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Gioca: serve a riprenderti la vita.

Per dieci minuti cover
Trovarsi nel bel mezzo di una sofferenza -di qualsiasi tipo, tutte hanno la propria dignita?- 9 volte su 10 -se non sempre- equivale a convincersi di non poterne uscire e di morirci o, quantomeno, di stagnarci dentro, proprio sguazzandoci. Comodo, spesso, rectius, SEMPRE. Ebbene, e? pure questa una scelta, legittima e insindacabile.
Gia? aprirsi, magari per mitigare quella sofferenza, ad una terapia psicologica rappresenta una sfida. Qui, c’e? una sfida nella sfida: una proposta all’apparenza un po’ “infantile”..? Ecco, questa e? stata la mia iniziale impressione. Impressione, naturalmente, poi, mutata. Appartiene al mondo dell’infanzia -?prima facie?- e della adolescenza e della giovinezza la assoluta indispensabilita? dell’apprendimento? No, ecco la risposta che ci viene da questa storia davvero singolare: si continua ogni giorno, ogni istante ad imparare.

E’ che ce lo dimentichiamo troppo facilmente e troppo facilmente diamo anche noi stessi, e tutto il nostro “bagaglio”, per scontati.

Qui, quindi, Chiara Gamberale con quel suo modo delicato, fluente, ci mostra come si viene fuori -sfidandosi, giocando- da qualsiasi cosa non ci uccida. Attraverso un gioco che parallelamente insegna la perseveranza e la costanza e la disciplina. E che ti cambia la vita, te la fa scegliere. Anche quando volevi morire.

Si tratta di sperimentare novita? e sfidarsi, con spirito di ricerca e ponendosi costantemente in discussione. Roba da persone ?in gamba.? Ci si puo? riscoprire, proprio cosi?, persone davvero in gamba.
Qualche tempo fa, un caro amico mi ha parlato delle persone che si rivolgono alla psicoterapia, ed a sistemi come il ?counseling?, per guarire o semplicemente per “approfondire” se stessi, come di persone “che non ce la fanno”, che non hanno strumenti propri e ne cercano di esterni, in un certo senso “esseri inferiori” o comunque “carenti”.

Ecco: ?vediamo se riesci, tu, a fare ALMENO UNA cosa NUOVA al giorno OGNI giorno per TRENTA giorni per DIECI MINUTI al giorno?, gli ho detto.

Naturalmente, la sfida non e? stata colta, ne? accettata, non e? da tutti, e naturalmente era ed e? una mera provocazione.

Ma e? solo per chi decide di vivere e non solo di sopravvivere, per chi decide davvero di prendere in mano la propria esistenza, e di assumersi la responsabilita? di se? e del proprio ambiente, non lasciando che siano gli eventi a trascinare qui e li? i nostri stati vitali e non lasciandosi atterrire da tutti gli effetti nefasti dei veleni che spesso -anche se ne siamo inconsapevoli- ci dominano.

Grazie, carissima Chiara Gamberale, e grazie infinite per lo ?share di questo testo, per cui ringrazio dal profondo del cuore la mia carissima amica Maria.

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Bella, ricca e stronza si diventa.

Giulio Cesare Giacobbe è autoreferenziale. Si cita in continuazione, nelle note c’è il costante richiamo ad altri propri testi … di cui vi saprò dire.

Inutile negare che mi ha profondamente incuriosito e che  non mi esimerò dal leggere altri suoi libri.

Inoltre.Dissacrante. Immorale senza alcun dubbio. Sincero, però. E sfido chiunque a sostenere il contrario! Sarà forse che la verità vera è che è proprio l’immoralità a regnare e non ci vogliamo sul serio fare i conti, nessuno di noi?!

Non so, di certo posso affermare: non fermatevi alla prima impressione. Scorre, si legge scorrevolmente grazie alla sua struttura in frasi brevissime e lapidarie.

La parte più significativa, per quanto mi riguarda, è quella in cui l’autore spiega cos’è l’AUTOIMMAGINE. Una sorta di SPECCHIO che diventa PURA REALTÀ’ … come? Basta “agire come se”.

Lì è un po’ (almeno secondo ciò che è arrivato a questa lettrice) la chiave di tutto.Mi viene in mente “Droap Dead Diva”… avete presente la serie televisiva della splendida modella taglia 38 che si reincarna nell’avvocato taglia 54 (n.d.r. ogni riferimento a fatti e persone reali è puramente casuale ….) ? Ebbene, lì possiamo ammirare in carne e ossa in TV le movenze tipiche di un corpo felino esattamente riprodotte (e con gran successo sugli uomini!) con sicurezza chirurgica proprio dalla protagonista.

Di Istruzioni parla l’autore nel titolo…. ma sono in realtà per se stessi più che rivolte ad altri!Non posso che ringraziare chi mi ha aperto ancora un po’ di più la mente ed il cuore grazie a questo piccolo grande “manuale”, Sara S. da cui cito “faremo grandi cose con l’immoralità!”

E naturalmente chi mi ha consentito di scriverne questa breve opinione da condividere sul proprio blog, Tiziano… al quale non posso che ribadire: avresti proprio potuto scrivere tu questo libro, vi ho ritrovato idee che tu esponi e condividi in continuazione!

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diritto

Separazione e coabitazione: ok… solo se ok per i figli.

Neanche a dirlo, la Giurisprudenza consolida -sempre di più, di decisione in decisione- il proprio orientamento in materia.
Poco importa, per gli Ermellini, la circostanza di aver acquistato e curato un immobile, e intendere dividerlo con la propria ex coniuge, così come la volontà di vivere il più vicino possibile ai propri figli: se, infatti, viene dimostrata dalla moglie la persistente conflittualità con il marito, e se i minori restano collocati prevalentemente con dimora presso la madre, costui sarà costretto a “fare armi e bagagli” e cercarsi un’ulteriore sistemazione abitativa, lasciando l’originaria casa familiare a moglie e figli.
Infatti, mediante un’ordinanza (precisamente, n°26709) pubblicata solo pochi giorni fa, la VI sezione civile della Corte di Cassazione ha confermato gli esiti cui era, in precedenza, pervenuta la Corte d’Appello di Brescia, e, ancor prima, il Tribunale di Mantova di prime cure, laddove aveva stabilito more solito l’affidamento condiviso dei figli minori a entrambi i genitori, con assegnazione della casa familiare alla madre e, ivi, relativo collocamento dei minori, e corresponsione di un assegno di mantenimento pari ad € 700,00 con spese straordinarie al 50%.
Il padre, rispetto a una simile decisione, avendo addotto la concreta possibilità di vivere anch’egli preso la casa coniugale solo previa asserita realizzazione di (semplici e non troppo costose) opere edilizie di suddivisione dell’immobile stesso, proponeva la soluzione del co-housing.
Eppure, i Giudici hanno valutato, in maniera dirimente, che, per i minori, al centro di una situazione di estrema conflittualità tra i genitori, non avrebbero affatto giovato, posti alla mercè di una simile “soluzione”, benchè, almeno in apparenza, essa avrebbe potuto sembrare “ideale”.
Nell’ordinanza in commento, possiamo infatti leggere: “(…) correttamente il Tribunale ha rigettato la domanda del medesimo di assegnazione parziale della casa coniugale (previa realizzazione di opere edilizie di suddivisione dell’abitazione), in quanto la permanente conflittualità esistente tra i coniugi rende la coassegnazione contraria all’interesse dei figli (art. 337sexies c.c.) (…)”  In virtù della norma richiamata nella decisione, “il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell”interesse dei figli”, dal quale quindi non può in alcun modo prescindersi.
In particolare, il ricorso in Cassazione instaurato dal padre è stato dichiarato inammissibile perché, mediante detto ricorso, in sostanza, egli ha tentato (vanamente) di porre in discussione l’accertamento di fatto compiuto dal giudice del merito, senza evidenziare alcun fatto decisivo che la Corte d”appello avrebbe omesso di esaminare e, quindi, con una simile condotta ponendosi totalmente al di fuori dei limiti tracciati dalla norma procedurale in materia (art. 360 c.p.c.).
In ogni caso, l’INTERESSE DEI FIGLI PREVALE SU OGNI ALTRO: questo affermano i Giudici, i quali, anche, poi, in punto di condanna al versamento del contributo al mantenimento, rigettano le richieste del padre, considerando che ” (…) le domande di affidamento condiviso paritario e di revoca del mantenimento sono state prospettate -omissis- come dipendenti rispetto alla domanda di assegnazione parziale della casa coniugale, ragion per cui esse devono ritenersi implicitamente rigettate. (…) In altri termini, il venir meno dei presupposti della corresponsione dell’assegno di mantenimento è legata alla co-assegnazione della casa coniugale.”

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diritto

Cartelle Equitalia: è possibile annullarle con una semplice istanza.

Ebbene sì, in nessuna famiglia che si rispetti (ovvero I.M.H.O. tutte!), ristrette, allargate, etero, omo, fondate sul matrimonio, o semplicemente sulla triade coabitazione-amore-rispetto, può mancare LEI.

La cartella esattoriale di Equitalia.

Di certo, dunque, qui si affronta un argomento che è possibile definire, ad oggi, comune a tutti.

Questa universalità della cartella esattoriale, però, non comporta che ognuno degli atti notificati al cittadino/contribuente sia giusto, o, forse, è proprio questa pessima abitudine del concessionario per la riscossione di notificare atti a tappeto che, in molte occasioni, porta ad errori e mancanze, dovuti a incompetenza, a carenza di controlli ed a disattenzioni.

Anche i software sbagliano, e dietro al pc c’è comunque sempre un essere umano.

Potrebbe allora capitare che la cartella esattoriale che ti è stata notificata abbia dei profili di illegittimità: perchè ad esempio la pretesa posta alla base della richiesta ha subito il decorso del tempo e si è prescritta, oppure perchè essa stessa era ab origine viziata da nullità per motivi legati al merito, e così via.

Quindi, facciamo chiarezza e cerchiamo di capire -se anche il caso che Ti riugarda vede come protagonista una cartella illegittima- come procedere step by step.

Prima di ogni altra cosa, è necessario individuare qual è il cosiddetto ente impositore ovvero quella amministrazione pubblica che pretende il pagamento, in base ad una certa causale: si tratterà, ad esempio, dell’I.N.P.S. per quello che concerne i contributi previdenziali, dei vari Comuni (tecnicamente i Comandi della Polizia Municipale/Locale afferenti i medesimi) in caso di violazioni al Codice della Strada in territorio urbano ed in caso di mancato pagamento di imposte comunali come quella sugli immobili e per i rifiuti ed altri servizi comunali, delle Regioni per il cd.Bollo Auto, dell’Agenzia delle Entrate con riferimento a imposte e tasse di altra natura non pagate e così via.

Alla base dell’istanza -lo si diceva all’inizio- deve esserci un FONDATO motivo di illegittimità.

Individuato ENTE IMPOSITORE e NATURA del TRIBUTO, non vi resterà che porre FORMALE RICHIESTA, attraverso l’invio con uno strumento tracciabile -raccomandata o posta elettronica certificata- affinchè il procedimento del recupero instaurato dal concessionario per la riscossione venga fermato, per i motivi di illegittimità addotti.

Questo significa che si dà la possibilità all’amministrazione che richiede il pagamento di VALUTARE la/e motivazione/i di ingiustizia connesse alla richiesta di pagamento che è stata effettuata con la cartella.

Qualora questo spatium deliberandi non venga fruttuosamente utilizzato dall’Amministrazione, id est se quest’ultima non riscontra in alcun modo quanto portato in istanza, si ha diritto all’ANNULLAMENTO DEL DEBITO TRIBUTARIO, ciò per silezio/assenzo a seguito della mancata risposta dell’amministrazione all’istanza del contribuente.

Quanto affermato si basa su una normativa applicata già in svariate occasioni, anche per cartelle che richiedevano importi molte migliaia di euro, nelle aule di giustizia.

In particolare, l’art.1 della L. 228/12 al comma 537 statuisce che i “concessionari per la riscossione SONO TENUTI A SOSPENDERE IMMEDIATAMENTE  ogni ulteriore iniziativa finalizzata alla riscossione delle somme iscritte a ruolo o affidate, su presentazione di una dichiarazione da parte del debitore”.

Questo comporta che, una volta depositata una fondata richiesta di sospensione da parte del contribuente al concessionario, quest’ultimo DEVE avvisare l’ente competente, il quale a sua volta è RIVESTITO DELL’OBBLIGO di rispondere al contribuente (lo stabilisce il comma 539).

Al comma 540, ed è ciò che più qui importa, è previsto che “trascorso inutilmente il termine di duecentoventi giorni dalla data di presentazione della dichiarazione del debitore allo stesso concessionario della riscossione, le partite (…) SONO ANNULLATE DI DIRITTO”. In tal senso, già sent. C.T.P. Milano n.° 667/40/15 del 23/06/2015, sent. C.T.P. Lecce n.1955/05/15 del 4/06/2015.

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diritto

Sesso extraconiugale: niente addebito se la moglie faceva sciopero.

Nasce un figlio e gli equilibri della coppia -si sa- ne risentono, da vari punti di vista.

Magari, lei inizia a negarsi a letto e magari lui crede di potersi recare altrove per cercare -diciamo così- soddisfazione per le proprie pulsioni. Un clichè trito e ritrito. Una questione che dovrebbe restare tra le mura domestiche?! Be’, forse sì.

Eppure, una simile vicenda ha interessato i nostri Organi Giudicanti, fino alla Suprema Corte di Cassazione, tirata in ballo dalla iniziale richiesta di addebito avanzata dalla moglie, nell’ambito di una separazione giudiziale: lui mi ha tradito, ha così violato uno dei principali DOVERI coniugali, quello di FEDELTA’, e, Illustrissimo Giudice, desidererei che a mio marito venisse addebitata la nostra separazione.

Non farebbe una grinza, certo. Se non fosse che il marito si è difeso affermando che la motivazione principale, per la quale era stato costretto alla descritta violazione, era tutta nel fatto che la coniuge non rispondeva più positivamente alle richieste di fare sesso che egli continuava ad avanzare.

Ciò lo aveva condotto (inevitabilmente, secondo l’accolta tesi) all’intraprendere una relazione extraconiugale, ove egli potesse sentirsi riconosciuto come uomo, prima che come padre.

E alla fine la Sesta Sezione della Corte di Cassazione è giunta alla conclusione che (nel caso di specie, si badi bene!) la comunanza morale ed affettiva fosse già in precedenza cessata tra i coniugi, tanto che fosse non più possibile vivere insieme e condividere emozioni e progetti.

E’ stato quindi confermato un principio che può definirsi ormai consolidato, secondo il quale se una delle parti, in una separazione, richiede l’addebito della separazione all’altro coniuge, in ragione dell’inosservanza degli obblighi familiari, DEVE PROVARE SIA LA RELATIVA CONDOTTA (qui, la relazione extraconiugale) ED ANCOR DI PIU’ LE PROFONDE MOTIVAZIONI per cui questa condotta abbia addirittura reso INTOLLERABILE la prosecuzione della convivenza (tecnicamente, si parla di “nesso causale”). Qui, al contrario, aveva assolto l’onere probatorio il marito: costui, infatti era stato in grado di provare (pare attraverso la decisiva testimonianza della propria sorella, con risultanze non contestate dalla moglie) che la CRISI MATRIMONIALE era BEN ANTERIORE alla VIOLAZIONE del DOVERE DI FEDELTA’.

Che una decisione di questo tenore (di cui all’ordinanza n° 2539 del 5/02/2014, Corte di Cassazione VI Sez.) venga sponsorizzata per forzarla al punto di voler affermare che sia LEGITTIMO il TRADIMENTO, mi sa tanto di indebito arricchimento. Certo è che, in simili procedimenti, sono spesso quasi sempre, in gioco questioni talmente delicate e personali nelle quali è profondamente complesso l’ingresso e di cui è ancor più difficile la disincatata disamina. D’altronde, c’è da dire che sono state le parti medesime della causa a mettere in gioco la tematica, benchè genitori, anzi, rectius, dimenticandosi (i.m.h.o.) di essere prima genitori che marito e moglie. Per inciso, senza intendere addentrarsi in un campo prettamente di competenza degli psicoterapeuti, ritengo sia il caso, qui, di ricordare che, per il cosiddetto “calo” di desiderio di una donna, può esserci una miriade di motivazioni, più o meno profonde, che -molto spesso- nulla hanno a che vedere con la mancanza di amore o con una caduta del sentimento. Sono, anzi, la stanchezza fisica ma soprattutto quella mentale, indotta dalla monotonia e dalla noia, le ragioni principali della mancanza di stimoli sessuali nella coppia. Mai sentito parlare della psiche come sede delle principali zone calde del piacere e del desiderio?

…Che poi, di preciso, che avrebbe la moglie ottenuto (in termini pratici, di utilità concreta, se effettivamente fosse stato dichiarato l’addebito della separazione al marito? Non poco, benchè gli effetti dell’addebito si riverberino esclusivamente sul piano patrimoniale, in quanto determinano la perdita del diritto all’assegno di mantenimento e dei diritti successori in capo al coniuge al quale viene addebitata la separazione.

A questo punto, non mi viene altro da dire, se non: donne, mogli, compagne, conviventi more uxorio e chi più ne ha più ne metta (è periodo) BADATE AL VOSTRO UOMO (suocera permettendo, ma -questa- decisamente, è tutt’altra storia!).

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Adozione da parte di coppia omosessuale: è possibile?

Una vera e propria rivoluzione, almeno così, da più parti (facile immaginare quali) si è acclamato. La stepchild adoption per una coppia omosessuale!

Due donne, una grande passione, un amore pronto a trasformarsi in genitorialità, ad evolversi e trovare la propria forma più elevata e, senz’altro, più duratura, attraverso un figlio.

E’ solo di qualche giorno fa la diffusione della notizia relativa all’avvenuta trascrizione anche in Lombardia (realmente avvenuta nello scorso OTTOBRE), in seguito ad attento vaglio della Corte d’Appello di Milano (secondo grado rispetto al Tribunale dei Minorenni in questo caso) dell’ordinanza emessa, da un Organo, all’uopo preposto, in Spagna, che decretava l’adozione della bambina dalla sua “non madre biologica”: una ragazzina dodicenne, ora, anche dinanzi alla Legge Italiana, è figlia adottiva di due madri.

C’è un precedente estremamente significativo, che è quello della Corte d’Appello di Torino, e non possiamo omettere di ricordare anche quello recentissimo del Tribunale di Roma.

Di certo, questo da Milano è un provvedimento destinato (come i precedenti citati) a suscitare molte polemiche, ma andiamo con ordine.

Le due genitrici in questioni si erano sposate, anni fa, dopo convivenza more uxorio in Spagna, ed una di loro aveva, mediante fecondazione eterologa generato una bambina.

Purtroppo, esse sono poi addivenute alla determinazione di divorziare, raggiungendo anche, malgrado tutto, un accordo sulle condizioni di collocazione abitativa e sugli aspetti relativi al mantenimento di quella che, nel (rispetto al nostro, senz’altro maggiormente fervente e moderno) contesto iberico, era la LORO figlia.

É significativo qui riportare testualmente ciò che scrivono i Giudici (facciamone i nomi! Il Presidente del Collegio della Sezione Minori e Famiglia della Corte d’Appello di Milano, Dott.ssa Bianca La Monica, e l’Estensore Dott.ssa Maria Cristina Canziani): la ragazze “è stata adeguatamente amata, curata, mantenuta, educata ed istruita da entrambe le donne che hanno realizzato l’originario progetto di genitorialità condivisa, nell’ambito di una famiglia fondata sulla comunione materiale e spirituale di due persone di sesso femminile” é stata così dai Giudici che scrivono queste parole proprio ordinata la cosiddetta “Adozione Piena o Legittimante”, ovvero quel tipo di adozione per la quale il rapporto genitoriale è identico a qualsiasi altro genitore, proprio come se da quella persona si fosse “davvero nati”.

La Corte d’Appello d’altronde in parte motiva fa espresso riferimento alla normativa italiana ed europea, ed afferma -con decisione- che non è “contrario all’ordine pubblico un provvedimento straniero che abbia statuito un rapporto di adozione piena tra una persona non coniugata e il figlio riconosciuto del partner, anche dello stesso sesso“. Perché, in primo luogo, va valutato “l’interesse superiore del minore al mantenimento della vita familiare.

Va precisato con attenzione, come punto fondamentale, che l’atto di matrimonio tra le due signore in Spagna, così come la seguente sentenza di divorzio, non hanno trovato ingresso (pur richiesto) e non hanno quindi alcuna validità in Italia.

Tuttavia, ed è questo ciò che davvero conta, HA PIENAMENTE EFFICACIA ed esplica perciò OGNI EFFETTO al medesimo ricollegato l’ACCORDO raggiunto dalle due madri in ordine alla quotidianità ed alle decisioni straordinarie relative alla figlia: ovvero le condizioni che le due donne si sono date per essere reciprocamente e nei confronti della figlia, GENITORI, quelle sì, quelle sono pienamente VALIDE, ora, grazie alla descritta decisione, in Italia.

I Giudici della Corte d’Appello hanno osservato che la bambina “ha vissuto con entrambe sin dalla nascita, per quasi dieci anni (…) che da loro è stata allevata, curata e mantenuta e che con loro ha evidentemente costruito stabili e forti relazioni affettive ed educative“. Alla bimba, dunque, va riconosciuto, come scrive la Corte,il “diritto fondamentale di continuare a godere dell’apporto materiale e affettivo delle due persone che da molti anni si sono assunte la responsabilità genitoriale nel suo interesse“. E se la madre adottiva deve avere “tutti i doveri e i diritti che derivano dalla filiazione naturale”, la piccola, concludono i giudici, “può godere, con sicuro vantaggio, del sostegno materiale non solo della madre adottiva, ma anche dei parenti della stessa”.

IL MINORE -ed il suo interesse sovraordinato- PRIMA DI TUTTO, ecco che finalmente si spalancano le porte a questo principio, che sta, gradualmente, attraverso queste illuminate decisioni, venendo fuori sempre di più e sempre con maggior forza. I.M.H.O. è la COMPLESSITA’ della NOSTRA SOCIETA’ che prende il sopravvento. Semplicemente perchè non è detto, e non è scontato che una madre ed un padre necessariamente siano l’interesse migliore e preferibile per il figlio. Almeno, così non era nel caso della bambina lombarda.

Urge, da moltissime parti e da lungo tempo sollecitato, un intervento dirimente nella normativa italiana ed in quella europea, più in generale, al fine di rendere compatibili le eccessivamente dissonanti note e disarmonie legislative, in materia, tra le Leggi dei Paesi Europei. E’ davvero ora. Anche perchè è iniquo dover riflettere su un aspetto molto significativo: quello economico. Chi ha le risorse, l’elasticità mentale e fisica e, in generale, la possibilità per potersi recare in paesi che, pur se europei, sempre stranieri sono percepiti, e poi, anche giudizialmente (e si sa che non è gratis) far valere le ragioni proprie e dei propri figli? Non certo la maggioranza degli europei.

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Assegnazione casa familiare: terzo acquirente può chiederne revoca. 

L’assegnazione della casa in cui vive il nucleo familiare è il tipico provvedimento che viene richiesto e reso in primis nell’ambito di un procedimento per la separazione dei coniugi.

La regola aurea (la norma codicistica, prima ancora che intervenisse la recente riforma del diritto di famiglia) è quella del rispetto delle esigenze dei figli siano essi minori o maggiori di età, e “sfondo una porta aperta” affermando che così dovrebbe essere sia in ogni singolo aspetto di un siffatto frangente, sia nella crisi coniugale considerata nel proprio complesso.

Alla luce, perciò, dell’idonea considerazione della necessità di preservare il buon diritto di ogni figlio di restare nella propria consolidata situazione abitativa, in quello che è per loro il centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui si articola la vita familiare, anche per tutelarne il corretto equilibrio psicofisico, ciò che nella generalità dei casi si verifica è che la casa coniugale viene assegnata a quello dei due tra i coniugi, più spesso (ma sempre meno frequentemente) la madre, che viene definito “collocatario”, ovvero presso il medesimo vengono collocati i figli.

Personalmente, vorrei esprimere un minimo disappunto sull’uso di una tale terminologia, perchè mi pare -quasi- si parli dei figli come delle “entità materiali”, dei “pacchi”, come quell’ormai risalente modo di dire, delle appendici di una coppia, quando, invece, ed è ben noto a chi tra noi abbia l’immensa fortuna di essere ed essere diventato Genitore, i figli possono definirsene l’essenza stessa.

Perdonate la (pur breve) digressione, rientro nel seminato!

Ebbene, si diceva: casa coniugale al genitore con il quale quotidianamente vivono i figli. Ok.

E quando questi crescono e, come Natura vuole (o vorrebbe), vanno via di casa?

Mettiamo il caso, molto frequente (es. pensiamo al caso di un contratto di mutuo ipotecario stipulato proprio per l’acquisto dell’immobile… che dire, non ve n’è ormai uno in ogni famiglia?!) nel quale due bravi ex coniugi si accordino per la vendita della casa per poi dividersi con equità il ricavato (se il bene è in comunione e se vi è stata corresponsione delle rate di mutuo o comunque del pagamento da parte di entrambe le parti).

E se invece ci sono …problemi o questioni particolari? Ecco, è il caso di vederne una.

Recentemente, la Corte di Cassazione, nel solco del proprio ruolo di Supremo organo Giudicante, ha posto alcuni paletti proprio con riguardo alla presente questione.

Nel caso particolare che, alfine, è arrivato all’attenzione dei Giudici di Piazza Cavour, si ha un’iniziale pronuncia di Tribunale che stabilisce la cessazione degli effetti civili del matrimonio, e che andava a confermare l’assegnazione della casa coniugale, come già era stato disposto in sede di separazione, alla moglie, (si badi bene!) con trascrizione del provvedimento presso i Pubblici Registri Immobiliari.

Il marito aveva venduto poi il suddetto immobile ad un terzo, rendendolo edotto della sussistenza del diritto di godimento del bene in capo alla ex moglie, in quanto affidataria della figlia allora minorenne.

In sede di successiva revisione delle condizioni di divorzio, il Tribunale si occupava di revoca l’assegno di mantenimento disposto dalla predetta sentenza in favore della figlia, divenuta ormai maggiorenne ed autosufficiente economicamente, senza però pronunciarsi (ecco fatto il guaio!) sul provvedimento di assegnazione della casa coniugale.

A quel punto, il terzo acquirente prima richiedeva bonariamente il rilascio dell’immobile in questione, e poi era costretto per raggiungere il fine, ad instaurare un giudizio volto all’accertamento dell’insussistenza del diritto della ex moglie e della figlia a continuare ad occupare quella che era stata la casa coniugale, richiedendo oltre alla condanna delle medesime al rilascio del bene, anche la corresponsione di un’indennità per l’illegittima occupazione dello stesso.

L’importantissima precisazione svolta dalla Cassazione riguarda il principio giuridico per cui l’efficacia del provvedimento di assegnazione può essere messa in discussione solo dai coniugi (separati) o dagli ex coniugi (divorziati) attraverso il procedimento per la modifica delle condizioni di separazione o di divorzio.

Il terzo acquirente dell’immobile, invece, potrà solo instaurare un giudizio ordinario di cognizione, chiedendo l’accertamento dell’insussistenza delle condizioni per il mantenimento del diritto personale di godimento a favore del coniuge assegnatario, per essere venuta meno la presenza di figli minorenni, o maggiorenni non autosufficienti con il medesimo conviventi.

Un punto, ancora, molto importante sul quale vorrei venisse focalizzata l’attenzione è quello relativo alla TRASCRIZIONE DEL PROVVEDIMENTO: infatti il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario, avendo per definizione data certa, INTANTO ha il carattere dell’opponibilità, anche se non trascritto, al terzo acquirente in data successiva per nove anni dalla data dell’assegnazione, ovvero – ma solo ove il titolo sia stato in precedenza trascritto – anche oltre i nove anni.

Ergo, quando si è in presenza di figli minori o anche maggiorenni, ma non economicamente autosufficienti, colui che va ad acquistare, allorquando vi sia stato un provvedimento giudiziale, intercorso tra i coniugi, poi anche trascritto, come nel caso che ci occupa, sarà costretto a rispettare IL VINCOLO DI DESTINAZIONE, impresso al bene per FINALITA’ PRIORITARIE che riguardano i figli, e ciò finchè non intervenga un’ulteriore provvedimento inter partes a statuire cose diverse.

Entrano in gioco molte variabili, in una simile situazione, ma su un punto deve esserci chiarezza (e, parlando con le persone, spesso mi rendo conto che così non è): quando viene disposta l’assegnazione della casa coniugale, questo non viene fatto mai con finalità assistenziale, perchè in tal guisa è possibile che venga previsto, quello sì, l’assegno di mantenimento.

Si tratta senz’altro di una tematica vasta e piena di aspetti anche dubbi (perciò, così spesso sottoposti agli organi giudicanti), la tutela del diritto di proprietà, qui viene ad avere la meglio, in quanto venuti meno i presupposti del precedente diritto di godimento del bene immobile.

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Alienazione genitoriale o PAS: ma esiste davvero?

L’avvocato che mi sta seguendo la causa per la separazione giudiziale, che dura ormai da anni, purtroppo, mi ha proposto di agire nei confronti della mia ex moglie perché dice che potremmo chiedere un risarcimento, addirittura, per via del fatto che i miei bambini rifiutano di incontrarmi, molte volte. Davvero ciò sarebbe possibile? (Marco, Roma)

Caro Marco, il tema che mi dai l’occasione, attraverso la Tua domanda, di affrontare (peraltro senza pretesa alcuna di esaustività) è senz’altro delicato e, decisamente, molto denso di sfumature e, peraltro, personalmente, per me madre separata, carico anche di significato personale.

La verità e l’esperienza comune è che, spesso, i bambini si trovano “avvolti”, coinvolti ….direi, avvinghiati e, forse… la parola giusta è PRIGIONIERI tra i “paletti” della crisi della propria famiglia.

Tra una madre ed un padre che essi sperano di accontentare, di rendere felici, le cui tendenze cercano di assecondare e, a modo loro, di comprendere.

Quando si parla di “alienazione genitoriale” ci si vuole riferire proprio a quella teoria, in quest’ultimo anno –galeotte alcune decisioni della Suprema Corte sul tema, latamente inteso- molto trendy, per cui (per dirla semplicisticamente) uno dei due genitori (molto più spesso, la madre) in genere il genitore collocatario, quello con il quale vivono i bambini, per intenderci, INDOTTRINA i figli, FA LORO una sorta di LAVAGGIO DEL CERVELLO, al fine di fare odiare e RIFIUTARE l’altro genitore, ciò con pesanti conseguenze che influiscono sul corretto regime delle visite e, a lungo andare, com’è facilmente intuibile, sull’intera RELAZIONE FIGLIO-GENITORE e sull’ esistenza del bambino, anzi, del futuro adulto, poi quasi sempre  problematico.

Preliminarmente, va specificato che, almeno in Italia, non vi è FONDAMENTO SCIENTIFICO, ovvero una RICOSTRUZIONE NOSOGRAFICA di questa “malattia”: cioè non vi è un trattato, un manuale diagnostico ove essa (come sopra descritta) appare classificata e ove siano previsti per essa rimedi, cure, terapie.

Non sono un’esperta in psicologia, il mio è un altro settore, ma, volendo conoscere la questione più a fondo, ho notato qualcosa di abbastanza interessante, utile per comprendere meglio la questione: il “creatore” di questa teoria della cd. “P.A.S.” (Parental Alienation Syndrome = Sindrome da Alienazione Genitoriale) è riconosciuto nella persona di Robert Gardner e la nascita di questa idea è legata all’esigenza della difesa giudiziaria di padri che abusavano dei propri figli e che, di conseguenza, si rifiutavano di incontrare poi il genitore maltrattante, rifugiandosi nell’ambito del genitore che, d’altro canto, manifestava eccesso di protezione.

Da ciò, l’affermazione della volontà di ALIENAZIONE, allontanamento, estraniazione da parte del genitore iperprotettivo da quello “rifiutato”, appunto, alienato dal figlio.

Sicuramente, esiste e spesso si configura l’allontanamento dei figli rispetto al genitore non collocatario, cioè quel genitore col quale NON vivono, e mi viene da dire che, in un contesto di crisi familiare, un ruolo fondamentale è giocato proprio dal BUON SENSO delle parti in causa, nel cercare di comprendere che spesso per il bambino “la colpa è di chi NON c’è”… Non dimentichiamo mai che i bambini sono ESTREMISTI e CONSERVATORI quando si tratta della propria famiglia: sono più legati alla tradizione del “Mulino Bianco”! Insistere nell’intento di voler legare per forza un bambino al padre o alla madre non sempre è positivo. La regola della  “valutazione caso per caso” è assolutamente d’obbligo in questo settore.

D’altronde, I.M.H.O., la “lente” della P.A.S. non è poi così convincente, se si guarda alla sua origine, ai suoi sviluppi ed al fatto che ancora non ve n’è riconoscimento scientifico fondato, almeno nel nostro Paese; è di certo “comoda” è facilmente strumentalizzabile, sembrerebbe spiegare alcune anomalie nei rapporti di cogenitorialità che l’ormai normativamente imposto affido condiviso vuole funzionare, ma che spesso non funziona affatto.

Voler fondare sull’apparente sussistenza di una Sindrome simile persino una domanda volta al risarcimento del danno mi pare un pò una forzatura. Quantomeno, non credo sia la “strada giusta” se come obiettivo si ha quello del BENESSERE DEI PROPRI FIGLI.

Vero è che vi sono alcune pronunce, in tal senso, anche dalla Suprema Corte, questo per dire che A PRIORI nulla può essere escluso, ivi compresa la possibilità di risarcimento qualora venga effettivamente e compiutamente diagnosticato un caso di alienazione genitoriale.

In casi analoghi, però, si badi bene, è stata necessaria la dimostrazione PUNTUALE della CAMPAGNA DENIGRATORIA posta in essere da uno dei genitori contro l’altro, nei confronti del figlio; spesso, si rendono necessarie anche l’AUDIZIONE DEL MINORE, nonchè idonea Consulenza Tecnica d’Ufficio che vada a confermare simile diagnosi all’organo giudicante.

Il tema è di una tale vastità e delicatezza, da aver potuto qui, com’è ovvio, fornire solo alcuni spunti, passibili, in futuro, di opportuno approfondimento.

Personalmente, Marco, al posto tuo, spenderei le mie energie più per un’accurata psicoterapia e per la mediazione familiare, al fine di comprendere le reali cause della vostra situazione di disagio, tua e dei tuoi bambini, e cercare di porvi rimedio, con i giusti tempi e le migliori speranze per il futuro della vostra famiglia, auspicando la collaborazione della madre, che, per quanto, per ora, tua “controparte” è e resterà sempre la madre dei Tuoi figli.