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TFR conferito al fondo pensione e coniuge divorziato: ne ha diritto?

sono divorziata, ho un assegno di mantenimento mensile e sto cercando di farmi liquidare la percentuale del tfr del mio ex marito che però lo ha versato in buona parte in un fondo (previndai). Cosa prevede la legislatura in questo caso?

Nel caso in cui il tfr sia conferito ad un fondo di previdenza complementare la situazione è purtroppo abbastanza problematica.

In questo caso, in effetti, la liquidazione, al lavoratore stesso, non è riconosciuta al momento in cui finisce il rapporto di lavoro, ma alla maturazione dei requisiti per la pensione e quindi in un momento successivo. Inoltre, le somme versate non sono riconosciute come liquidazione, ma come pensione integrativa, che può essere data come rendita (ciò che avviene nella maggior parte dei casi) o come capitale.

La sentenza della Cassazione 8228/2013 sostiene che i versamenti alla previdenza complementare non hanno natura retributiva, al contrario del tfr, che è una vera e propria retribuzione pagata successivamente.

Da questo ragionamento, condiviso anche da alcuni giuristi, anche a prescindere dalle modalità di liquidazione delle somme (se come rendita o in un’unica soluzione come capitale), non essendo un tfr considerabile come “retribuzione”, discenderebbe che il coniuge non avrebbe diritto alla quota di liquidazione conferita al fondo pensione.

Se si segue questa interpretazione, dunque, nel momento in cui il lavoratore mette nel fondo previdenza complementare una parte del tfr, si determinerebbe la privazione del diritto del coniuge ad una quota dello stesso, potendosi il coniuge soddisfare solo sulla parte di tfr maturata precedentemente.

In pratica, il “dirottamento” del tfr alla previdenza complementare priverebbe il coniuge divorziato della corresponsione della sua quota, eccettuata la parte versata prima ovviamente.

In conclusione, la strada per ottenere il pagamento della tua quota di tfr, per la parte conferita in fondo pensione, al momento si presenta abbastanza in salita e l’unica opzione è quella di sostenere una interpretazione della legislazione vigente diversa da quella che sembra maggioritaria, cosa per la quale qualche spiraglio c’è, dal momento che non sembra così giusto che un lavoratore possa sottrarre all’ex coniuge la quota del tfr semplicemente cambiando regime dello stesso, quando c’è una disposizione della legge sul divorzio che ne prevede espressamente il diritto.

Ti consiglio di approfondire con l’aiuto di un bravo avvocato. Acquistando una consulenza da un professionista, inizierai un percorso che potrà essere anche di monitoraggio di legislazione e giurisprudenza vigenti, in modo da cogliere quelle novità che potrebbero essere a tuo favore.

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Lavoratori con partita IVA: come tutelarsi?

sono un lavoratore con p.IVA. Da circa una settimana, dopo 7 anni di lavoro, sono stato messo alla porta dal proprietario dello studio per futili motivi (ad esempio non rispettare l’orario che avevano i dipendenti). Ho accettato di andare via entro fine mese senza fiatare. in due giorni mi sono state tolte le chiavi dello studio, mi hanno intimato (lei e il marito che all’interno dello studio non ha nessuna posizione) di prendere tutte le mie cose entro 2giorni altrimenti avrebbero buttato tutto. ho chiesto di poter avere un giorno per organizzarmi, ma ho ricevuto oltre che risposta negativa anche minacce di ripercussioni personali da parte del marito tramite sms (per le quali ho sporto denuncia). sono andato a ritirare tutte le miei cose e ho trovato tutto spostato e il computer formattato. Per quali reati posso sporgere denuncia. ci sono i presupposti per la violazione della privacy? preciso che il marito continua a scrivermi messaggi con parolacce e minacce.

In una vicenda come questa, ci sono diversi profili di illegittimità che si potrebbero rilevare.

Il primo è ovviamente l’aver mascherato un rapporto di lavoro subordinato come un lavoro autonomo con partita IVA, che è un po’ la cifra della generazione attuale di lavoratori, ma che rappresenta un grande «imbroglio», anche se largamente diffuso e tollerato. Questo è appunto un primo aspetto che potresti coltivare, chiedendo l’accertamento giudiziale, in sede civile, dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, con tutto quel che ne consegue a livello economico. Ovviamente, questa pratica, come molte, è destinata a tradursi, alla sua conclusione, in un recupero crediti, per cui è da valutare attentamente, sotto il profilo, soprattutto, della solvenza; leggi comunque la scheda relativa con attenzione.

Altri profili possono consistere in reati vari, che non c’è bisogno di definire o di nominare. Se vuoi procedere in questo senso, quindi in ambito penale, puoi redigere, da solo o con l’assistenza di un legale, una denuncia querela in cui esponi i fatti accaduti, con la maggior precisione possibile e allegando quando puoi la documentazione relativa, lasciando che sia poi il procuratore a inquadrarli e a indicare i reati che negli stessi fatti si rinvengono.

La prima soluzione è per te sicuramente più costosa della seconda, perché si tratta di aprire una vertenza civile che molto probabilmente sfocerebbe in una vera e propria causa, con costi, almeno inizialmente, a tuo carico. Nel secondo caso, puoi limitarti alla presentazione della denuncia querela, che, come tale, costa molto meno di una causa intera.

Leggi comunque la nostra scheda sulla denuncia querela per maggiori approfondimenti.

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Apparente taccheggio dove lavoro: cosa rischio?

lavoro da quasi 20 anni presso un centro commerciale, durante gli acquisti, mi ha squillato il cellulare, all’ interno della borsetta che tenevo a braccetto con il braccio sinistro, coincidenza su quello destro aveva un crema, nel prendere il cellulare ho appoggiato la crema nella borsetta , al termine della chiamata ho inserito il cellulare in tasca, ho continuato a fare la spesa, quando sono andata alla cassa, è suonato l’antitaccheggio e mi hanno trovato la crema nella borsetta. Sono entrata nel pallone non sapevo cosa dire, mi hanno sospesa del lavoro e rischio il licenziamento, cosa posso fare, di certo non era mia intenzione rubare nello stesso ipermercato dove lavoro da anni , quale sarebbe stato il grosso vantaggio.Vi prego aiutatemi sono andata in depressione non so più come orientarmi.

Non esistono soluzioni «pronte», preconfezionate, magiche e veloci per un problema del genere. Si può solo provare a tutelarsi nel miglior modo possibile.

Ci sono due profili che vengono in ballo, quello penale, per cui rischi, potenzialmente, una condanna per furto, e quello civile, relativo al rapporto di lavoro, dove appunto rischi anche il licenziamento.

Purtroppo, a livello istruttorio, non ci sono potenziali prove che potresti usare per dimostrare che quello che, visto da fuori, sembra un furto, in realtà è stata una semplice dimenticanza o una distrazione, per cui immagino che la tua condotta verrà valutata, quantomeno dal tuo datore di lavoro, in base alla conoscenza della tua persona e di come ti sei sempre comportata durante il rapporto di lavoro alle loro dipendenze.

Sono, insomma, le circostanze che rendono verosimile la tua versione o meno.

Il fatto che ti abbiano già sospesa dal rapporto di lavoro purtroppo non è un buon indice, anche se a volte si procede quasi meccanicamente.

Ad ogni modo, è bene che, col datore di lavoro, tu svolga subito con l’assistenza di un bravo avvocato le tue difese, da condurre dopo aver approfondito nel modo migliore possibile l’accaduto, scrivendo una risposta scritta alla sospensione in cui vengano evidenziati tutti gli elementi a tuo favore.

Analogamente, nella sede penale, dovrai cercare di allestire la miglior difesa possibile. Ti invito a leggere la nostra scheda di approfondimento sul taccheggio, che illustra i principali aspetti della materia.

È ovvio che un buon esito in una delle due sedi, civile o penale, è destinato ad avere buona influenza anche nell’altra, ma anche viceversa, per cui cerca di difenderti bene su entrambi i fronti.

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Durante la malattia si può lavorare nell’impresa di famiglia?

Sono dipendente in una azienda, sono in un periodo di malattia a causa di una patologia depressiva (documentata dal medico). Pur essendo a tutti gli effetti in malattia posso svolgere attività lavorativa presso l’impresa di famiglia? Incapperei in un giusto licenziamento da parte del mio datore di lavoro?

Probabilmente hai sentito parlare al telegiornale delle cause di esenzione dall’obbligo di reperibilità relative alla visita del medico fiscale, introdotte dal Ministro Brunetta, con decreto del 18 dicembre 2009.

L’articolo 2 del suddetto decreto prevede i casi di esclusione dai controlli di reperibilità; si introduce infatti il principio dell’esclusione dall’obbligo di reperibilità nei casi in cui l’assenza per malattia sia dovuta a patologie gravi che richiedono terapie salvavita; infortuni sul lavoro; patologie per riconosciuta causa di servizio; stati patologici sottesi o connessi alla situazione di invalidità riconosciuta.

Ci sono, infatti, patologie per cui è sconsigliato stare a casa, ed è lo stesso medico che consiglia l’uscita.

Il nodo della questione sta nello svolgimento di lavoro costante, cioè non di natura prettamente episodica, presso un’impresa familiare pur godendo di indennità di malattia.

La Cassazione, con la sentenza n. 589/2016 conferma la teoria di una azienda, la quale optava per licenziamento immediato. La condotta del lavoratore, nel caso analizzato dalla Corte, che pur godendo del periodo di malattia, prestava attività lavorativa per conto di terzi, è stata ritenuta di natura tanto grave dai giudici, da rendere assolutamente condivisibile la scelta del licenziamento.

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Che cosa fare quando il tuo capo vuole licenziarti e riassumerti tramite una cooperativa?

Sono un’infermiera di 48 anni assunta con contratto a tempo indeterminato (studi professionali) presso uno studio associato di medici di base della regione Veneto. Ho un’anzianità di servizio di 5 anni. I miei tre datori di lavoro mi hanno comunicato che intendono interrompere il rapporto di lavoro diretto con me e la mia collega per “passare” a una Cooperativa Sociale, la quale ci riassumerà. Noi continueremo a lavorare “come prima” nello studio ma alle dipendenze della cooperativa con il contratto delle cooperative sociali. Mi risulta che questo in base all’art. 126 del CCNL Studi Professionali sia un caso di “licenziamento simulato”. Ci hanno anticipato che dovranno chiederci di dare le dimissioni in questo modo potremo essere riassunte dalla cooperativa mantenendo lo stesso trattamento economico, ma è tutto molto fumoso. Come mi devo comportare? Rifiutare le dimissioni? Farmi licenziare e poi riassumere? Lo studio è piccolo e fino ad ora i rapporti sono stati buoni.

L’art. 126 del contratto collettivo nazionale per i dipendenti degli studi professionali prevede quanto segue: «Il licenziamento del lavoratore seguito da nuova assunzione presso la stessa sede di lavoro deve considerarsi improduttivo di effetti giuridici quando sia rivolto alla violazione dei diritti del lavoratore e sempre che sia provata la simulazione. Il licenziamento si presume comunque simulato – salvo prova del contrario – se la nuova assunzione viene effettuata entro un mese dal licenziamento».
Quindi un minimo di tutela per i casi come il tuo è prevista, anche se l’onere di dare comunque la prova della simulazione suscita un po’ di perplessità, anche a fronte dell’eventualità che il nuovo contratto venga redatto, come non mi stupirei se avvenisse, in modo da creare una parvenza di verosimiglianza, ad esempio indicando come sede di lavoro, almeno sulla carta, una diversa unità produttiva.
Bisogna, d’altro canto, guardare in faccia la realtà: con questa operazione i tuoi datori non ti danno assolutamente qualcosa in più, né ti mantengono nella stessa posizione di prima: se passi, da dipendente quale sei ora, a lavorare per loro come socia di una cooperativa sociale può anche darsi che tu mantenga lo stesso stipendio a fine mese, ma perdi molti diritti, ad esempio sei molto meno tutelata da ipotesi di licenziamento «effettivo», e probabilmente anche ulteriori e diversi trattamenti economici ne saranno intaccati, come quello pensionistico, visto che la contribuzione non è certamente corrispondente (ma di questo, ovviamente, ti accorgerai solo in futuro).
Detto questo, non mi sento nemmeno di gettare completamente la croce addosso ai tuoi datori di lavoro che stanno facendo quello che purtroppo fanno molti altri datori in questo periodo, dando luogo al più vasto fenomeno di precariato che si sia mai avuto in Italia dal secondo dopoguerra. Alcuni di questi datori vi sono veramente costretti, nel senso che se non riuscissero a trovare forme di inquadramento alternativo dovrebbero sopprimere il posto di lavoro, altri semplicemente se ne approfittano.
Alla fine di tutto, io ti consiglierei di parlare apertamente e con chiarezza con i tuoi datori di lavoro. Nelle piccole realtà economiche come sono generalmente gli studi professionali si è un po’ tutti, in una certa misura, sulla stessa barca. Ovviamente, poi, dovrai fare anche valutazioni di stretta convenienza, perché se è vero che con questa operazione ti stanno togliendo alcuni diritti, è anche vero che non ci sono molte alternative in un periodo come questo, anche se la professionalità dell’infermiere è abbastanza richiesta.

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come si possono valutare le probabilità di ottenere il riconoscimento di un lavoro dipendente?

Laureato in informatica, dipendente con contratto a tempo indeterminato (commercio) in una società di consulenza informatica (spa), attualmente consulente come programmatore presso una grande azienda da 10 anni (voglio dire che da 10 anni lavoro presso questa grande azienda come se fossi un loro dipendente). Chiedo se ho diritto a intentare una causa per lavoro presso questa azienda e quante probabilità ho di vincerla.

Posta in questo modo, la domanda non può condurre assolutamente a niente. Per vedere se un rapporto d’opera, o di consulenza, dissimula in realtà un rapporto di lavoro subordinato della cui esistenza si possa chiedere l’accertamento ad un giudice, bisogna proprio esaminare in dettaglio le modalità con cui è sempre stato svolto il lavoro. Bisogna, ad esempio, vedere se c’erano vincoli di orario, con anche, sempre ad es., cartellini da timbrare, superiori, una vera e propria subordinazione o, al contrario, libertà ed autonomia nello svolgimento delle prestazioni. È necessario, in altri termini, esaminare che cosa faceva il «lavoratore» dal mattino in cui entrava in azienda (se entrava, ovviamente) alla sera in cui se ne andava e con quali modalità. Una volta fatto questo importante lavoro preliminare di approfondimento, si può esprimere un giudizio generale circa la sussistenza o meno di un rapporto di lavoro subordinato, ma mai esprimere con precisione le probabilità di vittoria in una causa, perché, specialmente in materie «liquide» come questa, ci sono troppe variabili. Un avvocato serio ti può dire semplicemente se è meglio lasciar perdere o se «ci sono possibilità» di vittoria, questo secondo caso sarà quello in cui la tua situazione non appare infondata, ma ci sono discreti elementi a tuo favore. Ma più di questo non sarebbe corretto, né utile.