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Fallimento: è possibile cancellarlo?

vorrei sapere il costo totale per la cancellazione di un fallimento che è stato dichiarato nel Settembre del 2005 e chiusosi nel 2015. Il fallimento è stato dichiarato dal Tribunale di Pordenone, ma io sono nata a Napoli.
Vorrei inoltre, se possibile, sapere la tempistica per la pratica in questione.

Purtroppo, in situazioni come queste, prima di poter fare un preventivo, bisogna fare un lavoro preliminare di approfondimento, per valutare se e come è possibile rimuovere le conseguenze negative di un fallimento.

gomma cancellazioneBisogna insomma studiare il fascicolo e la situazione in modo completo prima di poter dire qualsiasi cosa. Può darsi che non ci sia niente da fare, come accade in alcuni, limitati, casi, come può darsi che si possa intervenire con una delle soluzioni messe a disposizione dalla legge in modo diverso a secondo del tipo di fallimento, epoca, momento in cui ci si trova.

Per questi motivi, chi è interessato a questo tipo di soluzioni può acquistare una consulenza preliminare per fare questo esame al fine di verificare quel che si può fare.

Ovviamente, bisognerà fornire la documentazione del caso, per la qual cosa si consiglia di seguire sempre le indicazioni contenute in questo post di riferimento.

Per quanto riguarda le tempistiche, purtroppo parliamo di fantascienza: non esistono tempi di riferimento standard, ma solo rimedi che si possono adottare, dopodiché ogni tribunale ha i suoi tempi…

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Vecchio fallimento: cosa risulta ora?

nel 2008 sono stato dichiarato fallito . ero il socio accomandatario di una SAS fallita
il cui fallimento si è concluso nel 2016 . Al casellario giudiziale sono ancora iscritto?
cosa devo fare? ho aperto una impresa con il regimo forfettario . cosa rischio?

Ti ringrazio per la grande stima che nutri nei miei superpoteri, ma in realtà non ho alcun modo di sapere che cosa risulta al casellario giudiziale nei tuoi confronti.

Il primo passo per trattare la tua situazione è proprio fare una interrogazione per vedere che cosa risulta al casellario, chiedendo il rilascio di un certificato.

Per quanto riguarda l’impresa che hai già aperto, direi che queste siano domande che avresti dovuto porti, insieme ai professionisti che ti hanno seguito nell’avvio dell’attività, al momento della progettazione della stessa e non in seguito.

Però, certo, tardi resta sempre meglio che mai, secondo il noto adagio anche popolare. In ogni caso, il raggio d’indagine va ristretto e bisogna capire meglio quali sono i tuoi timori e qual è il tipo di attività che svolgi attualmente.

Se vuoi fare questo approfondimento, è necessario un lavoro probabilmente di qualche ora. Valuta l’acquisto di una delle nostre ricariche: clicca qui.

Se invece preferisci, si può fare intanto anche solo una prima consulenza: clicca qui.

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Due aziende invece di una: che fare?

ho fatto causa per licenziamento ingiusto,la causa comprende 2 aziende separate sotto i 15 dipendenti, nel procedimento con documenti e testimonianze si e provato che le 2 aziende in realta ne sia una,il 12 febbraio esce la sentenza. nel frattempo visto come si sono messe le cose la controparte ha provveduto a chiudere per fallimento una delle aziende cioe quella dove io ero assunto.ha obbligato gli operai restanti alle dimissioni per poi aprire um altra azienda sempre a suo nome.cosa succede in caso positivo ne risponde l azienda restante?

Stai facendo a mio giudizio un po’ troppa confusione e non descrivi purtroppo nemmeno il caso in maniera sufficientemente dettagliata, cosa peraltro non facile per chi non conosce il diritto e la pratica giudiziaria.

Tu, comunque, eri dipendente di un’azienda specifica. Da quanto mi pare di capire, il tuo avvocato ha, intelligentemente, tentato di dimostrare che questa azienda, di cui era dipendente, era comunque «collegata» ad un’altra azienda, formalmente indipendente, ma che tuttavia formava un tutt’uno con la prima, con la conseguenza che ci sarebbe stata una sorta di simulazione e dissimulazione.

Questo può essere benissimo, è una cosa che nella pratica purtroppo accade, ma la cosa importante da capire è che: finché non sarà uscita la sentenza e finché la sentenza non avrà ufficialmente dichiarato tale simulazione, con ogni conseguenza di legge, non c’è nessuna prova che possa avere alcuna rilevanza e tu sei dipendente solo ed esclusivamente dell’azienda fallita.

Come dipendente dell’azienda fallita, puoi solo insinuarti nel fallimento, con un buon diritto di privilegio, cioè di precedenza rispetto agli altri creditori, e puoi chiedere l’intervento del fondo di garanzia dell’INPS.

Se, invece, sarai riuscito a dimostrare che le due aziende formalmente distinte in realtà erano un’unica azienda, forse potrai soddisfarti anche sul patrimonio della seconda, sempre che il fallimento della prima non venga esteso anche alla seconda, cosa che potrebbe benissimo capitare.

Insomma, si tratta di una situazione per nulla semplice e riguardo alla quale prima che esca la sentenza ogni discorso è purtroppo prematuro e non ha molto senso.

Leggi anche la nostra scheda sul recupero crediti, con particolare attenzione al concetto di solvenza.

In conclusione, devi aspettare la sentenza, che sarà il punto di riferimento più importante per la gestione della situazione. Nel frattempo, se vuoi approfondire ulteriormente, valuta di acquistare una consulenza, anche se non credo proprio che, per quanto ti ho spiegato, possa valerne la pena.

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Cancellazione dal registro dei falliti: come procedere?

Vorrei avviare una pratica per la cancellazione di un fallimento dal casellario, essendo un fallimento del 1990. Vorrei indicazioni da Voi come cominciare la procedura ed un contatto

Per la cancellazione di un nominativo dal registro dei falliti, abbiamo pubblicato un apposito post che spiega come funziona la relativa pratica, che puoi trovare qui e che ti invito a leggere attentamente.

Nel post, troverai anche un esempio di ricorso e di provvedimento emesso, in seguito, di cancellazione.

Per questo tipo di pratica, abbiamo definito un apposito «prodotto» nel nostro store legale, la sezione ecommerce del sito, che puoi trovare qui. Da questa pagina, puoi vedere cosa costa attualmente questo pacchetto, o servizio, e, nel caso ti possa interessare, procedere direttamente all’acquisto.

Non importa dove risiedi tu e quale sia il tribunale competente: possiamo svolgere queste pratiche in ogni parte d’Italia grazie ai nostri corrispondenti. Ovviamente, il costo è sempre quello indicato nella scheda prodotto, essendo il corrispondente a carico nostro e quindi compreso nel preventivo.

Se vuoi maggiori chiarimenti, chiedici pure, altrimenti valuta la documentazione che ti ho «linkato». Ti raccomando, con l’occasione, di iscriverti alla newsletter del blog, o, se non ti piace la mail, al gruppo Telegram, in modo da non perderti importanti e utili aggiornamenti quotidiani.

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Accertamento del passivo e domande pregiudiziali.

Pubblicato da Avv. Domenico Rosati

 

Indice

  • L’esclusività del rito dell’accertamento del passivo: le eccezioni previste dalla legge.
  • La sentenza della Cassazione n. 3953 del 29 febbraio 2016 sulla procedibilità della domanda pregiudiziale nelle sedi ordinarie.
  • L’ambito di applicazione del principio di esclusività del giudizio di accertamento dello stato passivo.
  • Il rapporto tra le domande che possono proseguire nelle sedi ordinarie e la verifica del passivo.

 

L’esclusività del rito dell’accertamento del passivo: le eccezioni previste dalla legge.

 

A molti sarà capitato, nelle more di un qualsiasi giudizio, di trovarsi di fronte a controparti dichiarate fallite.

Innanzitutto, in questo caso (così come il caso della morte di una parte), il processo va interrotto, ai sensi dell’art. 43 della Legge Fallimentare.

Orbene, una volta interrotto il procedimento, la parte che ha interesse alla prosecuzione dello stesso, come si deve comportare? Deve riassumere il giudizio nei confronti della Curatela? O insinuarsi al passivo, giusta l’esclusività del giudizio di accertamento del passivo di cui all’art. 52 L.F.?

 

A più di dieci anni di distanza dalla riforma organica della legge fallimentare (D. Lgs. 5/2006), i rapporti tra i processi “pendenti” alla data della dichiarazione di fallimento e la verifica del passivo continuano ad essere oggetto di incertezze e di indirizzi interpretativi contrastanti.

Il problema si pone più in generale ogni volta che, alla data dell’apertura della procedura fallimentare, penda un processo avente ad oggetto una questione dalla quale dipende il riconoscimento di un credito da fare valere al passivo fallimentare.

La questione può sintetizzarsi in questi termini: dal momento che ogni pretesa restitutoria o risarcitoria nei confronti del fallito deve essere sottoposta, per forza di cose, alla cognizione del giudice delegato, le domande proposte nelle sedi ordinarie prima della dichiarazione di fallimento che abbiano per oggetto gli antecedenti logico-giuridici di quelle pretese possono essere decise in quelle sedi o debbono essere attratte, anch’esse, alla sede della verifica?

 

Si era in precedenza sempre sostenuto che anche le domande pregiudiziali, rispetto al diritto di credito vantato contro il fallito, dovessero essere trasferite nella sede della verifica dei crediti, eccezion fatta per i casi nei quali la sentenza che avesse pronunciato su quelle domande fosse destinata ad essere fatta valere in sedi diverse da quella concorsuale, ad esempio per l’escussione di un fideiussore.

Una riflessione più articolata ed alcuni importanti distinguo si rendono peraltro opportuni, soprattutto perché, nel corso del 2016, la Cassazione è intervenuta in argomento due volte, con due pronunce, a brevissima distanza l’una dall’altra, giungendo ad opposte conclusioni (Cass. 29 febbraio 2016, n. 3953 ha affermato la procedibilità della domanda pregiudiziale nelle sedi ordinarie, mentre Cass. 21 gennaio 2016, n. 1083 si è pronunciata nel senso dell’attrazione di quella domanda al rito dell’accertamento del passivo, in una liquidazione coatta amministrativa).

 

Conviene muovere dall’analisi dell’art. 72, 5° comma, L.F.; norma, questa, introdotta con la Novella del 2006 e diretta a disciplinare la sorte dell’azione di risoluzione contrattuale, promossa prima della dichiarazione di fallimento di una delle parti.

Con questa disposizione, il legislatore ha inteso risolvere un problema che, nel vigore della previgente disciplina, aveva ricevuto la seguente soluzione:

  1. dal punto di vista sostanziale, la risoluzione del contratto ed il risarcimento del danno, ancorché riferiti a pregressi inadempimenti della controparte, non potevano essere richiesti – in alcuna sede – se la risoluzione non fosse stata domandata dalla parte in bonis prima della dichiarazione di fallimento, stante l’indisponibilità dei beni acquisiti al fallimento ed a tutela dei principi che regolano la ripartizione dell’attivo;
  2. dal punto di vista processuale, l’azione di risoluzione proposta anteriormente all’apertura della procedura sarebbe potuta proseguire nelle sedi ordinarie, sebbene per le eventuali e consequenziali pretese risarcitorie restasse funzionalmente competente il tribunale fallimentare, per cui ogni domanda sarebbe dovuta essere proposta nelle forme e secondo il rito dell’accertamento del passivo.

 

L’art. 72, 5° comma, L.F. oggi così dispone: “l’azione di risoluzione del contratto promossa prima del fallimento nei confronti della parte inadempiente spiega i suoi effetti nei confronti del curatore, fatta salva, nei casi previsti, l’efficacia della trascrizione della domanda”, ed aggiunge che “se il contraente intende ottenere con la pronuncia di risoluzione la restituzione di una somma o di un bene, ovvero il risarcimento del danno, deve proporre la domanda secondo le disposizioni di cui al Capo V”.

 

Il richiamo alle “disposizioni del Capo V” è da intendersi riferito alle norme che disciplinano il procedimento di accertamento del passivo e dei diritti reali dei terzi, caratterizzato dal canone dell’esclusività, in forza del novellato art. 52, 2° comma, L.F., che prevede che “ogni credito, anche se munito di diritto di prelazione o trattato ai sensi dell’articolo 111, I° comma, n. 1, nonché ogni diritto reale o personale, mobiliare o immobiliare, deve essere accertato secondo le norme stabilite

dal Capo V, salvo diverse disposizioni della legge”.

Il combinato disposto dell’art. 72, 5° comma, con l’art. 52 L.F. consente di elaborare due principi sui quali gli indirizzi interpretativi sono univoci:

  • dal punto di vista sostanziale, l’azione di risoluzione ha effetti nei confronti della curatela solo qualora sia stata promossa prima dell’apertura della procedura e sempre che, ove la domanda sia trascrivibile, le relative formalità siano state adempiute prima della dichiarazione di fallimento;
  • dal punto di vista processuale, le domande di restituzione e di risarcimento danni che conseguono alla risoluzione del contratto non possono proseguire nelle sedi ordinarie ma devono essere proposte sotto forma di domande di ammissione al passivo o, a seconda dei casi, di rivendicazione o di restituzione.

 

L’art. 72, 5° comma, non chiarisce però quale sia la sorte delle domande che abbiano per oggetto le questioni che costituiscono l’antecedente logico-giuridico della pronuncia risarcitoria o restitutoria, ossia quelle inerenti alla risoluzione del contratto.

La norma non prevede espressamente se anche queste domande debbano essere sottoposte al rito dell’accertamento del passivo ovvero se possano proseguire nella sede processuale in cui sia stata introdotta, mediante riassunzione del processo, che è stato interrotto dalla dichiarazione di fallimento ex art. 43 L.F..

 

Il fatto che, a seguito della riforma del 2006, l’art. 52, 2° comma, L.F. stabilisca che “ogni credito, anche se munito di diritto di prelazione o trattato ai sensi dell’articolo 111, I° comma, n. 1, nonché ogni diritto reale o personale, mobiliare o immobiliare, deve essere accertato secondo le norme stabilite dal Capo V, salvo diverse disposizioni della legge”, dimostra come il dogma dell’esclusività dell’accertamento del passivo sia stato ribadito e finanche rafforzato dalla Riforma: questo principio, infatti, è stato mantenuto, come dimostra l’incipit della previsione, che è rimasto invariato (“ogni credito, anche se munito di diritto di prelazione, deve essere accertato secondo le norme stabilite dal Capo V, salvo diverse disposizioni della legge”), ma è stato oltretutto rafforzato (ed ampliato) perché, fra i crediti soggetti alla verifica fallimentare, ricadono oggi quelli prededucibili (come dimostra il riferimento all’art. 111 L.F.), e i diritti reali immobiliari (che l’abrogato art. 24 L.F. lasciava fossero conosciuti secondo le ordinarie regole di competenza); a ciò si aggiunga l’espressa previsione, contenuta nel comma terzo dell’art. 52 L.F., secondo cui anche i crediti esentati dal divieto di azioni esecutive individuali ex art. 51 L.F. (in particolar modo i crediti fondiari) devono essere accertati secondo le disposizioni del Capo V.

 

A mio modesto parere, l’art. 52 L.F., nel sottoporre ad un determinato rito, e nell’attribuire in via esclusiva ad un certo organo giurisdizionale, la decisione sui crediti che possono trovare spazio nella procedura fallimentare, attribuisce a quell’organo e sottopone a quel rito anche la cognizione di tutti gli antecedenti logico-giuridici che ne costituiscono il presupposto.

 

Tuttavia, l’art. 52, 2° comma, L.F. contiene una clausola di chiusura che fa salve le “diverse disposizioni della legge”.

Fra di esse si rammenta ad es. l’art. 111-bis, I° comma, L.F., che espressamente esclude dall’obbligo di verifica i crediti prededucibili non contestati per collocazione ed ammontare, ovvero l’art. 56 L.F., che consente la compensazione, al di fuori dal concorso, dei crediti e debiti del fallito verso lo stesso soggetto.

 

Ci si deve chiedere pertanto se anche l’art. 72, 5° comma, L.F. rappresenti una di queste eccezioni, esonerando dal rito dell’accertamento del passivo la domanda di risoluzione del contratto proposta prima della dichiarazione di fallimento, assoggettando a quel rito solo le consequenziali domande risarcitorie e restitutorie.

Se la risposta fosse affermativa, la questione descritta in apertura dovrebbe evidentemente risolversi nel senso della proseguibilità della domanda di risoluzione nelle sedi ordinarie.

Io sono di contrario avviso.

 

Si è già detto che l’art. 72, 5° comma, L.F., disponendo che “l’azione di risoluzione del contratto promossa prima del fallimento nei confronti della parte inadempiente spiega i suoi effetti nei confronti del curatore, fatta salva, nei casi previsti, l’efficacia della trascrizione della domanda”, non fa altro che tradurre in legge il principio consolidato secondo il quale il diritto di agire in giudizio per la risoluzione del contratto non può essere esercitato dopo la dichiarazione di fallimento della parte inadempiente, e che, se si tratta di rapporti soggetti a trascrizione, la domanda, oltre a precedere l’apertura della procedura, deve essere anche trascritta in data anteriore. La norma non contiene, quindi, nessuna deroga alle regole procedurali; essa individua soltanto le condizioni per rendere opponibile al curatore la domanda risarcitoria, conseguente alla risoluzione del contratto.

 

Nessuna eccezione, inoltre, può trarsi dal secondo periodo dell’art. 72, 5° comma, L.F. ove si legge che “se il contraente intende ottenere con la pronuncia di risoluzione la restituzione di una somma o di un bene, ovvero il risarcimento del danno, deve proporre la domanda secondo le disposizioni di cui al Capo V”.

La norma si occupa soltanto delle domande restitutorie e risarcitorie, senza prevedere espressamente che la domanda di risoluzione possa proseguire nelle sedi ordinarie; al contempo, l’art. 72, 5° comma, L.F., limitandosi ad affermare che è soggetta alla verifica dei crediti “la domanda”, non chiarisce se in quella locuzione sia compresa, oltre alla domanda risarcitoria o restitutoria, anche quella di risoluzione che, rispetto alla prima, si pone come pregiudiziale.

 

Nell’impossibilità di individuare, all’interno dell’art. 72, 5° comma, L.F., un’eccezione alla regola generale sancita dall’art. 52, 2° comma, della medesima legge, bisogna ora chiedersi se sia coerente con il rito dell’accertamento del passivo l’innesto nella verifica fallimentare dei crediti di ordinari giudizi di cognizione, destinati a riverberarsi con efficacia vincolante sulla decisione di ammissione, come accadrebbe se l’azione di risoluzione intrapresa anteriormente alla dichiarazione di fallimento potesse proseguire nelle sedi ordinarie.

 

A mio avviso la risposta deve essere, almeno in linea di principio, negativa.

 

La legislazione concorsuale contiene, infatti, una norma che disciplina espressamente un caso di deroga parziale al principio del concorso formale: si tratta dell’art. 96, 3° comma, n. 3, L.F., che prevede l’ammissione al passivo con riserva dei “crediti accertati con sentenza del giudice ordinario o speciale non passata in giudicato, pronunciata prima della dichiarazione di fallimento”, precisando poi che “il curatore può proporre o proseguire il giudizio di impugnazione”.

 

Questa disposizione (che ha sostituito l’abrogato art. 95, penultimo comma, L.F., in forza del quale “se il credito risulta da sentenza non passata in giudicato, è necessaria l’impugnazione se non si vuole ammettere il credito”), deroga al principio dell’esclusività del rito dell’accertamento del passivo, ma con una ratio ed una regola ben precisa.

Quanto alla ratio, il legislatore ha voluto riconoscere autorità alla pronuncia giurisdizionale anteriore alla dichiarazione di fallimento, anche se non passata in giudicato, lasciando al curatore la scelta di impugnarla o di proseguire l’impugnazione già proposta dal debitore in bonis.

Quanto poi alla regola, si è prevista l’ammissione del credito con riserva, ossia una decisione sul credito che subordina lo scioglimento della riserva al passaggio in giudicato del provvedimento emesso nelle sedi ordinarie (che comporterà l’ammissione al passivo pura e semplice, se verrà confermato in sede di gravame, ovvero lo scioglimento della riserva, con esclusione piena o parziale

a seconda della riforma integrale o pro-parte del provvedimento).

 

Si tratta di una disciplina ben difficilmente esportabile al caso della domanda di risoluzione del contratto “pendente” alla data della dichiarazione di fallimento, per più concorrenti ragioni.

Prima di tutto, l’interpretazione analogica dell’art. 96, 3° comma, n. 3 L.F. è impedita dalla natura eccezionale della norma.

In secondo luogo, essa si fonda su un presupposto (l’opponibilità al fallimento di una sentenza che si è pronunciata positivamente sul credito prima della dichiarazione di fallimento), che può mancare nel caso di risoluzione del contratto, vuoi perché la causa pende ancora in primo grado, vuoi perché il giudizio di prime cure potrebbe essersi concluso senza una pronuncia che abbia accertato il credito (ad esempio – per rimanere nell’ambito che ci occupa – ogniqualvolta la parte che ha chiesto la risoluzione non abbia accompagnato la domanda ad una pronuncia risarcitoria o restitutoria). Infine la norma de qua prevede che il credito venga ammesso al passivo con riserva, il che, nell’attuale situazione normativa, non può avvenire quando non sia stata emessa ancora una pronuncia che abbia accertato come esistente il credito, pur non essendo ancora passata in giudicato.

 

Dall’esame congiunto dell’art. 96, 3° comma, n.3 e dell’art. 72, 5° comma, L.F., peraltro, si possono trarre le seguenti regole:

  1. quando la pronuncia di risoluzione del contratto sia passata in giudicato prima della dichiarazione di fallimento e, con essa, sia stato riconosciuto il credito restitutorio o risarcitorio, o il diritto alla restituzione di un bene, il giudice della verifica deve accogliere negli esatti termini la domanda del creditore o del titolare del diritto (considerazione ovvia, visto che non si è neppure in presenza di un “processo pendente”, e pertanto l’art. 72, 5° comma, L.F. non opera);
  2. quando la pronuncia di risoluzione del contratto sia passata in giudicato prima della dichiarazione di fallimento senza alcuna pronuncia accessoria di risarcimento o restituzione, il giudice della verifica è vincolato quanto alla risoluzione disposta nelle sedi ordinarie e può essere investito della decisione sulla restituzione di somme o di beni o sul risarcimento del danno (anche in questo caso il processo non è più pendente, almeno quanto alla risoluzione, e per il resto l’obbligatorietà del rito dell’accertamento del passivo è pacifica);
  3. quando la pronuncia di risoluzione del contratto non sia passata in giudicato prima della dichiarazione di fallimento e, con essa, sia stato riconosciuto il credito restitutorio o risarcitorio, o il diritto alla restituzione di un bene, il giudice della verifica, deve ammettere al passivo ex art. 96, 3° comma, n. 3 L.F., la domanda di insinuazione, avente per oggetto quel credito, con riserva, da sciogliersi all’esito dell’impugnazione.

 

In tutti gli altri casi, e cioè qualora:

  1. il giudizio sulla risoluzione penda ancora in primo grado;
  2. ovvero si sia concluso in primo grado con il rigetto della domanda di risoluzione;
  3. o ancora quest’ultima sia stata accolta in primo grado, senza che in questo contesto fosse stata chiesta la condanna al risarcimento del danno o alla restituzione della prestazione;

il problema rimane aperto.

 

La sua soluzione non può prescindere dalla considerazione che il legislatore della riforma fallimentare ha modellato la disciplina della verifica dei crediti in senso spiccatamente acceleratorio, per consentire la conclusione in tempi brevi (o comunque ragionevoli) sia della fase “necessaria”, davanti al giudice delegato, sia di quella “eventuale”, di impugnazione (in tutte le sue forme) del decreto di accertamento del passivo.

 

La situazione, dunque, nella legge fallimentare vede un solo caso, in cui l’accertamento del passivo cede il passo ad un giudizio ordinario, instaurato prima del fallimento: si tratta dell’art. 96, 3° comma, n. 3 L.F. al quale abbiamo già fatto richiamo.

Al di fuori di questa ipotesi e di quella, pure espressamente prevista dalla legge, dei crediti tributari contestati, da ammettere anch’essi con riserva da sciogliersi ai sensi dell’art. 88, 2º comma, D.P.R. n. 602 del 1973 allorché sia stata definita la sorte dell’impugnazione esperibile davanti al giudice tributario, nessun’altra eccezione.

Se quanto precede è corretto, è evidente che pare frutto di una forzatura pretendere la prosecuzione in sede ordinaria della (sola) domanda di risoluzione del contratto, quando nessun indice normativo in tal senso può ricavarsi neanche dall’art. 72, 5° comma, L.F..

Tenuto conto, poi, che il sistema dell’accertamento del passivo nel fallimento è spinto verso l’accelerazione, obiettivo, di certo, non perseguibile in caso di necessario coordinamento tra giudizi pendenti davanti a giudici diversi.

Ciò era predicabile nell’assetto normativo anteriore alla riforma, ed infatti la giurisprudenza ammetteva la procedibilità dell’azione di risoluzione nelle sedi ordinarie; ma all’epoca, lo stesso giudizio di accertamento del passivo conosceva alcune fasi nelle quali trovava applicazione il rito ordinario di cognizione (rammentiamo le fasi contenziose delle insinuazioni tardive ed i giudizi di opposizione, impugnazione e revocazione dei crediti ammessi): caratteristica, questa, del tutto assente nel sistema novellato.

 

La sentenza della Cassazione n. 3953 del 29 febbraio 2016 sulla procedibilità della domanda pregiudiziale nelle sedi ordinarie.

 

Si è fatto cenno, in premessa, ad una recente pronuncia di Cassazione (Cass. 29 febbraio 2016, n. 3953), che si è espressa in senso opposto sul tema che ci occupa.

 

La sentenza, resa in un giudizio di simulazione e risoluzione di un contratto preliminare di compravendita immobiliare con la domanda debitamente trascritta al momento della dichiarazione di fallimento di una delle due parti, ha riconosciuto la prosecuzione del processo nella sede ordinaria.

 

La conclusione è stata argomentata invocando, in primo luogo, proprio il fatto che la domanda, avendo ad oggetto beni immobili, fosse stata trascritta anteriormente alla dichiarazione di fallimento, e pertanto attribuendole effetti “prenotativi”.

 

Ora, nessuno nega una siffatta efficacia alla trascrizione della domanda ed è lo stesso art. 72, 5° comma, L.F. ad esigerla, quando prevista, per rendere opponibile la domanda di risoluzione al fallimento.

Tuttavia, come già visto, si tratta di prenotare gli effetti sostanziali della futura risoluzione, se la domanda verrà accolta; ma questo non ha nulla a che vedere con il rito nell’ambito del quale la domanda deve essere decisa, una volta dichiarato il fallimento.

 

In secondo luogo, i Giudici di legittimità invocano il principio della ragionevole durata del processo.

 

A mio avviso, invece, proprio il principio della ragionevole durata del processo avrebbe dovuto indurre a devolvere al giudice fallimentare anche la domanda di risoluzione. È, infatti, la prosecuzione della domanda di risoluzione nelle sedi ordinarie a ritardare la decisione sulla pretesa risolutoria o risarcitoria, mentre non è vero il contrario, perché le domande di ammissione al passivo vengono decise in tempi sensibilmente più rapidi rispetto ai giudizi ordinari, e nulla osta che siano corroborate, sotto l’aspetto probatorio, dal materiale acquisito nel giudizio ordinario, venendo decise dal Giudice delegato secondo il suo libero convincimento, esattamente come nella controversia ordinaria.

 

Infine la Suprema Corte afferma che la domanda di risoluzione/simulazione e quelle accessorie di restituzione o risarcitorie andrebbero assoggettate a riti diversi “previa separazione delle cause”. Dal punto di vista processuale, ciò genera una situazione complessa: anche a volere fare applicazione degli articoli 103, 2° comma, e 104 c.p.c. (ai quali, verosimilmente, i Giudici di legittimità hanno implicitamente fatto riferimento), non si vede come il giudice ordinario potrebbe emettere un’ordinanza di rimessione delle domande restitutorie o risarcitorie al Giudice delegato.

 

Al di là del fatto che le domande di ammissione al passivo devono, da un lato, essere veicolate e seguire l’iter procedimentale stabilito dall’art. 93 L.F., dall’altro contenere la domanda di partecipazione al concorso.

Requisito, questo, che la domanda restitutoria o risarcitoria promossa prima della dichiarazione di fallimento non può contenere per definizione.

 

L’ambito di applicazione del principio di esclusività del giudizio di accertamento dello stato passivo.

 

Fin qui si è detto della domanda di risoluzione contrattuale promossa prima della dichiarazione di fallimento.

Va ora puntualizzato l’ambito applicativo dei principi in tal modo individuati.

 

In primo luogo, l’idea che la cognizione dell’intera causa (e non solo delle domande di risarcimento o di restituzione) debba essere devoluta al giudice delegato, non riguarda solo il caso della domanda di risoluzione, del quale si occupa espressamente l’art. 72, 5° comma, L.F., ma tutte le ipotesi in cui, al momento dell’apertura della procedura fallimentare, siano pendenti giudizi che hanno per oggetto domande pregiudiziali al riconoscimento di crediti da fare valere nel passivo fallimentare: la nullità del contratto, l’annullabilità, la rescissione, la simulazione, l’usucapione, etc.

La stessa sentenza di legittimità, sopra richiamata, pur sposando la tesi della prosecuzione dell’azione di risoluzione in sede ordinaria, dà per scontato che anche l’azione di simulazione sia assoggettata alla stessa regola.

 

A mio avviso, invece, per le ragioni sopra esposte non può che essere il Giudice Delegato colui che si pronuncia sull’antecedente logico-giuridico della pretesa creditoria.

 

Se questo è vero, è però altrettanto vero che il principio dell’esclusività del rito fallimentare può e deve riguardare le domande pregiudiziali solo se esse siano strumentali al conseguimento dell’ammissione al passivo quale unico “bene della vita” cui la parte in bonis, a seguito della dichiarazione di fallimento, tende.

Con questa precisazione – che comporta un significativo ridimensionamento dell’enunciato principio – si intende dire che il Giudice Delegato, nella verifica concorsuale, può bensì pronunciarsi sulla pretesa creditoria, con efficacia endo-fallimentare, ma non può emettere altri tipi di pronunce alle quali la domanda pregiudiziale mira, per scopi che (come accade il più delle volte) sono del tutto estranei ai poteri del Giudice della verifica, e che per l’appunto sono sottratti alla sua competenza.

 

Più precisamente, va osservato che vi sono, prima di tutto, una molteplicità di situazioni nelle quali la domanda pregiudiziale (di risoluzione, annullamento o quant’altro), non ha alcuna attinenza con il passivo fallimentare.

Ciò accade quando la controparte in bonis del fallito agisce o intende proseguire l’azione nelle sedi ordinarie per finalità del tutto estranee alla partecipazione al concorso.

Tra gli esempi abbiamo:

  1. quello della pretesa risolutoria finalizzata a provocare la mera liberazione della parte in bonis dagli obblighi contrattuali;
  2. quella destinata ad essere fatta valere nei confronti del fallito tornato in bonis, magari a seguito della revoca della dichiarazione di fallimento;
  3. ancora, si pensi all’ipotesi della risoluzione contrattuale, che sia necessaria per escutere una garanzia di terzi, ovvero per liberare la parte in bonis da una garanzia in conseguenza dell’altrui inadempimento.

In tutti questi casi, predicare l’attrazione della domanda al rito dell’accertamento

del passivo non ha evidentemente alcun senso.

 

Vi sono poi altrettante situazioni nelle quali la domanda pregiudiziale, se da un lato costituisce l’antecedente logico-giuridico del riconoscimento di un credito risarcitorio o restitutorio, ovvero di una pretesa di rivendica o di restituzione, da fare accertare nelle forme di cui agli articoli 93 e ss. L.F., dall’altro lato è strumentale a riconoscere un “bene della vita” ulteriore, che il Giudice Delegato – in ragione della propria competenza e dei suoi poteri – non può assegnare alla parte.

 

Le ipotesi sono numerose: si pensi, ad esempio, ad un contratto preliminare di compravendita immobiliare che sia stato trascritto ma non adempiuto e per il quale sia stata proposta (e trascritta) domanda di risoluzione, per inadempimento della parte acquirente, poi fallita.

Il promittente venditore, in veste di attore, potrebbe avere cumulato alla domanda risolutoria una domanda di rilascio dell’immobile nel cui possesso il promissario acquirente era stato immesso, ovvero una domanda di risarcimento danni, da sottoporre sicuramente al giudice della verifica.

Tuttavia, se la domanda di risoluzione, prodromica anche alla pretesa risarcitoria o restitutoria, fosse dichiarata improcedibile, il promittente venditore si vedrebbe privato della possibilità di ottenere un titolo (la sentenza di risoluzione del contratto), ai fini del rilascio: e difficilmente quel titolo potrebbe essere “surrogato” dal decreto di esecutività dello stato passivo, anche solo per l’efficacia meramente endo-concorsuale di quest’ultimo.

 

In questo e in altri casi simili, poiché la parte in bonis non può vedersi privata, con l’improcedibilità del giudizio ordinario, delle tutele alle quali la sua domanda tende e che il giudice delegato non può concedere, è inevitabile che il processo possa e debba proseguire nelle sedi ordinarie, previa riassunzione nei confronti della Curatela.

 

Se questi rilievi sono corretti, si può concludere:

  • che la regola dell’improcedibilità della domanda pregiudiziale e della sua necessaria attrazione al rito dell’accertamento del passivo esiste, ma trova applicazione solo quando la domanda pregiudiziale non abbia altro scopo che l’ammissione del consequenziale credito risarcitorio o restitutorio al passivo fallimentare, cosicché la domanda nelle sedi ordinarie si traduce, con il fallimento, in una mera domanda di ammissione al passivo (si pensi al promissario acquirente che abbia chiesto la risoluzione del preliminare di compravendita mobiliare, per inadempimento del promittente venditore, al solo possibile scopo di ottenere la restituzione degli acconti versati);
  • per contro, quella regola non deve trovare applicazione né qualora la domanda abbia finalità del tutto estranee alla partecipazione al concorso, né qualora sia strumentale non solo all’ammissione al passivo del credito consequenziale, ma anche ad ulteriori declaratorie o adempimenti che esorbitano dai poteri e/o dalla competenza del Giudice della verifica.

 

Il rapporto tra le domande che possono proseguire nelle sedi ordinarie e la verifica del passivo.

 

A questo punto, resta da stabilire quale sia il rapporto tra l’accertamento del passivo e le domande che possono proseguire nelle sedi ordinarie.

 

Senza occuparsi delle domande non destinate ad influire in alcun modo sulla verifica dei crediti, e delle quali si è detto poco più sopra, per le altre è da escludere, in primo luogo, che i procedimenti possano correre paralleli, ovvero che il giudice della verifica possa decidere, sulla domanda “a monte”, autonomamente rispetto al giudice ordinario.

Ammettere una simile ipotesi significherebbe duplicare le cognizioni sullo stesso tema, con il rischio di giudicati contrastanti.

Il rapporto, invece, deve essere correttamente inquadrato nell’ambito della pregiudizialità: la decisione del giudice ordinario sulla domanda “a monte”, pertanto, una volta emessa nei confronti della Curatela e passata in giudicato, dovrebbe vincolare il giudice della verifica; beninteso senza influire sulla decisione relativa alla domanda restitutoria o risarcitoria, rimessa alla sua cognizione esclusiva.

 

Può accadere che, in attesa della conclusione del processo proseguito in sede ordinaria (sulla sola domanda pregiudiziale), la parte si astenga dal proporre le domande di risarcimento o restituzione, preferendo attendere la decisione sulla pregiudiziale.

Tale eventualità non crea problemi procedurali; tuttavia il creditore sconta il fatto che un soggetto non insinuato non può avere mai diritto agli accantonamenti nei riparti, sicché, una volta ammesso al passivo, probabilmente in via ultra-tardiva, e previo accertamento della non-imputabilità anche ai fini dei prelievi nei riparti già eseguiti, potrebbe trovare il fallimento privo di risorse sufficienti ad assicurargli il pagamento delle quote pregresse cui avrebbe diritto.

 

Potrebbe però anche darsi che il creditore insinui il credito al passivo mentre pende il giudizio ordinario sulla domanda pregiudiziale.

In tale eventualità, esclusa, come già detto, la possibilità di una ammissione al passivo con riserva ex art. 96, n. 3, L.F., ed essendo precluso al Giudice Delegato pronunciarsi sia sulla domanda pregiudiziale, sia su quella dipendente, in questo secondo caso finché non si sia concluso il giudizio nella sede ordinaria, si potrebbe ipotizzare la sospensione della decisione sul credito ex art. 295 c.p.c., in attesa della pronuncia, da parte del giudice ordinario, sulla domanda pregiudiziale.

 

Tuttavia, come è stato autorevolmente evidenziato, l’istituto della sospensione del processo per pregiudizialità-dipendenza appare inadatto alla fase necessaria di verifica del passivo.

 

A ben vedere, perciò, l’unica via percorribile è quella del rigetto della domanda di ammissione al passivo, per carenza, allo stato, del suo presupposto “a monte”.

 

Solo la proposizione di un’opposizione allo stato passivo del creditore istante consentirebbe al processo instaurato ex art 98-99 L.F. di essere sospeso ai sensi dell’art. 295 c.p.c., in attesa della decisione nelle sedi ordinarie; con il vantaggio per il creditore, previa richiesta e concessione di misure cautelari, di beneficiare degli accantonamenti ai sensi dell’art. 113, comma 2, L.F..

 

Si tratta di un iter non certo snello e che, per certi versi, contraddice quanto esposto in precedenza circa la difficile compatibilità delle parentesi ordinarie di cognizione nell’accertamento del passivo.

 

Tuttavia, allo stato, pare a chi scrive che questo sia l’unico modo per garantire alla parte in bonis il diritto ad ottenere una tutela che il Giudice Delegato, in sede di verifica, non è in grado di accordarle.

 

Al contempo, la costruzione sopra descritta consentirebbe al creditore di non subire le conseguenze pregiudizievoli che la durata del processo ordinario potrebbe comportare, in termini di perdita delle ripartizioni anteriori all’ammissione del credito.

 

Si tratta, inoltre, di una soluzione che non ostacola l’iter della procedura concorsuale, dal momento che l’opposizione allo stato passivo non preclude neppure la chiusura del fallimento, il giudizio di opposizione può proseguire, anche dopo la chiusura, una volta cessata la causa di sospensione, e le somme accantonate possono essere depositate ai sensi dell’art. 117, 3° comma, L.F., per essere distribuite a chi spettano ovvero, in caso di definitiva esclusione del credito, all’esito dell’opposizione, per essere fatte oggetto di riparto supplementare fra gli altri creditori.

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Rimesse bancarie: come funziona la revocatoria?

Esenzione di cui all’art. 67, comma 3, lett. b, L.F. e limitazioni previste dall’art. 70 L.F..

Prima di entrare nel cuore della questione, bisogna muovere l’analisi dal combinato disposto degli articoli 67, comma 3, lett. b, e 70 L.F..

L’art. 67, comma 3, lett. b, L.F. stabilisce che “non sono soggetti all’azione revocatoria le rimesse effettuate su un conto corrente bancario, purché non abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l’esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca”, l’art. 70 L.F., invece, afferma che “la revocatoria dei pagamenti avvenuti tramite intermediari specializzati, procedure di compensazione multilaterale o dalle società previste dall’art. 1 della legge 23 novembre 1939, n. 1966, si esercita e produce effetti nei confronti del destinatario della prestazione.

Colui che, per effetto della revoca prevista dalle disposizioni precedenti, ha restituito quanto aveva ricevuto è ammesso al passivo fallimentare per il suo eventuale credito.

Qualora la revoca abbia ad oggetto atti estintivi di posizioni passive derivanti da rapporti di conto corrente bancario o comunque rapporti continuativi o reiterati, il terzo deve restituire una somma pari alla differenza tra l’ammontare massimo raggiunto dalle sue pretese, nel periodo per il quale è provata la conoscenza dello stato d’insolvenza, e l’ammontare residuo delle stesse, alla data in cui si è aperto il concorso. Resta salvo il diritto del convenuto di insinuare al passivo un credito d’importo corrispondente a quanto restituito”.

Quindi, per intraprendere un’azione revocatoria delle rimesse in conto corrente è necessario fornire la prova della conoscenza dello stato di insolvenza e che siano determinati i criteri della consistenza e durevolezza.

La conoscenza dello stato di insolvenza da parte della banca può essere provata con un insieme di fattori, tra cui il bilancio e i suoi indici.

Per la determinazione delle rimesse consistenti è da calcolare la media delle rimesse e la sua incidenza sul saldo medio. Solo quelle superiori sono consistenti.

Per la durevolezza, si calcola la media della durata delle rimesse consistenti e solo quelle con durata superiore alla media sono durevoli.

Conoscenza dello stato di insolvenza.

Analizziamo la sentenza del Tribunale di Torino del 20 febbraio 2014 pronunciata dalla Dottoressa Paola Rigonat.

È la più recente sentenza in materia, ed è indiscutibilmente interessante, da considerare quale ulteriore tentativo di conciliare le 2 norme sopra citate.

I punti analizzati dalla sentenza sono i seguenti.

La conoscenza dello stato di insolvenza può essere desunta dai seguenti elementi:

  1. bilanci: tali documenti contabili evidenziano la notevole esposizione debitoria della società nei confronti del sistema bancario, dell’erario, degli istituti previdenziali e dei fornitori e lo squilibrio tra i ricavi di esercizio, i costi di produzione e gli oneri finanziari;
  2. Centrale rischi della Banca d’Italia;
  3. andamento del conto corrente;
  4. comunicazione della società dell’impossibilità di ripianare l’esposizione debitoria maturata nei confronti dell’istituto di credito per carenza di liquidità;
  5. il blocco del conto corrente;
  6. sollecitazioni da parte di funzionari della banca.

Si tratta di elementi che, considerati unitariamente, non danno indicazioni utili ai fini della conoscenza dello stato di insolvenza, ma se considerati nel loro insieme costituiscono indubbiamente prova di tale conoscenza.

Le rimesse revocabili. I criteri della consistenza e durevolezza.

La sentenza di cui sopra tratta ovviamente degli articoli 67 e 70 L.F. e dei 2 requisiti richiesti dall’art. 67 L.F., la consistenza e la durevolezza.

Ricordiamo che sono revocabili solo le rimesse che hanno consentito di ridurre in modo consistente e durevole l’esposizione.

Per quanto concerne la consistenza, queste le precisazioni della sentenza “in assenza di precisazioni legislative in merito ai criteri in base ai quali verificare la consistenza”, appare ragionevole ritenere che il giudizio sulla stessa non debba essere assoluto ma relativo e che debba dunque tenere conto dell’andamento fisiologico del conto corrente: è necessario valutare ogni singola rimessa e verificare se la stessa abbia un’incidenza percentuale superiore alla media, sul saldo, calcolati l’importo medio delle rimesse ed il saldo medio del conto corrente post-rimessa (vedasi Tribunale di Milano 25.05.2009).

Per quanto concerne, invece, la durevolezza, si richiede una prolungata assenza di utilizzi della rimessa, ben difficile da riscontrare nella pratica.

Per capire meglio facciamo un esempio di come si determina una rimessa revocabile.

In primis è necessario premettere che:

  • i versamenti in conto corrente bancario assumono natura solutoria solo se avvenuti su conto scoperto;
  • i versamenti revocabili devono intervenire nel semestre antecedente al fallimento;
  • per considerare consistenti le rimesse non può farsi riferimento ad un criterio quantitativo assoluto ma a diversi elementi quali: 1) l’entità massima dell’esposizione; 2) l’entità media dei versamenti sia in entrata che in uscita; 3) l’ammontare del debito nel momento in cui la singola rimessa è stata effettuata;
  • per essere considerate durevoli le rimesse non devono essere compensate da successivi prelievi; in tal senso si deve far ricorso ad un criterio relativo dipendente dalla valutazione della frequenza delle movimentazioni del conto.

Dopo questa premessa è possibile individuare le fasi del procedimento per la determinazione delle rimesse revocabili.

  1. Individuare inizio periodo sospetto e se a tale data risulta provata la scientia decoctionis; diversamente individuare la data successiva in cui è provata. (Es. la conoscenza dello stato di insolvenza è stata individuata all’inizio del semestre antecedente il fallimento, ossia il 19.03.2017).
  2. Individuare la data e l’esposizione debitoria massima fra il periodo sospetto (nostro es. il 19.03.2017) e la data di fallimento (es. 19.09.2017). (Facendo riferimento al nostro esempio, sono stati individuati: 18.06.2017 ed € 19.508,80).
  3. Individuare l’esposizione debitoria alla chiusura del conto corrente o alla data del fallimento. (Nel nostro esempio il saldo alla data di fallimento risulta negativo – € 222,18).
  4. Verificare la sussistenza di rimesse consistenti (almeno pari al 10% della differenza fra le esposizioni di cui al punto 2 e 3) e durevoli (10 giorni, ma anche più o meno in relazione alla frequenza media) intervenute dopo il periodo sospetto e sommarle. (Nel nostro esempio la consistenza è calcolata al 10% di € 19.508,80 <<esposizione debitoria massima>> – € 222,18 <<saldo negativo>>, con il risultato di € 1.928,66, mentre la durevolezza della riduzione dell’esposizione debitoria è stata determinata in un brevissimo lasso di tempo <<lo stesso giorno della rimessa, risultata pari ad € 16.611,00>>).
  5. Agire in revocatoria per una somma non superiore alla differenza fra le esposizioni di cui al punto 2 e 3. (Nel nostro esempio la rimessa revocabile è di € 16.611,00, in quanto la somma delle rimesse revocabili è risultata pari ad € 16.611,00, mentre la somma massima revocabile ammonta ad € 19.286,62).

A parere dello scrivente, vi è giurisprudenza di merito (Trib. Torino, 20.02.2014 – Trib. Reggio Emilia, 31.08.2017) che ha tentato una soluzione a risolvere una problematica certamente di non facile soluzione.

In assenza di disposizioni chiare, qualsiasi giudizio, inerente l’azione di revocatoria fallimentare delle rimesse bancarie, diventa aleatorio, ma qualora la Curatela Fallimentare riesca a provare sia la conoscenza dello stato di insolvenza da parte dell’istituto di credito che le prove relative ai 2 requisiti richiesti per la revocatoria delle rimesse, la consistenza e la durevolezza, il giudizio ha buone possibilità di vedere un esito positivo.

 

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Fallimento: quali provvedimenti sono opponibili?

I provvedimenti giurisdizionali opponibili alla massa fallimentare.

In astratto, si deve partire dal seguente principio giuridico: la sentenza e i decreti ingiuntivi passati in giudicato alla data del fallimento sono vincolanti per la curatela e, conseguentemente, anche per il Giudice Delegato.

Nello specifico, il presente approfondimento, verrà limitato ai soli decreti ingiuntivi, non rappresentando particolari problemi ai fini della questione da affrontare, le sentenze.

Il perché è dato dalla diversa natura dei due provvedimenti.

La sentenza pone fine al processo (instaurato sul principio del contraddittorio pieno), in quanto decide su tutte le questioni, ossia i punti della controversia.
Inoltre, contiene sempre un accertamento: con essa il giudice elimina l’incertezza sulla realtà giuridica preesistente, dichiarandola come realmente è. Oltre all’accertamento, nel caso della sentenza di condanna (che è quella che di solito viene prodotta con la domanda di insinuazione al passivo del creditore), contiene il comando, rivolto alla parte soccombente, di tenere un determinato comportamento (dare, fare o non fare: ad esempio, pagare una determinata somma a risarcimento del danno).
In ogni caso, definendo in tutto o in parte la controversia, la sentenza svolge funzione decisoria, in contrapposizione ai provvedimenti giurisdizionali (nell’Ordinamento Italiano aventi la forma di ordinanza o decreto) che svolgono funzioni meramente preparatorie o complementari (cosiddetta funzione ordinatoria).

Il decreto ingiuntivo, invece, conclude un procedimento speciale civile, disciplinato dagli articoli 633 e ss. del Codice di Procedura Civile, contenente un accertamento con prevalente funzione esecutiva, giacché esso mira ad assicurare la rapida formazione del titolo esecutivo, al fine di recuperare coattivamente il proprio credito.
Lo stesso provvedimento viene emesso in assenza di contraddittorio (inaudita altera parte) in cui il creditore, previo deposito del ricorso presso la Cancelleria del giudice competente ex art. 637 c.p.c., chiede l’emissione di un decreto ingiuntivo allegando una prova scritta a sostegno delle proprie ragioni. Se il ricorso è fondato, il giudice emana il decreto ai sensi dell’art. 641 c.p.c. concedendo al debitore ingiunto un termine di 40 giorni per opporsi al decreto e instaurare un giudizio a contraddittorio pieno; caso contrario, decorso inutilmente il termine, il decreto si consolida e acquista efficacia esecutiva.

Da questa breve premessa sulla vocazione dei suddetti provvedimenti giurisdizionali, si possono evincere gli effetti che gli stessi producono nella procedura fallimentare.

Infatti, per quanto riguarda le sentenze, possiamo dire che, qualora la sentenza sia già passat in giudicato prima dell’apertura della procedura concorsuale, sia il curatore che il giudice delegato non potranno più contestare il diritto accertato.

In questo caso, al fine di provare il passaggio in giudicato della sentenza, per il creditore è sufficiente produrre la copia conforme della sentenza, anche non munita di formula esecutiva, e la relata di notifica (qualora si voglia stabilire il dies a quo per la decorrenza del termine breve per impugnare, mentre per la decorrenza del termine lungo fa fede la data di pubblicazione della sentenza) e, per alcuni Tribunali, anche l’attestazione da parte della Cancelleria dell’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza.

Nel caso, invece, della insinuazione fondata su sentenza emessa prima della dichiarazione di fallimento del debitore, ma non passata in giudicato al momento in cui si è verificato tale evento, si applica l’art. 96, comma 2, n. 3 L.F.. Questa norma, nonostante la non felice formulazione, indica che il credito portato da una sentenza non passata in giudicato va ammesso al passivo con riserva, in attesa, evidentemente dell’esito dell’appello, per cui, se il Curatore continua l’appello dopo l’interruzione per l’avvenuta dichiarazione di fallimento del debitore appellante, oppure decide di impugnare egli stesso la sentenza, deve ammettere il credito – l’intero credito portato dalla sentenza – con riserva, a nulla rilevando, l’intervenuta sospensione della provvisoria esecutività della sentenza, totale o parziale che sia, in quanto la provvisoria esecutività incide soltanto sulla possibilità di portare ad esecuzione il titolo e, una volta intervenuto il fallimento, comunque vige il divieto dell’esercizio di azioni esecutive così come disposto dall’art. 51 L.F..

Al contrario, proprio per la sua natura, è riconosciuto che il decreto ingiuntivo opposto, o del quale alla data del fallimento penda il termine per l’opposizione, anche se munito di provvisoria esecutività, non è equiparabile alla sentenza non passata in giudicato; in questo caso, infatti, non vale la deroga prevista dall’art. 96 L.F. (il decreto ingiuntivo opposto o non ancora scaduto non può essere ammesso con riserva).

Possiamo, invece, affermare che il decreto ingiuntivo una volta passato in giudicato prima della dichiarazione di fallimento è opponibile alla procedura.

Il problema è stabilire quando un decreto ingiuntivo è passato in giudicato.

Il Codice di Procedura Civile richiede chiaramente un preciso adempimento formale: unicamente la dichiarazione di esecutorietà ex art. 647 c.p.c. attribuisce al decreto ingiuntivo l’efficacia di giudicato sostanziale, ne consegue che il decreto ingiuntivo è opponibile al fallimento solo se è intervenuta la dichiarazione di esecutorietà in data anteriore a quella di fallimento.

Orbene, nei casi in cui la domanda di ammissione al passivo del creditore, è fondata sulla base di un decreto ingiuntivo, ancorché provvisoriamente esecutivo, notificato al debitore intimato, prima della dichiarazione di fallimento, ma sprovvisto di “visto di esecutorietà”, ai sensi e per gli effetti dell’art. 647 c.p.c., o apposto successivamente alla declaratoria fallimentare, come deve comportarsi il Curatore nella valutazione della domanda di ammissione presentata dal creditore? In questo caso gli Organi della procedura, quid iuris? Applicheranno le regole speciali previste dalla concorsualità tra i creditori nella valutazione del credito (art. 45 L.F.: “le formalità necessarie per rendere opponibili gli atti ai terzi, se compiute dopo la data della dichiarazione di fallimento, sono senza effetto rispetto ai creditori”) o, viceversa, potranno ritenere che l’apposizione del visto di esecutorietà, di cui all’art. 647 c.p.c., successiva alla dichiarazione di fallimento sia sufficiente a ritenere opponibile il decreto ingiuntivo?

Ebbene, la giurisprudenza, sia di legittimità che di merito, è ormai consolidata nell’estendere la portata letterale della previsione normativa di cui all’art. 647 c.p.c. “Esecutorietà per mancata opposizione o per mancata attività dell’opponente”, ritenendo definitivo e, dunque, opponibile alla procedura fallimentare, solo il decreto ingiuntivo che sia stato munito del provvedimento ex art. 647 c.p.c., anteriormente alla sentenza di fallimento, e questo, indipendentemente dalla circostanza che esso fosse o meno già provvisoriamente esecutivo.

Tale orientamento, già consolidato, si è ulteriormente rafforzato, alla luce delle sentenze della Cassazione (Cass. n. 1650/2014 e Cass. n. 12055/2015).

Con la prima delle due sentenze (Cass., 27.01.2014, n. 1650), il caso trattato si riferiva ad una banca, che una volta ottenuto il decreto ingiuntivo, provvisoriamente esecutivo, in seguito al quale iscriveva ipoteca giudiziale, dava inizio all’esecuzione forzata.

Successivamente, dichiarato il fallimento della debitrice-ingiunta, la stessa banca proponeva domanda di ammissione allo stato passivo del credito con privilegio ipotecario, depositando il provvedimento monitorio, non opposto dalla debitrice (tale credito non veniva ammesso e la banca faceva opposizione allo stato passivo, ai sensi e per gli effetti dell’art. 98 L.F.).

Il Tribunale di Treviso, adito ai sensi dell’art. 98 L.F., respingeva l’opposizione, deducendo la mancata prova della definitività, di cui all’art. 647 c.p.c., del decreto ingiuntivo.

La banca, contro tale provvedimento, secondo quanto disposto dall’art. 99, ult. comma, L.F., proponeva ricorso in Cassazione, lamentando che il Tribunale errava nell’aderire alla tesi della non opponibilità al fallimento del decreto ingiuntivo non dichiarato definitivo ex art. 647 c.p.c. anteriormente alla dichiarazione di fallimento, pur quando il decreto di esecutività esisteva, ancorché emesso successivamente alla sentenza dichiarativa di fallimento.

I Giudici della Suprema Corte, hanno confermato la decisione del Tribunale di Treviso, sulla base del principio consolidato, secondo il quale ”il decreto ingiuntivo, non dichiarato esecutivo ai sensi dell’art. 647 c.p.c., non ha efficacia di giudicato formale e sostanziale, ed è inopponibile alla procedura fallimentare, determinando la sopravvenuta dichiarazione di fallimento del debitore, l’inopponibilità alla massa dei creditori concorsuali del decreto ingiuntivo in precedenza emesso, se, all’epoca del fallimento, non sia intervenuta ancora la dichiarazione di esecutorietà di cui alla norma menzionata. Pertanto, il creditore opposto deve partecipare al concorso con gli altri creditori, previa riproposizione della domanda di ammissione al passivo fallimentare, con i conseguenti oneri probatori”.

Inoltre, altro elemento di valutazione, per il quale gli Ermellini hanno rigettato l’opposizione del creditore, confermando anche per questo motivo d’impugnazione la sentenza del Tribunale di Treviso, è riferito alla disposizione speciale dell’art. 45 L.F. sopracitato.

La seconda sentenza (Cass. n. 12055/2015) ribadisce che, ai fini dell’opponibilità del decreto ingiuntivo alla massa dei creditori concorsuali, il creditore debba necessariamente ottenere la dichiarazione di esecutorietà di cui all’art. 647 c.p.c. in data anteriore alla dichiarazione di fallimento. Ciò in quanto l’efficacia del giudicato formale e sostanziale per il decreto deriva dalla pronuncia di esecutorietà.

Riassumendo, si può affermare quanto segue:
• In senso positivo: il decreto ingiuntivo dichiarato esecutivo ex art. 647 c.p.c. in data anteriore alla dichiarazione di fallimento (in quanto passato in giudicato) costituisce titolo per l’ammissione del credito allo stato passivo, senza possibilità di esclusione, non essendo consentito al Curatore ed al Giudice Delegato rimettere in discussione l’esistenza del credito.
• In senso negativo: il decreto ingiuntivo non provvisto di formula di esecutorietà di cui all’art. 647 c.p.c. anteriore alla data di fallimento non gode di tale efficacia, con la conseguente inopponibilità alla massa se non dichiarato esecutivo prima della dichiarazione di fallimento.

Da quanto detto finora, si può pacificamente sostenere che dal quadro normativo, nonché dalla giurisprudenza consolidata sia di legittimità che di merito, il decreto ingiuntivo ex art. 633 c.p.c. è opponibile alla procedura fallimentare soltanto se è stato dichiarato esecutivo, ovvero sia stato munito del provvedimento di cui all’art. 647 c.p.c., anteriormente alla declaratoria fallimentare, in caso contrario è tamquam non esset, come se non esistesse in sede concorsuale, per cui il creditore se vuole essere ammesso deve fornire ulteriori elementi probatori a fondamento del proprio credito.

Infine, si segnala un ulteriore orientamento meno rigoroso, ma di indubbio interesse per l’operatore del diritto, elaborato soprattutto dalla dottrina e da parte della giurisprudenza di merito, secondo cui la pronuncia di esecutività (per intervenuta definitività) del decreto ingiuntivo prevista dall’art. 647 c.p.c. ha natura dichiarativa di un giudicato già verificatosi per la mancata proposizione dell’opposizione nei termini di legge.

In buona sostanza, sulla scia di tale orientamento potrebbe ritenersi sufficiente, ai fini dell’ammissione al passivo, la produzione del decreto ingiuntivo completo della relata di notificazione e di attestazione della Cancelleria (del Giudice che ha emesso il decreto) ex art. 124 disp. att. c.p.c., in ordine alla mancata opposizione, assumendo in questo modo il provvedimento di cui all’art. 647 c.p.c., apposto successivamente alla dichiarazione di fallimento, un rilievo meramente formale.

Aderiscono a tale orientamento, il Tribunale di Napoli e il Tribunale di Nola.
Chi scrive, invece, aderisce all’orientamento più restrittivo, sia perché tale indirizzo giurisprudenziale deriva dalla teoria generale che attribuisce natura “costitutiva” (o “dichiarativo-costitutiva”) alla definitività del decreto ingiuntivo data all’attestazione di cui all’art. 647 c.p.c., sia per la conseguente applicazione, nella fattispecie, dell’art. 45 L.F..
La ratio di questa norma è proprio quella di tutelare tutti i creditori che partecipano al concorso, i quali sono assistiti dalla par condicio creditorum.

Esecutorietà del decreto ingiuntivo.

Esecutorietà ed esecutività sono concetti equiparati.

È opportuno, però, non confondere la provvisoria esecutività/esecutorietà del decreto con la dichiarazione di esecutorietà. Infatti, il decreto provvisoriamente esecutivo attribuisce al creditore il potere di agire con l’esecuzione forzata sul patrimonio del debitore. In questo modo, il titolo diventa il presupposto per l’esercizio dell’azione esecutiva, indipendentemente dall’accertamento del diritto sostanziale sottostante.

In realtà, un decreto provvisoriamente esecutivo può anche essere opposto e la provvisoria esecutività può mantenersi anche in pendenza di opposizione. Pertanto, si comprende come lo stesso non sia sufficiente a provare il diritto sostanziale che sta alla base del decreto.

Il decreto di esecutorietà di cui all’art. 647 c.p.c. è quello che sancisce che il decreto è passato in giudicato ed è un atto formale che la giurisprudenza ormai consolidata della Suprema Corte ritiene imprescindibile per l’opponibilità alla procedura fallimentare.

Inoltre, il Tribunale Fallimentare non ha il potere di accertare, neanche incidenter tantum, la tardività della proposizione del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo. Di conseguenza, il decreto ingiuntivo, non dichiarato esecutivo ai sensi dell’art. 647 c.p.c., non ha efficacia di giudicato formale e sostanziale e non è opponibile al fallimento.

L’art. 647 c.p.c., inoltre, prevede espressamente che il soggetto legittimato a rilasciare la dichiarazione di esecutorietà sia lo stesso giudice che ha emesso il decreto.
Nella prassi di alcuni Tribunali, invece, accade che sia la Cancelleria a rilasciare una sorta di visto di mancata opposizione o mancata costituzione dell’opponente nei termini.

Ciò crea non pochi problemi, perché ad una interpretazione letterale della norma, tale prassi non risulta corretta.

Il controllo effettuato dal Cancelliere, ai sensi degli articoli 124 e 153 disp. att. c.p.c., non può essere equiparato a quello del Giudice. L’attività di quest’ultimo, al contrario, valuta la regolarità dell’instaurazione del contraddittorio tra le parti, e che la mancanza di opposizione sia dipesa da una scelta del debitore ingiunto. Consiste, pertanto, “in una vera e propria attività giurisdizionale di verifica del contraddittorio che si pone come ultimo atto del giudice all’interno del procedimento d’ingiunzione e a cui non può surrogarsi il Giudice Delegato in sede di accertamento del passivo”.

Pertanto, si raccomanda a chi voglia insinuare al passivo fallimentare e rendere opponibile alla massa un credito portato da decreto ingiuntivo avente efficacia di giudicato, di ottenere il decreto di esecutorietà di cui all’art. 647 c.p.c..

La cancelleria rilascerà, su apposita richiesta, copia conforme del ricorso, del decreto ingiuntivo e del decreto di esecutorietà ex art. 647 c.p.c. che ne fa parte integrante.

Spese legali decreto ingiuntivo ammesse nel passivo fallimentare.

In ordine alle spese liquidate nel decreto ingiuntivo in danno del fallito, si precisa che riguardano la fase contenziosa cognitoria e non quella esecutiva, per cui non possono godere di alcun privilegio, giacché l’unico privilegio che assiste il credito per spese giudiziarie è quello di cui agli articoli 2755 e 2770 c.c. limitato alle spese di natura esecutiva e conservativa.

Quindi, se il decreto ingiuntivo è passato in giudicato al momento del fallimento, le spese in esso liquidate vanno ammesse, ma in chirografo.

Mentre, come già detto, se alla data del fallimento il decreto ingiuntivo non era ancora definitivo, lo stesso, anche se dichiarato provvisoriamente esecutivo, è inopponibile al fallimento ed impone al creditore di far valere le sue ragioni in sede di ammissione al passivo, posto che il provvedimento monitorio è tamquam non esset; di conseguenza vanno escluse dallo stato passivo le spese liquidate nel decreto (non vanno, cioè, ammesse neanche in chirografo) e, si ribadisce, vengono meno, nei confronti della massa, anche gli eventuali effetti dell’iscrizione ipotecaria ottenuta dal creditore in base al decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo, indipendentemente dall’epoca dell’iscrizione.

Interessi riconosciuti nel decreto ingiuntivo e la loro ammissione in sede concorsuale.

Qual è, invece, la sorte degli interessi moratori di cui al D. Lgs. n. 231/2002 nel fallimento?

Il D. Lgs. n. 231/2002, come noto, disciplina la maturazione degli interessi moratori relativamente a rapporti di credito/debito traenti origine da “transazioni commerciali”, con ambito di applicazione definito e limitato dagli articoli 1 e 2.

La normativa in esame, laddove concretamente applicabile, in quanto avente carattere speciale, deroga così alla disciplina codicistica (avente carattere generale) in ambito di mora del debitore, decorso e tasso di interesse, e segnatamente:
• ai sensi dell’art. 4, comma 1, D. Lgs. 231/2002, si ha decorso degli interessi dal giorno successivo a quello di scadenza dell’obbligazione, ipso iure, senza che sia necessaria costituzione in mora ex art. 1219 c.c.;
• ai sensi dell’art. 5 del predetto testo di legge, è prevista una sensibile maggiorazione del tasso legale periodicamente determinato.

La normativa in esame, adottata in attuazione alla Direttiva 2000/35/CE, ha quale ratio la lotta contro i ritardi nei pagamenti in seno alle transazioni commerciali. Essa si pone così l’obiettivo di disincentivare l’inadempimento (ritardato adempimento) nei pagamenti, acuendo la gravosità delle conseguenze patrimoniali in capo al debitore. Al contempo, introduce una forma di tutela per il creditore; quest’ultimo, infatti, in presenza di altrui inadempimento, al fine di medio tempore fronteggiare adeguatamente le proprie esposizioni debitorie, è di fatto costretto a ricorrere a linee di credito, sostenendo così esborsi a titolo di interessi passivi. Il tasso maggiorato contribuisce così a tenere indenne il creditore da tale forma di pregiudizio.

Invero, l’art. 1, comma 2, lett. a), D. Lgs. 231/2002 esclude l’applicazione del Decreto alle ipotesi di “debiti oggetto di procedure concorsuali aperte a carico del debitore”.

L’interpretazione più stringente di tale norma è nella direzione di escludere in toto l’ammissione al passivo fallimentare degli interessi, laddove dovuti ai sensi del suddetto Decreto.

Una diversa lettura, invece, vede nella disposizione in esame un divieto al riconoscimento del diritto all’ammissione al passivo di interessi al tasso maggiorato (nelle ipotesi in cui è dovuto) a decorrere dal momento della dichiarazione di fallimento; fermo il diritto a vedersi riconosciuto tale diritto per gli interessi decorsi antecedentemente. Tale interpretazione, oggi prevalente, sembra essere preferibile a quella più restrittiva; quest’ultima, infatti, porrebbe il credito al quale è astrattamente applicabile il D. lgs. 231/2002 addirittura in una posizione di sfavore rispetto ad un credito “ordinario”, così chiaramente contrastando la ratio legis del Decreto.

Di tale avviso, peraltro, la Giurisprudenza del Foro di Milano, della quale costituisce fulgido esempio il Decreto del Presidente della Sezione Fallimentare, dott. Quatraro, n. 833/08 del 21.01.2008, secondo il quale: “… con il D. Lgs. 231/2002 il legislatore ha dato applicazione nel nostro ordinamento alla direttiva europea adottata in materia di lotta contro i ritardi dei pagamenti nelle transazioni commerciali. L’art. 1 del citato decreto delimita l’ambito di applicazione del decreto ad ogni pagamento effettuato a titolo di corrispettivo in una transazione commerciale. È previsto che tale disposizione non si applichi ai debiti oggetto di procedure concorsuali aperte a carico del debitore. Appare indubbio che gli interessi non siano dovuti per il periodo successivo all’apertura della procedura concorsuale e, coerentemente, il ricorrente ha formulato la propria domanda limitando la richiesta del riconoscimento degli interessi dalla data di scadenza delle fatture fino al fallimento. Viceversa, prima della dichiarazione di fallimento, le obbligazioni contratte dal debitore producono, ai sensi dell’art. 4 del citato Decreto, interessi moratori automaticamente, senza necessità di formale messa in mora, dal primo giorno successivo al mancato pagamento. Proprio la ratio della normativa esaminata è stata quella di approntare una più efficace tutela a fronte dei ritardi nell’adempimento delle transazioni commerciali sicché alla produzione degli interessi dipendenti corrisponde il perfezionarsi del diritto alla obbligazione accessoria. La natura sostanziale della norma esaminata e il suo tenore letterale non consentono una interpretazione tale da condurre all’affermazione di una inopponibilità alla massa dei creditori di interessi moratori da obbligazione pecuniaria già maturati”.

In sintesi, pertanto, si ritiene di condividere l’impostazione secondo la quale l’art. 1 D. Lgs. 231/2002 non esclude la maturazione degli interessi oggetto del medesimo Decreto (rectius, il diritto al loro riconoscimento in sede fallimentare), se non limitatamente a quelli maturati successivamente alla dichiarazione di fallimento dell’impresa debitrice.

Ciò detto, nessun profilo di problematicità si pone in relazione a quei creditori non considerati privilegiati in seno alla procedura fallimentare (chirografari). L’art. 55 L.F., infatti, prevede quale regola generale la sospensione della maturazione degli interessi, siano essi legali o convenzionali, agli effetti della procedura concorsuale, a far data dalla dichiarazione di fallimento. Ciò ad eccezione che i crediti siano garantiti da ipoteca, pegno o privilegio. Ecco allora che il momento della cessazione di operatività della disciplina di cui al D. Lgs. 231/2002, nei termini predetti, coincide sostanzialmente con la sospensione della maturazione degli interessi. Sicché non è neppure da porsi il problema circa la sorte successiva alla declaratoria fallimentare.

Diverso, invece, il caso in cui il creditore sia munito di privilegio. In tal caso, ad avviso dello scrivente, si pone un problema interpretativo concernente l’interazione normativa tra l’art. 1, comma 2, lett. a), D. Lgs. n. 231/2002 da un lato, ed il combinato disposto di cui agli articoli 54 e 55 L.F. dall’altro.

Gli articoli 54 e 55 L.F., infatti – in via generale e senza alcun riferimento alla natura della transazione determinante l’insorgenza del credito – dispongono che per i crediti privilegiati non opera la suddetta sospensione della maturazione degli interessi, la quale prosegue sino alla data di deposito del progetto di riparto, allorquando questo preveda una soddisfazione (seppur parziale) delle ragioni creditorie.

Di contro, come esposto, l’art. 1, comma 2, lett. a), D. Lgs. n. 231/2002, ut supra interpretato, per i crediti frutto di transazione commerciale stabilisce l’inapplicabilità della disciplina sugli interessi di cui al Decreto, successivamente alla dichiarazione di fallimento.

Si pone dunque la questione, relativamente ai crediti privilegiati e determinati da transazioni commerciali, di quale sia la sorte degli interessi successivamente alla dichiarazione di fallimento. In dettaglio, sorge l’interrogativo se prosegua la maturazione o meno (sino alla data di deposito del riparto). In caso di risposta affermativa, vi è da verificare il tasso applicabile.

L’impostazione che fino a poco tempo fa era prevalente era quella che poneva l’accento principalmente sul disposto normativo di cui all’art. 1, comma 2, lett. a), D. Lgs. 231/2002; in ragione di essa, anche allorquando il credito fosse stato privilegiato, in virtù della predetta norma non vi sarebbe stato spazio per riconoscere alcun genere di interesse successivamente alla declaratoria fallimentare.

Infatti, poiché relativamente alla disciplina degli interessi di cui alle transazioni commerciali si applica il D. Lgs. 231/2002, il venir meno dell’operatività di questo determinerebbe il venir meno del riconoscimento del diritto a concorrere al passivo per gli interessi maturati successivamente.

Tale interpretazione non appare tuttavia sistematicamente corretta, e ciò per un duplice ordine di ragioni:
• il D. Lgs. 231/2002 prevede una disciplina, in tema di interessi, a carattere speciale, derogatoria rispetto alla disciplina generale. Il venir meno dell’operatività della legge speciale – in seguito alla dichiarazione di fallimento, ai sensi dell’art. 1, comma 2, lett. a), D. Lgs. 231/2002 –, in virtù dei principi dell’Ordinamento, dovrebbe così donare nuova rilevanza alla normativa generale. A tale ambito appartiene l’art. 54 L.F. (anche nella sua interpretazione relazionale con l’art. 55 L.F.), che come detto non opera alcuna distinzione circa l’origine del credito (pertanto, sotto tale aspetto, risultando “generale”);
• l’interpretazione richiamata appare contrastante con la ratio del D. Lgs. 231/2002, in quanto, a parità di privilegio, il creditore “da transazione commerciale” risulterebbe addirittura svantaggiato rispetto al creditore “generico”. Infatti, il primo vedrebbe un arresto della maturazione degli interessi al momento del fallimento della debitrice, mentre il secondo avrebbe tale effetto spostato nel tempo alla pubblicazione del progetto di riparto. Il pregiudizio per il creditore “da transazione commerciale” sarebbe evidente.

In considerazione di ciò, appare corretta una soluzione che dia applicazione all’art. 54 L.F. anche laddove si sia in presenza di credito (privilegiato) da transazione commerciale.

In tal senso, si è consolidata sia la giurisprudenza di merito che di legittimità.

Concludendo, in sintesi, dovrà essere riconosciuta l’ammissione al passivo fallimentare (con privilegio di grado pari a quello di cui è munito il credito in sorte capitale) dei seguenti interessi:
• interessi moratori ex art. 5 D. Lgs. 231/2002 dalla data di scadenza dell’obbligazione pecuniaria, sino alla dichiarazione di fallimento;
• interessi al tasso legale ordinario (ovvero, dove rinvenibile, al tasso convenzionale) dalla dichiarazione di fallimento sino alla data di deposito del riparto, dal quale il creditore risulti almeno parzialmente soddisfatto.

Credito contestato sub Judice.

Correlato all’argomento appena trattato, vi è un caso particolare da dover affrontare che è di particolare rilevanza: l’istanza di fallimento fondata su credito sub judice.

È il caso delle iniziative concorsuali che il creditore intraprende dopo aver ottenuto una sentenza già esecutiva ex lege, impugnata, o un decreto ingiuntivo, opposto ma dotato della provvisoria esecuzione, rimasta infruttuosa per l’inutile tentativo di sottoporre ad esecuzione i beni del debitore.

Una recente sentenza della Corte di Cassazione, I° Sezione Civile, n. 6914 del 07.04.2015, resa nell’ambito di un tema spesso affrontato nelle aule di giustizia a motivo di opposizione alle istanze di fallimento fondate su un unico credito, peraltro sub judice, in quanto contestato, afferma il seguente principio: “Per ravvisare lo stato di insolvenza, ai fini della dichiarazione di fallimento del debitore, non occorre l’accertamento definitivo del credito, essendo sufficiente la verifica di uno stato di impotenza economico-patrimoniale, idoneo a privare tale soggetto della possibilità di far fronte, con mezzi normali, ai propri debiti”.

Ed invero, la giurisprudenza è molte volte intervenuta per definire il concetto di insolvenza, indefettibile condizione per la dichiarazione di fallimento, e la sentenza in rassegna si inserisce in tale dibattito atteso che il quesito formulato alla Suprema Corte, riguardava proprio l’interrogativo “se l’inadempimento di un unico credito, contestato in sede giudiziale e quindi non definitivo, integri il presupposto oggettivo del fallimento”.

Orbene, sulla questione vi sono interpretazioni abbastanza convergenti, certune (come la sentenza della S.C. in commento) arricchite da precisazioni e chiarimenti, ma tutte caratterizzate da un denominatore comune: condizione imprescindibile per la dichiarazione di fallimento è una generale situazione di difficoltà economica riguardante l’impresa, non momentanea o transeunte, che indipendentemente dai motivi, genera la impossibilità di far fronte regolarmente alle obbligazioni assunte (cfr. Cass. n. 4789 del 04.03.2005; Cass. n. 5215 del 27.01.2008).

Deve cioè trattarsi di una condizione patologica dell’impresa (si dice “in prognosi irreversibile”), tale da impedire di onorare i propri debiti.
L’art. 5 della Legge Fallimentare parla, infatti, di “inadempimenti o altri fatti esteriori” a significare, quindi, che gli inadempimenti non sono l’essenza dello stato di insolvenza, potendo questo derivare da altre circostanze esteriori (fuga, latitanza dell’imprenditore, etc.).

In buona sostanza, la lettura di detta disposizione normativa induce a ritenere che, ai fini della ricorrenza dello stato di insolvenza, non occorre verificare la presenza di inadempimenti, ma la capacità dell’imprenditore di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni, come recita testualmente la Legge Fallimentare.

Rebus sic stantibus, è più corretto affermare che lo scrutinio sul riscontro della condizione di insolvenza prescinde (come chiarito dalla Cassazione con la sentenza in commento) da ogni indagine sulla effettiva esistenza ed entità del debito, il cui riscontro, insieme agli atti esteriori, assurge a circostanza sintomatica del dissesto economico (cfr. Cass. n. 576 del 15.01.2015).

In conclusione, lo stato di insolvenza può ritenersi escluso nel caso di inadempimento di un credito contestato e soggetto ad accertamento giudiziale, inidoneo a determinare l’impotenza patrimoniale non transeunte al regolare adempimento delle obbligazioni assunte dal debitore, purché poi detta circostanza possa evincersi dai bilanci offerti in comunicazione al Giudice (v. ex multis Tribunale di Reggio Emilia, 28.06.2006; Corte di Appello di Firenze, 07.02.2012).
Ugualmente può dirsi allorché, pur in presenza di un credito contestato, detta impotenza possa ricavarsi da altri elementi come la chiusura di tutti i rapporti da parte degli istituti di credito o la presentazione di ricorsi monitori da parte degli stessi, elevazione di numerosi protesti, i quali danno contezza che la società versi in uno stato irreversibile di incapacità a far fronte ai propri impegni economici (Tribunale di Tivoli n. 33 del 21.07.2010). Da segnalare, in tale contesto, la particolare pronuncia del Tribunale di Mantova del 26.02.2015, secondo la quale “dinanzi ad un credito non portato da titolo definitivo e contestato dal debitore, la cui contestazione è sub judice, il Tribunale non può che rigettare l’istanza di fallimento in quanto è carente la prova della esistenza del credito che attribuisce all’istante la legittimazione ad attivare la procedura per la dichiarazione di fallimento e non potendo valutare il Giudice prefallimentare la fondatezza nel merito delle contestazioni stesse mosse alle ragioni del creditore”.

Purtuttavia, laddove dagli atti risultasse una situazione di insolvenza allarmante, desumibile dall’entità dei debiti risultanti dai bilanci e dalla pendenza di procedure esecutive immobiliari, il Tribunale non potrebbe dichiarare il fallimento ma dovrebbe trasmettere gli atti al P.M. per le conseguenti attività di competenza, ossia per la eventuale richiesta di fallimento ex art. 7 n. 2 L.F..

Una decisione, questa, che appare abbastanza peculiare poiché se coincidente, nella prima parte, con il consolidato indirizzo giurisprudenziale, risulta isolata (a quanto consta) e contraria al prevalente orientamento della Cassazione (esplicitato anche attraverso la decisione in rassegna), che opina per la sussistenza dello stato di insolvenza nella ipotesi di specie, ricavabile da ulteriori elementi incidentalmente verificati a tal fine dal Giudice, sulla base degli elementi messi a sua disposizione, quali le esposizioni debitorie risultanti nei bilanci o la esistenza di plurimi protesti.

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diritto

Cancellazione dall’elenco falliti: un esempio

Oggi ti voglio riportare un provvedimento di cancellazione dell’iscrizione di una persona nel registro dei falliti che abbiamo ottenuto recentemente dal tribunale di Potenza.

Riceviamo spesso richieste di cancellazione di queste iscrizioni e richieste di chiarimenti riguardo alle stesse, così ho pensato che potesse esserti utile vedere un esempio di provvedimento a riguardo.

In questo caso, il procedimento è durato circa sei mesi, ma ti ricordo che i tempi sono variabili a seconda della sede del tribunale competente, che è determinato per legge e non si può scegliere a proprio piacimento.

Se tu o un tuo familiare o una persona che conosci avete bisogno di una pratica come questa, potete valutare il prodotto relativo, descritto in questa scheda del nostro store legale.

La pratica relativa è poi meglio descritta in questa pagina.

«TRIBUNALE DI POTENZA

Il Giudice dell’Esecuzione dott.ssa Flavia Del Grosso,

letta la richiesta presentata nell’interesse di xxx, depositata in data 22.1.2018, volta ad ottenere l’ordine di cancellare dal sistema informativo del casellario l’iscrizione della sentenza pronunciata dal Tribunale di Melfi in data xxx n. xxx, che aveva dichiarato il fallimento della xxx e, conseguentemente, dell’istante quale socio illimitatamente responsabile;

letti gli atti, osserva quanto segue:

Va in primo luogo premessa l’illegittimita? sopravvenuta dell’iscrizione nel casellario giudiziale della sentenza dichiarativa di fallimento (per effetto della pronuncia della Corte Costituzionale n. 39/2008 e del D.P.R. n. 313/02 come modificato dal D. lgs n. 169/07), e va altresi? ribadito che la competenza sulle questioni concernenti le iscrizioni e i certificati del casellario giudiziale spetta Tribunale del luogo ove ha sede l’ufficio nel cui ambito territoriale e? nato l’interessato (v. art. 40 D.P.R. cit., sostanzialmente richiamante l’abrogato art. 689 c.p.p.).

Ritenuto che l’attribuzione all’autorita? giudiziaria della competenza a decidere sulle controversie in materia di iscrizione comporti altresi? il potere di ordinare l’eliminazione delle annotazioni che non possono essere iscritte o che vanno eliminate, va poi detto che nel caso in esame, relativo all’iscrizione di sentenza dichiarativa di un fallimento ormai chiuso, va senz’altro ordinata l’eliminazione di detta iscrizione (v. in tal senso, Cass. Pen. Sez. I, Sent. n. 8317 del 16.12.09).

Ed invero, ripercorrendo le successive modifiche apportate nel tempo alla specifica materia, occorre partire dal testo previgente della legge fallimentare, che faceva derivare automaticamente dalla dichiarazione di fallimento e dalla conseguente iscrizione nel pubblico registro dei falliti la perdita dei diritti civili del fallito fino alla definitivita? della sentenza di riabilitazione civile e alla pronuncia giudiziale di cancellazione dell’iscrizione nel registro. Mai essendo stato istituito il Pubblico registro dei falliti, la predetta pubblicita? era realizzata dall’iscrizione nell’Albo dei falliti e dall’iscrizione della sentenza nel casellario giudiziale.

Il D. lgs n. 5/2006, nel tracciare una riforma organica del fallimento, ha novellato anche in relazione a tali aspetti specifici, sopprimendo l’albo dei falliti, e sostituendo l’istituto della riabilitazione civile del fallito con quello dell’esdebitazione, con immediati riflessi anche sul regime delle iscrizioni nel casellario giudiziale. In particolare, la vecchia normativa (che prevedeva l’iscrizione per estratto dei provvedimenti giudiziari che dichiarano il fallimento; di quelli di omologazione del concordato fallimentare, di chiusura del fallimento e di riabilitazione del fallito) doveva ritenersi implicitamente abrogata per la parte che menzionava riscrizione della riabilitazione.

La disciplina transitoria prevedeva tuttavia che i ricorsi per dichiarazione di fallimento e le domande di concordato fallimentare depositate prima dell’entrata in vigore del decreto, nonche? le procedure di fallimento e concordato fallimentare pendenti alla stessa data, andassero definiti secondo la legge anteriore.

Si rendeva pertanto necessario l’intervento correttivo del Digs 169/07, che abrogava, tra l’altro, le norme del D.P.R. 313/02 riferite all’iscrizione nel casellario della sentenza di fallimento, in particolare quelle che disciplinavano l’iscrizione dei provvedimenti giudiziari inerenti alla dichiarazione di fallimento; l’eliminazione dell’iscrizione della sentenza dichiarativa di fallimento solo in caso di revoca definitiva dello stesso; la non inseribilita? nei certificati della sentenza dichiarativa di fallimento in caso di riabilitazione; la non iscrizione nel certificato penale richiesto dall’interessato (e dalle pubbliche amministrazioni) delle sentenze di fallimento.

Il D. lgs n. 169/07 precisava poi che per le procedure concorsuali aperte dal 16.01.06, il richiamo, contenuto nel D.P.R. n. 313/02 alla riabilitazione doveva intendersi riferito alla chiusura del fallimento, e che le nuove disposizioni si applicavano ai procedimenti per dichiarazione di fallimento pendenti ovvero aperti successivamente.

La C. Cost, con la sentenza n. 39/2008, ha dichiarato poi l’illegittimita? costituzionale dell’art. 50, R.D. 267/42 (che istituiva il pubblico registro dei falliti collegando la permanenza delle incapacita? connesse allo status di fallito alla predetta iscrizione) e dell’art. 142 (che subordinava la cancellazione dell’iscrizione de qua e la cessazione delle incapacita? solo alla definitivita? della sentenza di riabilitazione) evidenziando il contrasto con l’art. 3 Cost, della previsione che determinati effetti sanzionatori del fallimento permanessero anche “dopo la chiusura del fallimento (…’’senza correlarsi alla protezione di interessi meritevoli di tutela”).

Successivamente, anche il problema concernente l’asserita impossibilita? di cancellare dal Casellario giudiziale l’iscrizione di pregresse sentenze dichiarative di fallimento se non in caso di revoca, veniva portato all’attenzione della Corte costituzionale, che rilevava tuttavia la possibilita? di un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme, alla luce delle modifiche legislative via via intervenute.

Ed in effetti, valutando organicamente la nuova disciplina, puo? considerarsi pacifico da un lato che le sentenze dichiarative di fallimento non debbano piu? essere iscritte nel casellario giudiziale (essendo la pubblicita? in ogni caso assicurata dall’iscrizione nel registro delle imprese), e dall’altro che a carico del fallito non possano piu? conseguire effetti personali che si protraggano anche dopo la chiusura del fallimento.

Si osserva peraltro che l’abrogazione della riabilitazione civile priva di fatto il fallito della possibilita? di conseguire un’attestazione di comportamenti idonei a bilanciare l’annotazione del fallimento. In conclusione, il permanere, per i fallimenti pregressi e dopo la loro chiusura, di un’iscrizione pregiudizievole (ancorche? priva di effetto) ma non eliminabile, appare ingiustificato e inutilmente discriminatorio.

Trasferendo queste considerazioni sul piano concreto, si osserva che ristante e? nato a Melfi, ma che il Tribunale dello stesso Comune e? stato soppresso, per cui la competenza a decidere sull’istanza appartiene al Tribunale di Potenza.

Si rileva, inoltre, che in data 14.3.2001 il suddetto Tribunale di Melfi omologava con sentenza n. xxx il concordato fallimentare a chiusura della procedura in oggetto (cff certificato della cancelleria della sez. fallimentare del Tribunale di Potenza in atti).
Per tutto quanto sopra esposto, dunque, la domanda puo? trovare accoglimento, dovendosi pertanto ordinare l’eliminazione dal Casellario giudiziale della iscrizione della sentenza di fallimento del ricorrente xxx.

PQM

dispone che dal certificato del casellario giudiziale relativo a xxx, nato a Melfi il xxx, sia cancellata l’iscrizione relativa alla sentenza pronunciata dal Tribunale di Melfi in data xxx n. xxx che aveva dichiarato il fallimento del xxx quale socio

illimitatamente responsabile della xxx. Si comunichi a cura della Cancelleria.

Potenza, 13.2.2018

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Iscrizione nella centrale rischi: può essere dannosa?

dovrei rilevare l’attività di mio suocero, una srl unipersonale aperta da dieci anni; nella Centrale Rischi della Banca d’Italia risulta “Garanzia non attivata: Rapporti non contestati” per una fidejussione bancaria che ho prestato a favore della ditta di mio marito (una srl unipersonale con fallimento chiuso nel 2008); volevo sapere se questa segnalazione può comportare problemi con la nuova società.

È una domanda un po’ troppo generica per avere molta utilità, avresti dovuto essere più specifica e dire, ad esempio, quali sono le operazioni, almeno le prime o le più importanti, che devi compiere una volta che avrai preso in carico la società.

Ad ogni modo, in generale si può dire che questo codice non significa molto.

Rapporti non contestati significa semplicemente che il credito dovrebbe essere esigibile, garanzia non attivata che a suo tempo la fideiussione non è stata escussa, non so bene a questo punto per quale motivo, dal momento che il fallimento avrebbe in effetti potuto avere interesse ad escuterla.

Se il fallimento, peraltro, è già stato chiuso, ormai addirittura da dieci anni, è probabilmente da escludere che la garanzia possa essere attivata ora. È vero che con la chiusura del fallimento, riprendono – salvo esdebitazione o altri istituti speciali – vigore le azioni individuali dei creditori rimasti insoddisfatti, ma, al netto dei motivi per cui la garanzia non è stata escussa a suo tempo (che, come accennato, sarebbero da valutare), comunque potrebbero esserci altri fatti estintivi, come ad esempio, per eccellenza, la prescrizione decennale.

In dipendenza di quello che dovrai fare con la nuova società, si potrebbe però determinare l’opportunità di valutare se possibile rimuovere questa iscrizione, cosa cui si dovrebbe poter procedere nel momento in cui il credito non è più esigibile per qualsiasi motivo come ad esempio quelli indicati nel paragrafo precedente.

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Fallimento risultante dopo recesso da amministratore: che fare?

Ho un problema con la banca che non mi vuole aprire più un conto corrente perché mi risulta un fallimento un una azienda in cui io non ero unico amministratore e in cui avevo il 25% delle quote, la società è stata messa in liquidazione perché è stato fatto un decreto ingiuntivo d parte di un fornitore che vantava un credito, premesso che io non ero più amministratore da diversi anni e che mi ero dimesso mandando come previsto dallo statuto una comunicazione (raccomanda) alla sede legale alla camera di commercio allo studio che gestiva la contabilità e alla sede operativa. Questa non è stata presa in carico per alcuni motivi, poi la stessa cosa è stata fatta in un secondo momento presso un’altra camera di commercio dove l’amministratore in carica e di fatto aveva spostato la sede legale, fatto sta che io risulto ancora in carica e mi risulta un fallimento con un procedimento in corso con problemi sulla mia attività imprenditoriale. Come posso fare? mi può essere di aiuto?

Ci possiamo sicuramente guardare, approfondendo la situazione in diritto e soprattutto in fatto, ovviamente senza alcuna garanzia, purtroppo, di riuscire ad ottenere un risultato perché dipende proprio da quello che troveremo mentre ricostruiamo quello che è successo.

Tu dici che la prima raccomandata di dimissioni o recesso non è stata presa in carico per «alcuni motivi», senza però dire di quali motivi si tratterebbe, quando invece è proprio questo l’aspetto che si dovrebbe iniziare ad approfondire.

Può darsi che tu risulti ancora in carica per motivi corretti, oppure che questa risultanza sia un errore dovuto alla mancata annotazione del tuo recesso esercitato correttamente.

Per cui la prima cosa da fare è esaminare la documentazione del caso, in modo completo, e vedere che cosa se ne può inferire.

Se credi, valuta l’acquisto di una consulenza per fare questo lavoro, da noi o da un altro avvocato di tua fiducia.