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Assegnazione casa familiare: terzo acquirente può chiederne revoca. 

L’assegnazione della casa in cui vive il nucleo familiare è il tipico provvedimento che viene richiesto e reso in primis nell’ambito di un procedimento per la separazione dei coniugi.

La regola aurea (la norma codicistica, prima ancora che intervenisse la recente riforma del diritto di famiglia) è quella del rispetto delle esigenze dei figli siano essi minori o maggiori di età, e “sfondo una porta aperta” affermando che così dovrebbe essere sia in ogni singolo aspetto di un siffatto frangente, sia nella crisi coniugale considerata nel proprio complesso.

Alla luce, perciò, dell’idonea considerazione della necessità di preservare il buon diritto di ogni figlio di restare nella propria consolidata situazione abitativa, in quello che è per loro il centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui si articola la vita familiare, anche per tutelarne il corretto equilibrio psicofisico, ciò che nella generalità dei casi si verifica è che la casa coniugale viene assegnata a quello dei due tra i coniugi, più spesso (ma sempre meno frequentemente) la madre, che viene definito “collocatario”, ovvero presso il medesimo vengono collocati i figli.

Personalmente, vorrei esprimere un minimo disappunto sull’uso di una tale terminologia, perchè mi pare -quasi- si parli dei figli come delle “entità materiali”, dei “pacchi”, come quell’ormai risalente modo di dire, delle appendici di una coppia, quando, invece, ed è ben noto a chi tra noi abbia l’immensa fortuna di essere ed essere diventato Genitore, i figli possono definirsene l’essenza stessa.

Perdonate la (pur breve) digressione, rientro nel seminato!

Ebbene, si diceva: casa coniugale al genitore con il quale quotidianamente vivono i figli. Ok.

E quando questi crescono e, come Natura vuole (o vorrebbe), vanno via di casa?

Mettiamo il caso, molto frequente (es. pensiamo al caso di un contratto di mutuo ipotecario stipulato proprio per l’acquisto dell’immobile… che dire, non ve n’è ormai uno in ogni famiglia?!) nel quale due bravi ex coniugi si accordino per la vendita della casa per poi dividersi con equità il ricavato (se il bene è in comunione e se vi è stata corresponsione delle rate di mutuo o comunque del pagamento da parte di entrambe le parti).

E se invece ci sono …problemi o questioni particolari? Ecco, è il caso di vederne una.

Recentemente, la Corte di Cassazione, nel solco del proprio ruolo di Supremo organo Giudicante, ha posto alcuni paletti proprio con riguardo alla presente questione.

Nel caso particolare che, alfine, è arrivato all’attenzione dei Giudici di Piazza Cavour, si ha un’iniziale pronuncia di Tribunale che stabilisce la cessazione degli effetti civili del matrimonio, e che andava a confermare l’assegnazione della casa coniugale, come già era stato disposto in sede di separazione, alla moglie, (si badi bene!) con trascrizione del provvedimento presso i Pubblici Registri Immobiliari.

Il marito aveva venduto poi il suddetto immobile ad un terzo, rendendolo edotto della sussistenza del diritto di godimento del bene in capo alla ex moglie, in quanto affidataria della figlia allora minorenne.

In sede di successiva revisione delle condizioni di divorzio, il Tribunale si occupava di revoca l’assegno di mantenimento disposto dalla predetta sentenza in favore della figlia, divenuta ormai maggiorenne ed autosufficiente economicamente, senza però pronunciarsi (ecco fatto il guaio!) sul provvedimento di assegnazione della casa coniugale.

A quel punto, il terzo acquirente prima richiedeva bonariamente il rilascio dell’immobile in questione, e poi era costretto per raggiungere il fine, ad instaurare un giudizio volto all’accertamento dell’insussistenza del diritto della ex moglie e della figlia a continuare ad occupare quella che era stata la casa coniugale, richiedendo oltre alla condanna delle medesime al rilascio del bene, anche la corresponsione di un’indennità per l’illegittima occupazione dello stesso.

L’importantissima precisazione svolta dalla Cassazione riguarda il principio giuridico per cui l’efficacia del provvedimento di assegnazione può essere messa in discussione solo dai coniugi (separati) o dagli ex coniugi (divorziati) attraverso il procedimento per la modifica delle condizioni di separazione o di divorzio.

Il terzo acquirente dell’immobile, invece, potrà solo instaurare un giudizio ordinario di cognizione, chiedendo l’accertamento dell’insussistenza delle condizioni per il mantenimento del diritto personale di godimento a favore del coniuge assegnatario, per essere venuta meno la presenza di figli minorenni, o maggiorenni non autosufficienti con il medesimo conviventi.

Un punto, ancora, molto importante sul quale vorrei venisse focalizzata l’attenzione è quello relativo alla TRASCRIZIONE DEL PROVVEDIMENTO: infatti il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario, avendo per definizione data certa, INTANTO ha il carattere dell’opponibilità, anche se non trascritto, al terzo acquirente in data successiva per nove anni dalla data dell’assegnazione, ovvero – ma solo ove il titolo sia stato in precedenza trascritto – anche oltre i nove anni.

Ergo, quando si è in presenza di figli minori o anche maggiorenni, ma non economicamente autosufficienti, colui che va ad acquistare, allorquando vi sia stato un provvedimento giudiziale, intercorso tra i coniugi, poi anche trascritto, come nel caso che ci occupa, sarà costretto a rispettare IL VINCOLO DI DESTINAZIONE, impresso al bene per FINALITA’ PRIORITARIE che riguardano i figli, e ciò finchè non intervenga un’ulteriore provvedimento inter partes a statuire cose diverse.

Entrano in gioco molte variabili, in una simile situazione, ma su un punto deve esserci chiarezza (e, parlando con le persone, spesso mi rendo conto che così non è): quando viene disposta l’assegnazione della casa coniugale, questo non viene fatto mai con finalità assistenziale, perchè in tal guisa è possibile che venga previsto, quello sì, l’assegno di mantenimento.

Si tratta senz’altro di una tematica vasta e piena di aspetti anche dubbi (perciò, così spesso sottoposti agli organi giudicanti), la tutela del diritto di proprietà, qui viene ad avere la meglio, in quanto venuti meno i presupposti del precedente diritto di godimento del bene immobile.

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La mia inquilina era tenuta a dirmi prima del contratto che era invalida?

sono venuto a conoscenza solo adesso, durante una discussione, che la mia inquilina ha una invalidità che non ho capito bene quale sia. Posso immaginare visto che fa riferimento alle scale, ma nel contratto accetta lo stato attuale senza riserve. Durante la trattativa per l’affitto, non avevo nessun diritto (o obbligo da parte sua) di esserne informato?

Non ha molto senso parlare di cose giuridiche in modo così generico.

Innanzitutto bisognerebbe capire di che invalidità si tratta, sotto il profilo tipologico e della sua gravità.

In secondo luogo, quali rivendicazioni sono collegate dalla tua inquilina a questa invalidità.

In ogni caso, sotto il profilo dell’obbligo di informativa in sede di trattative, in generale si può dire che la omissione di quest’informazione potrebbe al massimo rilevare come violazione del dovere di buona fede durante le trattative precontrattuali o nella conclusione del contratto.

Ma è un aspetto tutto da valutare, può darsi che questa condotta sia ritenuta lecita in base a eventuali diritti alla riservatezza dell’altra persona o, ancora più segnatamente, di diritti di tutela delle persone portatori di handicap.

Per dire di più bisognerebbe conoscere meglio le circostanze del caso.

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Se la banca non mi avverte della situazione del conto di mia madre deceduta devo pagarne i debiti?

Mia madre, morta due anni fa, aveva acceso un conto corrente bsncario presso cui veniva accreditata la pensione; e su questo cnto corrente mi aveva delegato ad effettuare operazioni. Alla sua morte nessuno ci aveva detto che avremmo dovuto dichiarare la sua morte e chiudere il conto corrente, per cui da 500 euro circa di debito che aveva, siamo arrivati a circa 4000 euro. Questo è stato comunicato dalla direttrice della banca per interposta persona a mio fratello che poi ovviamente lo ha riferito a me. La nostra domanda è la seguente: dobbio pagare noi questo importo alla banca? Tenga presente (non so se questa informazione pissa servire ma la informo ugualmente) che mia madre era usuafruttuaria di una casa e alla sua morte io e mio fratello siamo divenuti proprietari ognuno del 50% dell’immobile.

Potrebbe esserci un problema di buona fede durante l’esecuzione del contratto, cioè si potrebbe sostenere, sotto certi profili, che la banca, in virtù del passaggio successorio, avrebbe avuto l’onere, se avesse voluto comportarsi in buona fede, di avvertire gli eredi della situazione debitoria della de cuius, in modo da mettere gli eredi in condizione di prendere provvedimenti.

Però è anche vero che solitamente sono gli eredi stessi che si premurano di controllare lo stato delle consistenze bancarie, specialmente quando i successori sono i figli stessi della de cuius, con un pieno rapporto di familiarità.

In definitiva, non credo che ci possa essere una posizione utilmente coltivabile da questo punto di vista.

Ovviamente, essendo eredi dovete pagare i debiti di vostra madre.

posso far causa al Comune se per ben tre volte inutilmente cerca di farmi perdere la casa popolare?

Il comune di xxx per la terza volta emette nei miei confronti un avvio di procedimento di decadenza dall’assegnazione di un alloggio comunale, perchè secondo loro io non vivo in quella casa. L’ultima volta ho portato il Comune dinanzi al TAR che ha accolto il mio ricorso. Io mi sento perseguitato. Se,nell’eventualità anche questa volta si dovesse ricorrere al TAR,in caso positivo, potrei querelare o quanto meno diffidare il Comune?

Parlare delle cose giuridiche in generale non ha mai molto senso, il diritto vive moltissimo del fatto su cui deve essere applicato, interagisce con esso e ne rimane quasi sempre plasmato in un senso o nell’altro. Per dire che nel tuo caso la prima cosa da fare è vedere se il comune, nonostante tutto, avesse buoni motivi per ritenere che tu non abitassi più nell’immobile, ciò che ne determinerebbe la buona fede, che, come tale, impedirebbe di poter fondare qualsiasi procedimento nei confronti del comune stesso.

Non vedo poi la rilevanza penale della vicenda, al massimo si può valutare una figura di abuso del diritto, che avresti dovuto peraltro far valere al TAR nel procedimento in cui hai ottenuto l’annullamento. Se il titolo di concessione, poi, fosse contrattuale (ma non credo, visto che ti sei rivolto al TAR), si potrebbe parlare di buona fede nell’esecuzione del contratto – un concetto che forse si potrebbe invocare anche in ambito amministrativo, ovviamente quest’ultima considerazione è tutta da valutare.

In conclusione, può darsi che si possa fare qualcosa nei sensi che hai in mente, ma bisognerebbe, in una cosa come questa, studiare molto meglio il caso in tutti i suoi dettagli.