto ricomincia in modo più grave per la vittima, segue ribellione, segue pentimento, segue riappacificazione, seguono nuove più pesanti aggressioni;

imboccata questa spirale non è difficile immaginare che al fondo vi è la morte della vittima: femminicidio.

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Violenza di genere: il centro antiviolenza.

In un mio precedente post descrivevo la violenza domestica con alcuni cenni su come il nostro paese, a seguito della Convenzione di Istanbul, si è attivato per evitare questo fenomeno che porta addirittura alla morte della vittima- più spesso di quanto l’opinione pubblica riesce a capire-.

Vorrei continuare ad indicare altri mezzi utili di protezione contro la violenza domestica, al fine di sensibilizzare tutti sul problema e consentire, nel mio piccolo, la liberazione dagli stereotipi di genere che vedono la femmina succube del maschio, una situazione veramente inconcepibile.

Non tutti sanno che quando si è allo stremo delle forze cercare aiuto diventa una impresa ciclopica: ci si sente isolati dal mondo. Innanzitutto, mi riporto al mio precedente post e invito a chiamare il n. 112 AREU oppure rivolgersi del consultorio familiare più vicino i cui recapiti sono facilmente reperibili, oppure è possibile contattare un centro antiviolenza.

A seguito della convenzione di Istanbul una serie di accordi, protocolli, fra stato e regioni italiane, fra il 2014 ed il 2017, hanno permesso di dare maggiore sostegno ai centri antiviolenza e alle case rifugio. Per la regione Lombardia cito “il piano quadriennale regionale per le politiche di parità e di prevenzione di contrasto alla violenza di genere 2015/2018”.

Esiste in Lombardia, come mi auspico anche nelle altre regioni italiane, una rete territoriale che aiuta le vittime di violenza a difendersi, il mio invito è di rivolgersi anche a queste strutture.

Spendo due parole sul centro antiviolenza per come lo conosco e ne approfitto per ringraziare coloro che gentilmente mi hanno aiutato dandomi i dati e le conoscenze che riporterò di seguito.

Antiviolenza è una parola a mio avviso terribile perché significa ammettere a sé stessi di subire violenza, tuttavia è positiva perché quando si riesce ad uscire dalla paralisi della paura, si viene a sapere che vi sono persone che aiutano contro la violenza.

Dette strutture hanno una loro precisa diffusione territoriale e sono sostenute principalmente da volontari, formati al compito di aiuto e difesa.

Quando ci si rivolge seriamente a detta struttura si “viene presi in carico” da una equipe; consapevoli in modo sufficiente che ci si impegna in gruppo ad uscire dalla situazione di violenza.

Si ha sostegno psicologico e legale; in alcuni casi si ha sostegno economico, accoglienza ed ospitalità. Giova ripetere cosa sia la violenza: comportamenti che consistono in maltrattamenti psicologici, fisici, sessuali, economici, da una persona legata da relazione intima verso l’altra, al fine di ottenere potere, controllo, ed autorità. Ha come conseguenze: isolamento sociale, familiare, perdita delle relazioni significative, perdita del lavoro, perdita della casa, e del tenore di vita precedente la violenza.

L’aspetto più sconcertante a mio avviso è la perdita del valore di sé, che ad esempio si manifesta in comportamenti autolesionisti (uso di alcool o di droga) la perdita dei meccanismi di autoprotezione.

Il centro antiviolenza in primo luogo dà un sostegno psicologico che implica un graduale riavvicinamento a sé come ad un valore inestimabile, attraverso l’elaborazione fino alla fine della violenza subita, con il racconto completo; attraverso il recupero delle risorse della persona, il recupero delle proprie competenze genitoriali -se necessario viene attivata una consulenza psicopedagogica nel ricostruire la relazione genitore figlio-; non ultimo, vengono presi in carico minori vittime di violenza assistita.

Dal punto di vista legale occorre individuare il tipo di difesa più utile da approntare nell’immediato sia in ambito penale che in ambito civile.

Si assiste alla stesura di denunce /querele e le persone vengono accompagnate dalle autorità competenti.

Valutati i rapporti costi benefici dei procedimenti giuridici da intraprendere nell’esclusivo interesse della vittima e dei minori, vengono inoltre calcolati i tempi e le modalità più appropriate caso per caso. Viene applicato l’istituto del gratuito patrocinio.

Viene comunque per prima cosa valutato il rischio della vittima; se è alto, vi è allontanamento della casa e la denuncia.

Diversamente si agisce tentando di dirimere i dissidi che causano la violenza cercando soluzioni alternative alla convivenza o al rapporto tossico.

In caso di dipendenza economica si crea il reinserimento della vittima nel mondo del lavoro e si ricerca di una nuova casa, se possibile, per la ricostruzione delle basi della normale vita dignitosa.

Da queste basi si cerca di riallacciare i rapporti con la famiglia e quelli sociali.

Tutto questo viene fatto non senza grande sofferenza della vittima.

 

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Violenza domestica contro le donne: che fare in concreto?

In questo periodo della violenza alle donne si legge spesso. Dall’analisi dei dati statistici sembra che una donna su tre nella sua vita sperimenta la violenza di genere.
Nel 2013, la legislazione internazionale con la Convenzione di Istanbul, ratificata nel 2014 dall’Italia, definisce la violenza di genere domestica come
“…. tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano nell’interno della famiglia o tra attuali o precedenti coniugi e/o partner, indipendentemente che l’autore condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima”.

La legislazione tutela il diritto di tutti gli individui e segnatamente delle donne, di vivere liberi dalla violenza sia nella vita pubblica che privata; garantisce anche a livello internazionale adeguati meccanismi di cooperazione efficaci tra tutti gli organismi statali competenti: -le autorità giudiziarie, -i pubblici ministeri, -le forze dell’ordine, -le agenzie regionali e locali.
Si intende far fronte ad un problema che investe non solo la sfera giuridica del singolo, ma, prima ancora, la società, che vive tuttora imprigionata negli stereotipi di genere: la donna sottomessa, obbediente, dipendente dall’uomo.
Questi ruoli, a mio modesto avviso, sono obsoleti; educazione, cultura, sensibilità insegnano che le persone sono libere di essere sé stesse, interdipendenti le une verso le altre; non è dato sapersi però se questa mia convinzione sia concreta o realizzabile o utopistica.
Si distinguono due generi di violenza: a rischio elevato e a rischio non elevato:
in entrambi i casi- anche con la Convenzione di Istanbul, ratificata con la legge 77 /2013 in Italia-, si pone l’attenzione sulla violenza psicologica come fattore di rischio che può portare alla morte della vittima.
Viene minato il benessere della persona spezzando lo sviluppo delle sue potenzialità umane; la persona viene relegata ad un ruolo di assoluto subordine. Le modalità sono varie, tante quante sono le persone. Si raggruppano sotto definizioni giuridiche tipizzate ad esempio: minaccia, ingiuria, maltrattamento; azioni od omissioni reiterate nell’arco di un tempo, veramente in molti casi lunghissimo, inflitte al fine di rendere completamente succube la vittima.
La vittima soffre di depressione, ha paura, ha bassa autostima, si sente impotente, è isolata e soprattutto ha vergogna.
Si è detto che un terzo della popolazione femminile subisce violenza: se le conseguenze sono quelle pocanzi illustrate, è plausibile sostenere che una larga fetta di popolazione è in stato di sofferenza e assolutamente bloccata, non libera di utilizzare le proprie potenzialità per lo sviluppo; si direbbe un grave danno.

Questo disegno criminoso ha un movente così misero rispetto al danno che causa, eppure il colpevole si avvale della complicità di una società che impone alla donna ancora di obbidire all’uomo.

Quando la violenza è a rischio elevato, significa che vi è rischio che la vittima venga uccisa: la Convenzione di Istanbul prevede il divieto di metodi alternativi di risoluzione del conflitto fra cui mediazione e conciliazione; prevede l’immediato allontanamento della vittima.
Nel caso di rischio non elevato si inserisce la persona nella rete di accoglienza psicosociale al fine di pianificare un ritorno alla vita senza violenza e costrizioni.
In entrambe i casi la donna deve superare
– la vergogna ed il timore del giudizio degli altri
-il senso di colpa che la porta ad auto attribuirsi la responsabilità della violenza,
-il rischio di non essere creduta.

Per favorire la difesa concreta dalla violenza mi permetto di accennare a due dei tanti mezzi utilizzabili per la tutela di sé stesse contro la violenza domestica:
1) rivolgersi al consultorio familiare più vicino, il quale prevede il seguente protocollo di accoglienza: colloquio in un luogo protetto ed inserimento nella rete di protezione; l’ascolto nel colloquio è privo di giudizio e mirato ad individuare la situazione di rischio della vittima. A seguito di tale colloquio, il consultorio forma un’equipe per assistere la vittima, in relazione anche a rischio valutato che essa corre. Se vi è violenza, vi è obbligo di denuncia;
2) scaricare applicazione del cellulare: 112 ARE U per chiamare il numero europeo di emergenza anche in chiamata silenziosa.