La mia intervista a «Il Bello di dirsele» del 5 maggio 2021 – giornata internazionale contro la pedofilia – sul tema della difesa dei più piccoli da questi gravi reati, che oggi sono resi più facili dalla diffusione dei social network.
Il desiderio più profondo del mio cuore in questo periodo sarebbe pagare un pompino o due a quelli che vanno sui social a giustificare le gravi, liberticide e inammissibili censure delle grandi società del digitale scrivendo amenità come «il regolamento di facebook é chiarissimo» oppure «sono aziende private é giusto che facciano quel che credono», perché solo in quel modo forse potrebbe nascere un po’ di vita dentro di loro, altrimenti non saprei davvero come altro fare per aprire loro gli occhi.
Quanto a me, io ho da oltre vent’anni il mio blog self hosted su cui esce puntuale un articolo al giorno, che ogni volta fa incazzare qualcuno e questo è ciò che importa davvero: bisogna testimoniare sempre, far vedere che punti di vista alternativi a questo gigantesco merdaio che é diventato l’Occidente esistono, poi ognuno faccia come vuole, ma le voci alternative devono sempre suonare per quei pochi che le vorranno e sapranno ascoltare.
Peggio di queste grandi società che censurano e vorrebbero insegnarti come dovresti pensare e vivere, quando sono invece gestite da grandissimi ipocriti che violano in continuazione leggi fondamentali rubando i nostri dati e fanno politica con metodi sporchissimi e ignobili ci sono, come sempre, i loro delatori.
Costoro sono dei veri e propri infami che sono talmente immaturi e coglioni da non accettare che altri la possano pensare in modo diverso da loro e quindi, anziché ignorare le opinioni che non condividono, si sentono furbi, evoluti e meritori a cliccare il pulsantino per «segnalare» alla mamma social tutto quello che loro non vogliono vedere.
Sono come quei bambini che, quando stanno perdendo la partita perché sono più scarsi, portano via il pallone perché è loro…
Non ci sono parole per descrivere il disprezzo per queste persone e lo schifo che fanno.
I dirigenti di facebook, twitter e c. fanno le porcherie che fanno solo per i loro interessi, perché ci guadagnano, questi infami invece lo fanno solo perché sono dei coglioni, degli utili idioti. Tirano acqua al mulino delle big company digitali senza nemmeno uno dei trenta denari.
Segnalatemi pure, ma la mia voce non si spegnerà mai.
Auguratemi le peggiori cose, se mi venisse la sla o fossi ridotto a parlare come Hawking vi garantisco che mi farei dotare dall’ASL di competenza di appositi ausili per poter digitare quello che penso… Anche se a forza di bip bip dovessi metterci un giorno intero, solo per darvi dei coglioni.
La riterrei una cosa poco intelligente e poco rispettosa di tutti quegli amici che possono seguirmi solo colà, cui non posso chiedere il disturbo di installare altre applicazioni o raggiungermi altrove.
Inoltre, proprio adesso che molte persone di orientamento simile al mio stanno abbandonando la piattaforma, ritengo ancor più importante restare qui a proporre un punto di vista diverso con cui guardare il mondo.
Non si testimonia la bellezza o comunque non si testimoniano le proprie idee chiedendo a chi ti deve ascoltare di raggiungerti dove vuoi tu, ma si deve andare, o restare, dove le persone sono già.
Non ho mai avuto difficoltà a sopportare e ignorare le critiche di qualche idiota e non le avrò adesso, nemmeno se dovessero aumentare di numero.
Piuttosto, c’è un altro aspetto molto più importante di questo.
Per via delle cose estremamente esplicite che scrivo, molto poco in linea con il mainstream, sappi che il mio account, come già successo più volte in passato, può essere cancellato da facebook.
Per questo ti chiedo di iscriverti al mio blog, perché è l’unico modo di avere la sicurezza di restare in contatto o collegamento con me.
Se mi dovessero rimuovere l’account, ne creerò uno nuovo, dando le indicazioni sul blog per tutti quelli che vorranno riconnettersi.
«Siccome facebook e twitter sono indecenti, ho deciso che andrò a farmi censurare su [inserisci social a caso]»
Che cosa risolvi in realtà?
Finché non avrai uno strumento tuo, non avrai mai la vera libertà.
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Oggi lanciamo, in anteprima mondiale, un nuovo servizio di assistenza legale e counseling per la difesa, a tutto tondo, delle donne che ricevono peni in chat.
Un vero e proprio scudo anti pene.
La tentazione del maschio di imporre il proprio fallo a quante più femmine possibile è sempre stata dilagante, ma oggigiorno, grazie alla diffusione delle reti sociali, è divenuta addirittura incontenibile.
Diventa infatti estremamente agevole per qualsiasi malintenzionato raggiungere la casella di messaggistica di una qualsiasi donna, per spedire la foto del proprio pene – senza nemmeno considerare che, come è stato giustamente sottolineato, non tutti i peni sono fotogenici.
Ma come funziona più in dettaglio?
Come avvocati particolarmente attenti alla condizione femminile, e alla dignità della donna in particolare, ci siamo posti la domanda su come sarebbe stato meglio procedere per configurare un servizio di vera tutela per le frequentatrici dei social.
Ci è apparso subito evidente come per problematiche di questo genere fosse necessario un approccio di tipo interdisciplinare.
Abbiamo così costituito una piccola squadra di professionisti di pronto intervento, in grado di scattare immediatamente nel momento in cui una donna riceve una foto di pene in chat.
Ad esempio, c’è naturalmente un avvocato in grado di inviare la richiesta danni all’autore della prodezza e di presentare le denunce presso le autorità, c’è un investigatore nel caso in cui sia necessario risalire all’identità dell’aggressore, c’è un counselor per poter fornire immediatamente un adeguato supporto spirituale alla donna rimasta vittima di gesti del genere.
La donna che avrà sottoscritto il nostro servizio verrà munita di un apposito badge da esporre in tutti i propri profili sociali, e in tutte le proprie fotografie pubblicate sui social, recante la dicitura «no pene in chat» in modo da rendere esplicito il diniego all’invio della foto di un pene in chat e da far conoscere ed eventuali malintenzionati che la sua casella postale è protetta dal nostro servizio multidisciplinare.
Ma non è finita qui.
Noi infatti siamo anche proattivi. I nostri ingegneri sociali infatti hanno predisposto un apposito software per la catalogazione di tutti i peni che verranno ricevuti dalle nostre clienti, in modo da creare man mano e col tempo, grazie alla collaborazione sociale, un vero e proprio database di foto di peni, in grado di consentire più facilmente la individuazione dei responsabili degli illeciti, tramite apposite utilities di riconoscimento automatico e controllo incrociato dei peni.
Per quanto riguarda la tariffazione, abbiamo pensato ad una modica cifra annuale a forfait; in questo modo le nostre clienti, con una spesa contenuta, potranno godere della sicurezza di aprire la propria casella postale senza ricevere brutte sorprese.
Presto creeremo la pagina prodotto nello store del nostro sito.
Se sei interessata a sottoscrivere l’abbonamento al servizio no pene in chat, mandaci nel frattempo una richiesta tramite il modulo di contatto.
Ormai lo sanno (e qualche volta se ne approfittano) tutti, sono finiti anche i tempi in cui generalmente si guardava agli avvocati come a privilegiati – cosa che peraltro non è mai stata molto vera, come spiego in questo precedente post.
La crisi è innanzitutto economica, nel senso che ci sono difficoltà concrete e spesso anche determinanti e insuperabili per una chiusura positiva dei bilanci a fine anno, ma è anche, e dunque soprattutto, di valori, di significato, di senso, di dignità e così via, per una categoria in cui erano accorse persone di buona volontà che sono rimaste spesso deluse.
Non è – devo dirtelo subito – il mio caso.
Io sono ancora molto soddisfatto da tutti i punti di vista della mia professione, credo che traspaia anche da tutto quello che quotidianamente comunico tramite il blog e i social.
Ho persino scritto un post, che ha avuto un enorme successo (segno che il tema è molto seguito), in cui elenco i motivi per cui fare l’avvocato è ancora bellissimo, che ti invito a leggere con attenzione.
Ugualmente, c’è una larga fetta di avvocati in sofferenza ed è di loro ma soprattutto a loro che mi va di parlare, dopo aver ricevuto diverse richiesto in questo senso e aver letto diversi resoconti e persino qualche sfogo sui social.
Se senti di far parte di questa categoria, leggi attentamente perché questo post è per te.
Le cause della crisi.
Qual è il punto di partenza di qualsiasi discorso riguardo ad un argomento come questo?
Bisogna, a mio giudizio, innanzitutto comprendere le cause di questa situazione, economica ed emotiva, fallimentare.
Qui, ti voglio dire, quasi nessun avvocato riesce nemmeno a identificare con precisione le origini vere dei problemi attuali e questo, sinceramente, lascia un po’ da pensare, dal momento che un avvocato è comunque anche un imprenditore, che cose come queste dovrebbe capirle bene o quantomeno intuirle.
I falsi motivi
Solitamente, gli avvocati in difficoltà se la prendono con varie cose che, alla fine, non sono così rilevanti, sono più che altro dei capri espiatori per dare una spiegazione che non si riesce o vuole dare in un altro modo.
Il primo sono i clienti che non pagano.
Questo, di solito, è il primo «motivo» che viene individuato.
Qui voglio darti una notizia.
I clienti, di qualsiasi impresa, azienda, organizzazione, onlus, forma di governo o di Stato, non pagano tendenzialmente mai volentieri e, se possono farlo senza grandi rischi di conseguenze, evitano di farlo.
È una notizia incredibile, ma ti assicuro che è vera.
Riformulando la cosa in altri termini, è evidente che il problema del cash flow è uno dei vari problemi che ogni imprenditore, avvocati compresi, deve affrontare e gestire in modo efficace.
Personalmente, ho risolto questo problema impostando i pagamenti anticipati, sia per quanto riguarda la sezione del commercio che si svolge in forma elettronica tramite il sito, sia per quanto riguarda gli incarichi che vengono conferiti tradizionalmente in studio.
Ovviamente, faccio preventivi gratuiti, prima di iniziare qualsiasi lavoro.
Le persone, incredibilmente, quando sanno cosa vanno a spendere valutano e, se decidono di darmi l’incarico, pagano anche subito volentieri.
Io dò chiarezza, ricevo denaro.
Ma chiudiamo la parentesi, perché questo non è il motivo della crisi economica della categoria.
Altro motivo frequentemente molto gettonato sono le tasse da pagare.
Ora, a parte che molti professionisti fanno tanto lavoro fuori fattura, dal momento che non hanno magazzino, non vendono beni, ma servizi impalpabili, che le fatture non si scaricano e quindi i clienti preferiscono pagare «a nero» piuttosto che farsi dare una fattura che a loro non serve a nulla, a parte questo, dicevo, c’è da dire che le tasse sono uguali per tutte le aziende e i professionisti di qualsiasi tipo.
La grande notizia, qui, è che gli avvocati non pagano un centesimo in più di tasse rispetto a qualsiasi altra azienda o professionista.
L’unica cosa che c’è di vero è che abbiamo una cassa forense che vuole una parte dei nostri guadagni a scopi pensionistici. Ma ogni categoria ha la sua cassa e, se non ce l’ha, ha comunque l’INPS, per cui ogni attività economica, anche qui, paga una parte dei ricavi – sempre solo quelli fatturati ovviamente – per scopi previdenziali.
La realtà è che queste – ed altre – sono solo scuse, non c’è altro modo per dirlo.
È vero i clienti che tendono a non pagare sono un problema, lo Stato e la cassa che vogliono dei soldi, spesso anche se non li hai guadagnati, sono sicuramente un altro problema, ma la realtà è che ci sono molti avvocati che guadagnano e fanno buoni affari.
Nel 2018, in Italia.
«Ah, ma allora sono quelli che sono figli d’arte, hanno le mani in pasta con la politica, il tricche tracche, i cuggini, questo e quello…»
Altra scusa.
Non c’entra niente.
Quelli che conosco io, e io stesso nel mio piccolo, non abbiamo avuto appigli, aiuti, preferenze, incentivi vari, ma ci siamo guadagnati da soli non tanto la nostra clientela ma l’assetto attuale che abbiamo dato ai nostri studi e che ci consente di utilizzarli come macchine ed organizzazioni per guadagnare in modo abbastanza soddisfacente.
Sei pronto, adesso, per sapere quali sono le reali cause della condizione economica deteriore di una grande fetta degli avvocati oggigiorno?
Le scie chimiche!
No vabbè, parliamo seriamente.
I veri motivi.
Le reali cause dello stato fallimentare in cui versano molti studi legali e singoli professionisti sono principalmente due:
il peccato originale, a monte dell’inizio dell’attività, di non aver «pensato l’azienda»
e quello successivo, e permanente, di non fare marketing, anzi di non capire nemmeno che il marketing, nelle limitate forme in cui è consentito agli avvocati, è assolutamente necessario.
Con il secondo punto, si comprende come una delle cause più gravi di sottosviluppo economico è il codice deontologico forense, che, da questo punto di vista, letteralmente è il martello con cui sono stati inchiodati i chiodi che hanno chiuso la bara della professione forense.
Ma di questo diremo meglio più avanti.
Vediamo adesso, in positivo, le due principali cause che abbiamo appena enunciato.
Non aver pensato l’azienda.
Se chiedi ad un avvocato perché ha scelto di studiare giurisprudenza ed è finito a fare la professione, nel 90% dei casi ti risponde che era il desiderio dei suoi genitori…
Che dolce!
Poi, subito a ruota, questo avvocato di solito si incazza perché questo tenero ed onesto desiderio dei suoi ascendenti, che tanti sacrifici hanno fatto (magari timbrare dal lunedì al venerdì all’INPS), è oggi frustato dai kattivih clienti che non pagano, dallo Stato che – cavolo santo – vuole troppe tasse, dalla cassa che è troppo esosa!!!1! e così via, come abbiamo visto poco fa.
Il problema invece è proprio che non si fonda un’azienda perché è il desiderio dei tuoi – onore a loro – genitori!
È una cosa molto banale, ma realmente molti avvocati lo sono diventati per questo ed è alla fine completamente demenziale dal punto di vista del business e del fare impresa.
Fondi un’azienda quando hai un’idea di business inizialmente interessante, di cui verifichi con cura la fattibilità sotto tutti i profili rilevanti a riguardo.
Se poi è la tua principale o unica azienda, quella con cui devi mantenerti e mantenere la famiglia, i controlli li farai tutti tre volte.
Molti avvocati non si sono chiesti ad esempio:
in che posto vivo o comunque intendo aprire il mio studio legale?
in questo posto che ho scelto ci sono buone occasioni di clientela?
in che stato versa nel mio paese e nel posto da me prescelto la vendita di servizi legali?
quali sono i collettori di clientela di cui posso pensare di arrivare a disporre?
quali sono le forme di lead generation che potrò svolgere una volta aperta la mia bottega?
Molti avvocati non sono neanche in grado di comprendere bene cosa significhino queste domande.
Se consideriamo questo, capiamo che non è per nulla stupefacente che molti avvocati si trovino, economicamente, nella merda, perché un cazzo di ciabattino sotto casa con la terza elementare ha più istinto imprenditoriale di loro.
La conclusione è che molti avvocati sono diventati avvocati e hanno aperto la partita IVA come professionisti completamente alla cazzo!
Non ho, mi dispiace, un altro modo per dirtelo.
E, pensa un po’, non si aprono imprese alla cazzo.
Si possono fare tante cose alla cazzo, ma se apri un’impresa alla cazzo, sei destinato a chiudere entro al massimo tre anni.
Salvo – e qui tornano i cari genitori – che qualcuno non ti paghi la cassa forense, le tasse, i fornitori e tutte quelle spese che tu non riesci a pagare perché non guadagni «ancora» abbastanza.
Ciò, ovviamente, solo al momento e per poterti consentire di «ingranare».
Peccato che sono 15 anni che stai ingranando…
Non fare marketing.
Nessuna organizzazione, nessuna, compresa la Chiesa cattolica, può sopravvivere se non svolge attività di lead generation.
Te lo ripeto perché è bene che, oggi, in questo momento, questo concetto ti entri nella zucca una volta e per sempre: nessuna organizzazione, impresa, società, impresa individuale, onlus del cazzo può sopravvivere se non svolge attività di lead generation.
La lead generation è l’attività di generazione di prospetti, cioè di contatti con potenziali clienti, con soggetti, appartenenti al vasto pubblico cui si rivolge la tua organizzazione, che in parte, in seguito, possono diventare clienti paganti, a seguito di conversione.
Ora, quali attività di marketing stai facendo?
Hai lasciato anche tu i tuoi biglietti da visita dal tuo barbiere o dalla tua parrucchiera?
Ti dò una piccola notizia: non serve a un cazzo. Anzi, serve al contrario a qualificarti come un professionista per ladri di galline.
Hai sentito parlare di internet, blog, social network?
Ah sì, ti sei iscritto anche tu a quel sito che gli avvocati si possono iscrivere e poi scrivono le materie di cui si occupano così poi i visitatori si possono collegare e vedere quali sono i professionisti della loro zona e poi scegliere e tramite un comodo modello di contatto on line subito scrivere all’avvocato che hanno scelto e comodamente da casa, sia i clienti che il professionista, possono chiedere e ricevere una bella consulenza, che poi è un sistema bellissimo e meraviglioso ma alla fine nessuno fa mai un cazzo o ha mai venduto una consulenza che sia uno tramite siti del genere?
Forse è il caso di riconsiderare la materia…
Il codice deontologico.
Torniamo adesso un attimo sul tema prima accennato delle regole di deontologia.
La deontologia forense, ovviamente, non è un male in sé.
È assolutamente evidente che un avvocato debba essere in primo luogo onesto, se vuole essere davvero utile agli altri.
È davvero la primissima qualità di ogni avvocato.
Solamente, si tratta di una «qualità dell’essere» che, come spesso accade, non può essere rinforzata a forza di codici e sentenze… Un po’ come fare il padre, come sanno benissimo gli avvocati, come me, che si occupano di diritto di famiglia.
Il codice deontologico attuale è il martello con cui sono stati picchiati i chiodi che hanno chiuso la bara in cui è stata rinchiusa la professione forense, rendendo molto difficile, e in alcuni casi impossibile, per qualsiasi organizzazione legale svolgere attività di generazione contatti.
La cosa meravigliosa è che lo scopo di queste disposizioni, volte a escludere pressoché completamente forme di marketing per gli avvocati, sarebbe quello di… garantire la dignità degli avvocati stessi.
Ma qui c’è un grande e tragico errore di fondo.
Il fatto, peraltro assai evidente, è che la dignità di una qualsiasi categoria la si può garantire solo dando efficacia al lavoro e al ruolo che svolge e quindi consentendole di raggiungere un certo livello di benessere anche economico.
Che dignità può avere un avvocato che a 35 anni si fa pagare la bolletta del telefono di studio e magari anche di casa dai genitori, anche al netto del rispetto delle regole deontologiche?
Vuoi scommettere che se togli quasi completamente la possibilità di lead generation ad una categoria la sua economia peggiorerà grandemente e, con essa, anche la sua dignità, il suo significato, la coscienza del suo ruolo, l’effettivo svolgimento della sua funzione sociale?
La dignità attuale della professione.
È un fenomeno che è ormai sotto gli occhi di quasi tutti.
Ma prendiamo uno scampolo di letteratura che, come sempre accade, ce lo descrive meglio di altro.
«Il fatto è che qui da noi gli avvocati sono diventati come gli assicuratori, o gli agenti immobiliari. Ce ne sono a bizzeffe, uno più affamato dell’altro. Basta fare due passi in una strada anche periferica e contare le targhette affisse ai portoni.
Un avvocato, oggi, per una nomina anche d’ufficio è disposto a piroette e carpiati della dignità fantasiosissimi. E la molla non è l’ambizione economica o il desiderio di prestigio sociale: nemmeno più questo. Qui si tratta, ma davvero, di stare sul mercato con un minimo di sensatezza (cioè, pagare le spese e portare qualche soldo a casa) o chiudere baracca.
E la vera tragedia è che questa politica della sopravvivenza accomuna ormai trasversalmente sfigati e garantiti, privilegiati e poveri cristi. Nel senso che il rampollo dell’avvocato di successo ha una fame di procacciamento pratiche mediamente pari o addirittura superiore a quella di chi è professionalmente figlio di n. n. È la nuova cultura della concorrenza, palazzinara e bulimica, che ha equiparato avidità e bisogno, ponendo sul piano di una falsa parità contendenti che partono da posizioni completamente diverse. Ricchi e poveri che lottano per le stesse cose: ecco a voi la morte del principio di uguaglianza.
Io ho visto cose che voi non avvocati non potete neanche immaginare. Ho visto professionisti anziani leccare sfacciatamente il culo a magistrati ventinovenni. Ho visto avvocati giovanissimi portare personalmente il caffè a tutti i carrozzieri del quartiere nella speranza di una pratica d’infortunistica stradale. Ho visto appostamenti all’ingresso degli obitori, con volantinaggio di biglietto da visita all’arrivo della barella.
Ho visto contabili di camorra e specialisti della punizione corporale per ritardato pagamento del pizzo, trattati con un ossequio e un’attenzione degni di un’alta carica dello Stato. Ho visto colleghi fare anticamera a cancellieri miserabili in cambio di una nomina d’ufficio, con pagamento anticipato di percentuale fissa sull’onorario.
Ho visto guardie carcerarie spendere il nome di questo o quel collega con i parenti dei detenuti in cambio di un abbonamento alle partite di calcio.
Ho visto colleghi poco più che trentenni accordarsi con cancellieri notoriamente farabutti per truccare un’asta fallimentare, pilotando l’assegnazione dei beni all’incanto. Ho visto le loro foto sul giornale qualche tempo dopo. Ho visto sinistri stradali così sputtanatamente falsi da farti venire voglia di prendere le parti dell’assicurazione (che è un po’ come se uno, una bella mattina, si convertisse all’antisemitismo militante).
Ho visto patrocinanti in Cassazione brigare per diventare amministratori di condominio. Ho visto professori universitari telefonare a indagati eccellenti offrendo il proprio patrocinio pur sapendo che era già stato nominato qualcun altro, millantando conoscenze personali con il pubblico ministero titolare dell’inchiesta e svalutando fra le righe le capacità professionali del collega.
Ho visto l’avvocato a cui il professore universitario stava cercando di fare le scarpe riferire lo scandaloso retroscena a un gruppo di giovani colleghi e neanche venti minuti dopo incontrare il professore all’ingresso del tribunale e abbracciarlo come un fratello ritrovato in un programma di Maria De Filippi.
Ho visto lo stesso avvocato convincere l’indagato eccellente che sì, effettivamente sarebbe stata una mossa saggia estendere il patrocinio anche al professore, perché un simile collegio difensivo gli avrebbe assicurato la vittoria della causa con fiato di trombe. Ho visto, all’udienza, l’indagato eccellente seduto fra l’avvocato e il professore: sembrava più preoccupato di loro che dei giudici. Ho sentito il professore, in piena arringa, prendere una cappella giuridica di una tale grossolanità che se fosse capitato a uno studente all’esame sarebbe stato messo alla porta. Ho visto l’avvocato abbozzare e vergognarsi come un complice, dribblando lo sguardo allibito dei giudici.
Ho visto il figlio dell’avvocato diventare assistente di cattedra del professore universitario che aveva cercato di fregare l’incarico a suo padre.
Ho visto tante altre cose, ma se non mi fermo va a finire che facciamo notte».
(Diego De Silva, «Non avevo capito niente»).
Questi sono i successi di decenni di deontologia forense, di regole che hanno avuto come unico effetto quello di tarpare le ali alla pressoché totalità degli avvocati, specialmente i più giovani.
Ho visto applicare la deontologia.
Avvocati di 60, 70 anni, dentro agli ordini, ai consigli distrettuali, al CNF, gente che ha avuto grandi soddisfazioni professionali, avendo iniziato la professione negli anni 60 o 70, quando c’erano ancora vaste miniere non sfruttate, che applicano sanzioni ad avvocati di 30 o 40 anni, che cercano di lavorare sulle poche briciole rimaste, perché hanno messo un annuncio o un’insegna un po’ più grande di quanto ritenuto dovuto fuori dalla porta…
Facciamo come il protagonista del libro di De Silva: lasciamo perdere.
Che cosa fare?
Innanzitutto, quello che non devi fare è sprofondare nell’atteggiamento di dare la colpa di «tutto» a cose che, pur avendo una loro efficacia causale, non la esauriscono affatto.
Il tuo atteggiamento, come ti ho già fatto capire, non deve e non può essere quello di maledire il codice deontologico, le sue ingiustizie, i clienti, le tasse, le scie kimike e il mondialismo.
Focalizzati sul fatto che, come in tutti i settori economici, ci sono avvocati che ce l’hanno fatta e stanno alla grande.
La grande notizia è: ci sono diverse cose che puoi fare, una volta che avrai smesso di lamentarti a cazzo.
Alla fine, infatti, o cambi settore, cambi lavoro, anche in base alle tue vere propensioni (come ti ho già detto, il lavoro lo devi scegliere tu e non i tuoi genitori!), oppure, se scegli di restare, in qualche modo, nel settore dei servizi legali, di continuare a fare l’avvocato, devi rassegnarti a fare tutta l’attività di lead generation che puoi, ripensare completamente la tua azienda, ragionare come un vero imprenditore.
Di cosa fare nello specifico, parleremo meglio in un altro post, ché questo ormai è anche già troppo lungo.
Ti elargisco però una piccola anticipazione: devi scrivere.
Libri, blog, social.
Scrivi su quello che conosci, mostra e dimostra il tuo know how e la passione che ti muove per le cose che ti interessano.
Oltre a un punto di vista diverso e differenziante dal solito.
Un po’ come questo blog, che è stato fondato più di vent’anni fa per dimostrare che esiste un modo diverso di trattare i problemi legali.
Questo è quello che facciamo qui alla redazione del blog degli avvocati dal volto umano e ti garantisco che funziona.
Cosa puoi fare, nell’attesa del prossimo post in cui dettaglierò i vari modi in cui un avvocato può fare marketing?
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Come sapete, sono molto attivo sui social, dove mi diverto a pubblicare battute, articoli, cose serie, riflessioni, spunti, aforismi, di tutto un po’.
Ogni tanto, qualcosa che scrivo piace e i miei contatti, per lo più su facebook, mi fanno la ormai classica domanda «posso condividere?».
La domanda è fatta in piena buona fede, ma è un po’ strana, perché a mio giudizio, in generale, la condivisione è l’essenza stessa dello stare sui social network e, forse, più in generale in questo mondo – tutti ricordiamo «Happiness is real only when shared» di Christopher McCandless.
Vediamo in generale se si può legittimamente condividere quello che viene pubblicato da altri su un social, con qualche considerazione per quanto riguarda il mio caso.
Rispettare l’autore.
Stare su un social, mi pare, serve quando si trovano dei contenuti interessanti o comunque gradevoli. Quando ci si imbatte in contenuti del genere, io credo che sia un dovere metterli a disposizione dei propri contatti, in modo che anche loro possano fruirne. Se ognuno di noi condivide i contenuti interessanti, allora le nostre bacheche diventano sempre più ricche e appunto interessanti. Ma anche viceversa…
Peraltro, ogni utente dei social sceglie, al momento in cui si iscrive o ci si iscrive, se i suoi contenuti devono essere riservati, e in quale grado, o meno. Ad esempio, su facebook si può scegliere il grado di «privacy» in modo abbastanza granulare. Su twitter, invece, tutto quello che viene pubblicato è necessariamente visibile a tutti, anche perché twitter in realtà non è un social, ma una piattaforma di microblogging con molte caratteristiche social. Ma anche in quel caso spetta all’utente sapere che iscrivendosi a twitter e pubblicandoci in cima tutto sarà ulteriormente condivisibile.
Quindi, dal punto di vista legale, la condivisione di un contenuto pubblicato in modo pubblico e quindi aperto a tutti su facebook (tutti i miei post ad esempio sono pubblici, anche perché la privacy su facebook è un’illusione) o su twitter o linkedin o altro è legittima.
È importante notare che perché questa legittimità si mantenga il contenuto deve essere condiviso e/o riprodotto in modo integrale e, soprattutto, indicando in modo completo l’autore e proprietario dello stesso.
Uso non a caso il termine proprietario: se un contenuto viene pubblicato su facebook o su twitter, non diventa affatto «di tutti», come credono alcuni. Anzi, proprio la pubblicazione su queste piattaforme può, tutto al contrario, servire come prova che quel contenuto è di proprietà di chi per primo lo ha pubblicato con quella forma e quel contenuto.
Il contenuto, dunque, è riproducibile, ma ha un proprietario, i cui diritti devono essere rispettati. Come si rispettano i diritti del proprietario? Innanzitutto, riconoscendo il suo diritto morale di autore e cioè indicandolo come autore.
Non va assolutamente bene copiare un tweet scritto da altri, senza indicarne l’autore, quasi, spesso, a suggerire che siano parole proprie.
Non va bene nemmeno limitarsi a mettere le virgolette o a scrivere «cit.» o «dal web», che sono amenità idiote che non consensono nemmeno a chi legge di conoscere l’autore di un contenuto, che magari queste persone possono essere interessate a cercare e a seguire in modo periodico, iscrivendosi ai suo aggiornamenti.
Insomma, citare un contenuto senza indicarne l’autore è sia illegittimo, sia cattivo per il tuo karma, perché non aiuti gli altri, non aiuti l’autore, non aiuti chi vorrebbe entrare in contatto con lui.
Condividere in tutte le forme.
Se viene citato l’autore, per contro, tutte le forme di condivisione a mio giudizio sono lecite. Dall’utilizzo degli strumenti predisposti dalla piattaforma in cui il contenuto è pubblicato, come il condividi su facebook o il retweet su twitter, alla realizzazione di uno screenshot grafico, al copia e incolla del testo – sempre appunto che rimanga indicato il nome dell’autore.
Personalmente, se un mio contatto condivide una cosa che scrivo, nella sua forma integrale, mi rende pieno di gioia. Viceversa se copia un mio contenuto senza citare il mio nome. Mi dà molto fastidio, analogamente, quando ciò avviene con altri autori.
Se credete, dunque, condividete pur sempre tutto quello che pubblico, unica cosa che chiedo é che sia citato il mio nome o che la condivisione avvenga nella sua forma originaria, è la cosa che mi fa più piacere di tutte.
Al netto di tutto questo, una volta rispettate le regole minime di legge e di buon senso, ogni volta che leggete qualcosa che trovate utile, anche solo divertente, un buono spunto per riflettere o che in qualche modo vibra dentro di voi, fatelo circolare.
Io lo faccio sempre, se notate, e credo che sia giusto fare circolare le parole che sono per noi utili quelle che ci hanno colpito e che vogliamo trasmettere a tutti i nostri amici perché magari anche loro possono trarre utilità o possono venirne colpiti.
Personalmente, quando una cosa è interessante non mi limito mai a mettere il mi piace ma la condivido sempre.
Credo che dovremmo fare tutti così, in questo modo i contenuti più interessanti avrebbero più diffusione fino a magari a diventare virali e così hai visto mai che si riescano a cambiare anche un po’ di cose, forse anche solo a livello di mentalità.
Le parole hanno una loro forza, una loro vibrazione, ma io credo che questo voi lo abbiate già capito se mi seguite sempre con così tanta attenzione e con così tanto affetto.
Facciamole andare in giro, facciamole circolare il più possibile.
Per tutti quelli che mi seguono sui social, ma anche per chi è interessato a gestire il proprio flusso di pubblicazione dei contenuti sui propri account, oggi vorrei parlarvi di Buffer, il sistema che utilizzo personalmente a questo scopo.
Anche per dar conto di alcune «stranezze» che sorprendono i miei amici e le persone che sono in contatto con me…
Buffer è l’applicazione, o meglio servizio, web che utilizzo per iniettare contenuti nei social network. Questo software tiene in coda le cose che scrivo man mano e le pubblica sui miei vari account social nei giorni ed orari da me stesso programmati.
Per chi mi legge, ad esempio, su facebook, sembra che io abbia pubblicato in «diretta» ogni contenuto.
In realtà, il mio lavoro sui social funziona molto diversamente.
Quando mi viene in mente qualcosa da pubblicare, non lo metto direttamente su facebook, twitter e c., ma lo «accodo» su Buffer. Non sto affatto tutto il giorno a scrivere sui social, come chi mi legge potrebbe pensare, ma, in alcuni momenti della settimana, scrivo dieci o venti aggiornamenti che metto dentro a Buffer, perché vengano poi pubblicati in seguito.
In questo modo, creo appunto una «coda» di aggiornamenti di stato, foto, link – in una parola sola: contenuti – per la pubblicazione. Sarà Buffer a prendere la roba che c’è in coda e a pubblicarla, ad intervalli regolari, sui vari social.
Ad oggi, ad esempio, ho circa un centinaio di aggiornamenti già scritti tenuti in coda da Buffer e che Buffer pubblicherà secondo la programmazione prevista.
In altri termini, se oggi dovessi crepare e venire seppellito il mio account continuerebbe ad essere attivo e a postare contenuti nuovi ogni giorno per un altro mese circa dopo il mio funerale…
Questo spiega anche l’incredulità delle persone che sono con me e ricevono una notifica sul cellulare perché «ho pubblicato» qualcosa su facebook: come ho fatto a farlo se sto parlando con loro e non ho nemmeno il cellulare in mano? Non sono stato, io è stato Buffer, in automatico.
Se notate, i miei aggiornamenti escono quasi sempre agli stessi orari. Sono quegli orari che ho programmato dentro a Buffer.
Chi mi segue su più account social, facebook e twitter ad esempio, oppure il profilo facebook e la pagina, vede che molti contenuti sono pubblicati, identici, su più account in tempi diversi. Questo perché Buffer accoda lo stesso contenuto in più social account, ma le «code» di ognuno sono diverse, ad esempio in uno posso avere 100 contenuti in sospeso, in un altro 41, in un altro ancora 54 e così via; in questo modo, la pubblicazione avviene in modo sfalsato nel tempo.
Oltre all’opzione ordinaria di «messa in coda» (queue), Buffer offre altri due modi di gestione del contenuto: share now, per la pubblicazione immediata, e share next.
Share now serve per pubblicare immediatamente, senza passare per la coda, un contenuto su tutti gli account che si selezionano. Questo tipo di pubblicazione serve, ad esempio, quando si sta facendo una «diretta» di commenti su di un determinato evento sui social. A me è capitato di farne ad esempio in occasione di eventi nazionalpopolari come l’elezione del nuovo papa, le presentazioni Apple, Sanremo, il concerto di Vasco Rossi a Modena Park, le elezioni o altre cose che attirano l’attenzione in generale, stimolano la mia curiosità e la voglia di fare qualche battuta. In questi casi, è evidente che i contenuti non possono essere messi in coda, ma devono essere pubblicati in concomitanza con l’evento, finito l’evento non avranno più senso. Quindi qui uso la funzionalità di Share now.
Share next invece è diverso perché non pubblica immediatamente il contenuto, però, anzichè metterlo alla fine della coda, come Buffer fa di solito, o di default, seguendo un ordine cronologico per cui più un contenuto è stato programmato tempo addietro e prima verrà pubblicato, lo mette all’inizio, in modo che venga pubblicato alla prima occasione utile, al posto di quello che era già in coda. In sostanza, in questo modo, Buffer scalza un contenuto dalla coda spostandolo di un posto indietro e ci mette quello che stai inserendo in questo momento. Share next è la modalità di pubblicazione che utilizzo quando diffondo il post del giorno sui social. Il post del giorno, infatti, deve uscire il giorno stesso, non può seguire le regole delle coda, quindi i contenuti che contengono i link al post del giorno scalzano gli altri e vengono sempre messi davanti a tutti, ma rispettando comunque gli orari di programmazione soliti.
Queste sono solo alcune delle funzionalità di Buffer, un eccellente sistema per la gestione del flusso editoriale sui social, che vi invito a provare nella versione gratuita di base, per poi eventualmente fare l’upgrade, come ho fatto io, qualora vi dovesse poi piacere e doveste trovarlo utile.
La cosa più bella di Buffer, comunque, restano i miei amici di facebook che mi chiedono cose come «Cos’hai oggi?» per una cosa che ho scritto un mese prima… 🙂
Una novità molto importante per tutti coloro che rimangono vittima di profili e pagine gestite da persone che si nascondono dietro il loro anonimato.
Il Garante della Protezione dei dati personali – con il provvedimento dell’11 febbraio 2016, n. 56 – ha infatti per la prima volta ordinato a Facebook Ireland Ltd di comunicare, in forma intelligibile, tutti i dati relativi agli account intestati all’utente interessato. Tale provvedimento rappresenta una svolta sul tema del trattamento dei dati personali sui social network, da sempre fonte di controversie.
La vicenda trae origine da un ricorso presentato all’Autorità Garante da un noto professionista, titolare di un profilo facebook, che lamentava l’esistenza di un falso account intestato alla propria persona, per mezzo del quale venivano inviati fotomontaggi e video artefatti gravemente lesivi del proprio onore e decoro.
L’interessato precisava di aver domandato a Facebook Ireland Ltd la rimozione di quanto sopra, con contestuale richiesta di accesso ai dati riguardanti il medesimo. Tuttavia, in risposta alle proprie istanze, il ricorrente veniva informato da facebook unicamente della possibilità di accedere ai dati personali usando il Tool Download e consultando il centro assistenza per maggiori informazioni.
Il Garante della Privacy, in relazione al caso di specie, ha preliminarmente accertato il diritto applicabile, osservando quanto segue.
Il servizio di trattamento dati viene svolto in Irlanda da Facebook Ireland Ltd. Con lo scopo di rendere economicamente redditizio tale servizio, sul territorio italiano opera un’organizzazione stabile denominata Facebook Italy s.r.l., che si occupa principalmente di vendita di spazi pubblicitari on-line e di marketing.
Questa connessione inestricabile tra le attività delle due organizzazioni, consente l’applicazione del diritto italiano, anche con riferimento al trattamento dei dati personali.
Ai sensi della normativa nazionale, il ricorrente è legittimato ad accedere a tutti i dati che lo riguardano, compresi quelli inseriti e condivisi nel social network Facebook dal falso account, trattandosi di informazioni, fotografie e contenuti che si riferiscono alla sua persona.
Di conseguenza, alla luce di tutto quanto sopra esposto, il Garante ha ordinato al social network di comunicare, in modo chiaro, al ricorrente tutti i dati che lo riguardano relativi ai profili Facebook aperti a suo nome; gli estremi identificativi del titolare e del responsabile, nonché i soggetti o le categorie di soggetti cui i dati sono stati comunicati o che possono venirne a conoscenza, entro e non oltre trenta giorni.
Inoltre è stato intimato alla società di non effettuare alcun ulteriore trattamento dei dati riferiti all’interessato, inseriti dal falso account, con conservazione di quelli finora trattati ai fini della eventuale acquisizione da parte dell’autorità giudiziaria.
In conclusione, da oggi, nel caso si ravvisi la presenza di un falso account sul social network derivante dal furto della propria identità, è possibile ottenere tutti i dati ad esso correlati rivolgendosi direttamente a Facebook Ireland Ltd, ai sensi della normativa italiana sulla privacy.
Invece, nel caso in cui gli illeciti siano perpetrati mediante un falso account intestato ad una persona inesistente o sconosciuta, l’ingegneria sociale rappresenta ancora una valida opzione al fine di identificare il colpevole.