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Cassazione, Sentenza n. 14412/2019: la domanda di indennità di accompagnamento è procedibile anche in assenza della “spunta” sulle voci di non autonomia nel certificato medico.

Per la suprema Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 14412/2019, la domanda amministrativa finalizzata a ottenere l’indennità di accompagnamento rimane procedibile anche se, nel certificato medico allegato alla domanda medesima, non sono state inserite le “spunte” sulle caselle che fanno riferimento all’impossibilità del richiedente di compiere autonomamente gli atti quotidiani della vita.

Nella fattispecie in esame si fa riferimento in particolare alla mancata compilazione del certificato medico che “accompagna” la domanda, e non della domanda vera e propria ( non esiste infatti la domanda di “accompagnamento”, esiste solamente la generica domanda di invalidità civile). Nel caso di specie, la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto procedibile il ricorso giudiziario finalizzato a ottenere l’indennità di accompagnamento, giudicando irrilevante il fatto che, al momento della domanda amministrativa, nel certificato medico non fossero state spuntante le caselle inerenti l’impossibilità del ricorrente a compiere gli atti quotidiani della vita. La Corte ha affermato che non sia necessaria l’inappuntabile compilazione dei certificati predisposti dall’ INPS  al fine di considerare perfezionato il requisito della necessaria presentazione della domanda , ritenendo sufficiente che la domanda medesima consenta di identificare la prestazione richiesta affinché la procedura anche amministrativa si svolga correttamente.
Conclude dunque la Corte che la certificazione medica nella quale non sia “spuntata” una delle suddette ipotesi di “non autonomia” non determina l’improcedibilità della domanda.

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A.T.P. ex art. 445 bis c.p.c.: si può ampliare la domanda originaria?

Con una significativa pronuncia, che tenta di fare chiarezza sulla “spinosa” questione in ordine alla “genericità” della domanda di invalidità civile, il giudice della Sezione Lavoro del Tribunale di Catania, nel procedimento R.G. 8142/18, ha autorizzato parte ricorrente all’ampliamento della domanda giudiziaria, consentendo l’estensione della medesima fino all’indennità di accompagnamento, inizialmente non richiesta con l’atto introduttivo della causa.

Il Giudice ha stabilito che, considerata la natura “intrinsecamente” generica della domanda di invalidità civile, che non distingue le specifiche prestazioni, vadano pedissequamente rispettati i principi di cui all’ art. 149 dis. att. c.p.c.., il quale apre alla possibilità che il requisito sanitario sorga nel corso del giudizio, solo successivamente al deposito del ricorso introduttivo.

Tale ordinanza, peraltro, va a raccordarsi perfettamente con una posizione già espressa dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza 10457/1999.

La soluzione appena esposta, oltre a soddisfare evidenti ragioni di economia processuale, va nella direzione di tutelare adeguatamente il ricorrente, consentendo al medesimo di ottenere adeguata valutazione della propria condizione senza la necessità di proporre una nuova domanda all’INPS.

In via analogica, per le medesime ragioni di natura sostanziale in ordine al carattere “generico” della domanda di invalidità civile ( che non distingue tra assegno di invalidità,  pensione di inabilità e indennità di accompagnamento) dovrebbe altresì ritenersi impugnabile  un verbale di “revisione”, che, seppur migliorativo rispetto al verbale di primo accertamento (è il caso di un 80% di invalidità preceduto da un 70%), venga comunque ritenuto insufficiente dal richiedente (che, ad esempio, ritenga di avere i requisiti per ottenere l’indennità di accompagnamento).

Nulla, infatti, avrebbe impedito alla competente Commissione Medica, in sede di revisione, di riconoscere l’indennità di accompagnamento qualora avesse ritenuto sussistente il relativo requisito sanitario.

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Verbale autotutela INPS: e le spese legali?

Nel contenzioso di invalidità civile, L’INPS è tenuta al pagamento delle spese processuali anche quando, in seguito al deposito dell’istanza di accertamento tecnico preventivo, l’Istituto si “ravvede” e riconosce la prestazione inizialmente negata depositando verbale di autotutela.

Così ha stabilito con ordinanza la Sezione Lavoro del Tribunale di Catania, in applicazione del principio della “soccombenza virtuale”.

La decisione trae origine dall’istanza del ricorrente che, dopo aver ottenuto in sede amministrativa il riconoscimento del “100 % di invalidità” senza diritto all’indennità di accompagnamento, impugnava il relativo verbale dinanzi al Tribunale di Catania.

In seguito all’instaurazione del giudizio, prima dell’udienza fissata per il giuramento del nominato C.T.U., l’INPS rivedeva il proprio giudizio e depositava in autotutela verbale nel quale riconosceva al ricorrente l’indennità di accompagnamento. In udienza, il difensore di parte ricorrente, preso atto della cessazione della materia del contendere, insisteva però nella condanna alle spese dell’INPS, in applicazione del principio della soccombenza virtuale. Il Tribunale di Catania, con ordinanza, accoglieva parzialmente tale richiesta:

“…rilevato che il procedimento è stato rimesso dal G.o.t. al presente Giudice per l’adozione delle statuizioni conseguenti all’emanazione, da parte dell’Inps, del provvedimento in autotutela del **.**.2018, con il quale è stato riconosciuto che la ricorrente è invalida ultrasessantacinquenne con diritto all’indennità di accompagnamento; ritenuto quindi venuto meno l’oggetto del contendere; rilevato che il difensore del ricorrente ha comunque domandato la condanna dell’Inps al pagamento delle spese del procedimento in applicazione del principio della soccombenza virtuale; ritenuto che, alla luce della documentazione sanitaria in atti e del provvedimento adottato in autotutela dall’ente previdenziale, sia possibile formulare un fondato giudizio prognostico in ordine alla fondatezza della domanda, per cui le spese di lite, complessivamente liquidate nella misura di euro ***, vanno poste a carico dell’Inps resistente; ritenuto, però, che – in considerazione del corretto comportamento dell’ente previdenziale che, sebbene in ritardo e dopo la notifica del ricorso per ATP, ha riconosciuto il requisito sanitario preteso dalla ricorrente – le medesime spese debbano essere compensate nella misura di 1/3, mentre i rimanenti 2/3 vanno posti a carico dell’Inps;

P.q.m.

dichiara la cessazione della materia del contendere; compensa le spese di lite nella misura di 1/3;

condanna l’Inps al pagamento, in favore della parte ricorrente, dei restanti 2/3 delle spese del procedimento, per l’importo di euro ***, oltre a I.V.A., C.P.A. e rimborso forfetario delle spese generali, come per legge, ove dovuti, disponendone la distrazione in favore del procuratore che se ne è dichiarato antistatario, avv.***”

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Pensione di invalidità: spetta anche al cittadino UE?

La Corte di Cassazione con ordinanza n. 21901/2018 ha ribadito che la pensione di invalidità spetta solo al cittadino residente all’interno del territorio nazionale.

La Suprema corte si è espressa positivamente sul ricorso dell’INPS avverso la sentenza che aveva stabilito la condanna dell’Ente previdenziale a elargire la pensione di invalidità civile agli eredi dell’interessato. La Corte d’Appello aveva bocciato le tesi dell’Inps, condannando l’Istituto a pagare la pensione.

Nel dettaglio, l’Inps aveva eccepito la mancata residenza in Italia, ampiamente provata, dell’avente diritto. Di conseguenza, secondo l’Istituto, l’interessato e i suoi eredi non avrebbero avuto nessun diritto di pretendere il pagamento dei ratei di pensione di invalidità.

Il fondamento normativo di tale posizione è stato individuato nell’art. 10 bis del Regolamento CEE del 14 giugno 1971 (come modificato dal regolamento n. 1247/1992), il quale stabilisce che la residenza sul territorio dello Stato è un requisito costitutivo del diritto a percepire la pensione in discussione.

Ottiene dunque autorevole conferma il principio che la pensione di invalidità come le altre prestazioni non aventi carattere contributivo sono erogate esclusivamente nello Stato membro dove i soggetti interessati risiedono.

In tal modo la Suprema Corte ha cristallizzato il già affermato principio della “inesportabilità” in ambito comunitario delle prestazioni in danaro non contributive, derivante dal citato art. 10-bis, comma 1, del Regolamento CEE n. 1247/1992 che sancisce il divieto di esportare in ambito comunitario le prestazioni speciali in denaro, siano esse assistenziali o previdenziali, non aventi carattere contributivo, erogabili quindi solo nello Stato membro ove gli interessati risiedono.

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Cause previdenziali: chi paga le spese di CTU?

Nelle cause previdenziali e assistenziali, il soccombente che soddisfi i requisiti per ottenere l’esonero dalle spese processuali di cui all’art. 152 disp. att. c.p.c. non può essere gravato dall’ onere di sostenere le spese della consulenza tecnica d’ufficio.

Più nel dettaglio, il suesposto articolo prevede che la parte soccombente non può essere condannata al pagamento delle spese, competenze ed onorari quando risulti titolare, nell’anno precedente a quello della pronuncia, di un reddito imponibile ai fini IRPEF, risultante dall’ultima dichiarazione, pari o inferiore a due volte l’importo del reddito stabilito come limite per l’accesso al patrocinio a spese dello Stato. In concreto, ad oggi l’esenzione dalle spese di lite spetta a chi, nell’ ultima dichiarazione, non abbia superato il limite di reddito pari a € 23.056,82, pari a due volte il limite di reddito previsto per il patrocinio a spese dello Stato, ovvero 11.528,41.

La Suprema Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 17644/2016, ha ritenuto di estendere tale disciplina anche alle spese di consulenza tecnica. La pronuncia trae origine da un ricorso mediante il quale il ricorrente aspirava a ottenere dall’ INPS il riconoscimento del diritto a percepire l’assegno di invalidità ai sensi dell’art. 13 della L. n. 118/1971.

Nel caso esaminato, il Tribunale aveva condannato il ricorrente al parziale pagamento delle spese di consulenza tecnica nonostante la sussistenza dei requisiti per ottenere l’esenzione dalle spese di lite. La Corte di Appello non accoglieva lo specifico motivo di impugnazione.

La Corte di Cassazione, nella sentenza di cui sopra, al contrario, ha ritenuto fondato il motivo di impugnazione, stabilendo che “ l’onere delle spese di consulenza tecnica d’ufficio non si sottrae alla comune disciplina delle spese processuali e che pertanto le stesse, a norma dell’art. 152 disp. att. c.p.c. non possono gravare sul soccombente nei confronti del quale sussistano le condizioni per l’esonero previste dalla richiamata disposizione”.

Pertanto, i Giudici di merito avrebbero dovuto (nonostante la soccombenza del ricorrente) porre per intero le spese di c.t.u. a carico dell’Istituto previdenziale, per le quali va estesa dunque in via analogica la medesima disciplina prevista per l’esenzione dalle spese processuali.

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ATP ex art. 445 bis cpc: da quando decorre il beneficio?

Come noto, nelle cause in materia di invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità, nonché di pensione di inabilità e di assegno di invalidità, disciplinati dalla legge 12 giugno 1984, n. 222, chi intende proporre in giudizio domanda per il riconoscimento dei propri diritti presenta con ricorso al giudice competente istanza di accertamento tecnico per la verifica preventiva delle condizioni sanitarie legittimanti la pretesa fatta valere.

Il giudice preposto all’ATP, come chiarito da Cassazione n. 6010-6085/2014 è tenuto, con il decreto di omologa, ad attenersi alle conclusioni di ordine sanitario cui è giunto il CTU. La Suprema Corte ha anche avuto cura di precisare che, in caso di asimmetria tra la CTU e il decreto di omologa, si dovrà avere riguardo alle conclusioni definitive predisposte dal consulente.
In tale solco si pone il problema della decorrenza del beneficio eventualmente riconosciuto al ricorrente nella consulenza tecnica d’ufficio. In particolare, la prassi dei Tribunali insegna che non di rado il CTU, nel riconoscere il predetto beneficio, ometta però di indicarne la decorrenza.

Tale omissione, tuttavia, non va interpretata come una carenza della consulenza tale da ingenerare incertezza circa la data di effettivo riconoscimento dell’indennità richiesta.
Al contrario, a chiarire la linea di condotta cui sono tenuti gli uffici INPS preposti alla liquidazione delle prestazioni riconosciute tramite decreto di omologa ci pensa la Nota INPS 4818/2015, nella quale viene testualmente riportato “Gli uffici amministrativi dovranno riconoscere la prestazione con decorrenza dal primo giorno del mese successivo alla presentazione della domanda.

Nel caso in cui, invece, la CTU riconosca la sussistenza del requisito sanitario da una data successiva a quella della domanda, per data di decorrenza della prestazione deve intendersi il primo giorno del mese in cui è dichiarata l’insorgenza dello stato invalidante”. A parere dello scrivente, la suesposta nota è di chiara interpretazione: la necessità di specificare la decorrenza si pone unicamente nei casi in cui il CTU ritenga di dover spostare “in avanti” rispetto alla data della domanda la decorrenza della prestazione. Tutto ciò, all’inverso, implica che in caso di mancata indicazione la decorrenza debba senz’altro farsi risalire al primo giorno del mese successivo a quello in cui è stata effettuata la domanda.