Nel corso del processo penale, può accadere che, a causa dei tempi lunghi per giungere alla pronuncia della sentenza, il reato finisca per cadere in prescrizione.
La prescrizione dei reati è un tema molo caldo nel dibattito politico e sociale attuale, ma può esser utile ricordare in cosa consiste. Prendiamo l’esempio del bambino che ha fatto una marachella: non serve essere laureati in pedagogia per capire che non ha alcun senso punirlo dopo che sia trascorso molto tempo da quel fatto. Un rimprovero, infatti, ha senso, e soprattutto un’utilità, a condizione che sia inflitto nell’immediato, quando il bambino può associare quell’ammonimento all’errore commesso, e capire che, in caso di nuove marachelle come quella, sarà soggetto a nuove punizioni.
La prescrizione risponde alla stessa logica: rappresenta infatti il termine entro il quale un reato può essere perseguito dalla legge, e la sua finalità è quella di evitare la celebrazione di processi quando lo Stato non ha più interesse a punire il fatto e a reinserire il reo, essendo trascorso troppo tempo.
Secondo le norme che regolano il processo penale, pertanto, quando il giudice si accorge che sono decorsi i termini di prescrizione del reato, non può più decidere nel merito, ovvero pronunciarsi sulla responsabilità penale dell’imputato (a meno che non risulti evidente la sua innocenza), ma deve pronunciare sentenza dichiarativa di intervenuta estinzione del reato per prescrizione, con conseguente proscioglimento dell’imputato. Ciò significa che, se anche le prove raccolte nel corso del processo conducono astrattamente a ritenere colpevole l’imputato, il giudice non potrà in ogni caso condannarlo. Questo risultato è indubbiamente positivo per quest’ultimo, ma che ne è delle (legittime) ragioni della persona che abbia subito un danno per effetto del reato?
A questo proposito, il nostro sistema processuale tutela le ragioni del danneggiato dal reato, che si sia costituito PARTE CIVILE nel processo per ottenere il risarcimento del danno subito: l’art. 576 cod. proc. pen., infatti, prevede la possibilità per la parte civile di impugnare la sentenza di proscioglimento, ma “ai soli effetti della responsabilità civile”: ciò significa che la parte civile non può chiedere, con tale impugnazione, una modifica della decisione penale (che è una prerogativa riservata in via esclusiva all’iniziativa del PM), ma può richiedere al giudice una rinnovata valutazione sulla responsabilità dell’imputato, tale da consentire una condanna alle restituzioni e/o al risarcimento del danno.
Nel caso in cui, invece, il decorso dei termini di prescrizione intervenga quando il processo è in una fase più avanzata (ad esempio quando l’imputato, condannato in primo grado, abbia fatto impugnazione contro tale sentenza, e si stia quindi celebrando il giudizio di appello), trova applicazione l’art. 578 cod. proc. pen.
Tale disposizione prevede appunto che, per non privare di tutele la parte civile, il giudice dell’impugnazione non possa limitarsi a dichiarare l’estinzione del processo per intervenuta prescrizione del reato, ma debba espressamente valutare i profili di responsabilità penale dell’imputato, dai quali discenda la responsabilità risarcitoria a favore del danneggiato. Se in esito a tali valutazioni il giudice riterrà provata la responsabilità dell’imputato, non potrà condannarlo alla sanzione penale, ma dovrà in ogni caso pronunciarsi relativamente agli interessi civili (risarcimento ed restituzioni): in questo senso, il giudice potrebbe limitarsi a liquidare una “provvisionale”, ovvero una somma corrispondente al danno risultato provato nel corso del giudizio penale, che dovrà poi essere oggetto di una più precisa quantificazione da parte del giudice civile.
Spesso si tende a pensare all’avvocato come a colui che si occupa esclusivamente di vicende processuali, mentre sempre più di frequente può essere utile rivolgersi ad una figura professionale come l’avvocato, anche per gestire situazioni che possono capitare a chiunque, nella vita di tutti i giorni, come ad esempio nel caso in cui nostro figlio abbia commesso qualche “bravata” a scuola, e sia stato punito con la sospensione.
Oggi ti parlo di quello che si può fare quando si devono gestire situazioni del genere.
I regolamenti.
Attualmente, i regolamenti degli istituti (soprattutto delle scuole secondarie) prevedono prescrizioni piuttosto rigorose nella disciplina della vita scolastica, e gesti compiuti anche per puro spirito di gioco o di scherzo possono facilmente sconfinare nell’ambito del non consentito.
Può accadere infatti che uno studente apostrofi un compagno di classe con un epiteto poco carino, oppure che venga sorpreso mentre scatta una foto con il telefono cellulare all’interno dell’istituto, o ancora che sia colto nell’atto di lanciare dalla finestra un quaderno del compagno di banco.
I casi possono essere i più svariati, e, a seconda della gravità, possono portare all’adozione, da parte degli organi preposti (Consiglio di Classe, ovvero, nei casi più gravi, Consiglio di Istituto), di provvedimenti disciplinari diversi, in ragione proprio del tipo di fatto commesso: se si tratta di un ragazzo che mangia una merendina durante la lezione, il docente provvederà con un semplice richiamo scritto sul registro; se invece lo studente viene richiamato spesso perché, con il suo comportamento, disturba lo svolgimento delle lezioni, allora la sua condotta sarà sanzionata con una nota sul registro di classe, (e, a seguito di più note, solitamente accade che vengano poi adottati provvedimenti più severi).
La sospensione.
La sanzione più incisiva, ovviamente, rimane l’allontanamento dello studente dalle lezioni, la cd. “sospensione”, per un periodo che può variare, a seconda della gravità del fatto commesso, da qualche giorno fino a settimane o addirittura mesi.
Purtroppo i gravi fatti di bullismo e di violazione della dignità personale, commessiall’interno delle scuole, da un po’ di tempo ormai rientrano tra i fatti di cronaca, e hanno indotto le Istituzioni (in primis il Ministero dell’Istruzione) ad adottare provvedimenti severi, in grado di scongiurare tali episodi.
Tuttavia, spesso accade che poi, in seguito alla sospensione, lo studente finisca per demotivarsi e affliggersi, perda la voglia di studiare, e risulti quindi seriamente pregiudicata la sua “carriera scolastica”.
Spesso, sono proprio i Regolamenti dei singoli istituti a prevedere dei “correttivi”, che consentano di ottenere, con il provvedimento concretamente adottato, una finalità più propriamente educativa e costruttiva.
Fare ricorso contro la sospensione, ma per la sostituzione.
È in questi casi che è bene rivolgersi ad un professionista, il quale, valutando attentamente il caso concreto, le motivazioni addotte dagli organi scolastici a sostegno del provvedimento disciplinare irrogato, e le soluzioni offerte dal Regolamento di Istituto, potrà assistere lo studente e la sua famiglia, ad esempio attraverso la predisposizione di un ricorso, strumento previsto a tutela di chi sia stato raggiunto da sanzioni disciplinari.
Una precisazione è d’obbligo: attraverso questo atto di “impugnazione” non si può chiedere l’annullamento del provvedimento disciplinare, per il quale invece sarebbe necessario un vero e proprio ricorso amministrativo, con altre tempistiche, un altro iter, e, ovviamente, altri costi; scopo di questo particolare tipo di ricorso, invece, è la richiesta della sostituzione della sanzione con attività in favore della comunità scolastica.
Il riferimento normativo.
Il punto di riferimento, a questo proposito, è il DPR n. 249/98 (novellato dal DPR n. 235/07), che contiene il“Regolamento recante lo Statuto delle studentesse e degli studenti”. L’art. 4, in particolare, stabilisce appunto che allo studente debba sempre essere offerta la possibilità di convertire le sanzioni in attività in favore della comunità scolastica: queste ultime, proponendosi una finalità non solo punitiva ma prevalentemente educativa e costruttiva, sono volte a responsabilizzare l’alunno e a renderlo consapevole dell’importanza del rispetto delle regole per una convivenza civile.
Quali attività possono essere?
Le attività in favore della comunità scolastica possono essere di vario tipo, e in genere sono previste per tutte le sanzioni tranne per quelle che prevedono l’esclusione dallo scrutinio finale o dagli Esami di Stato e l’allontanamento definitivo dalla Scuola.
Tra le attività più diffuse si possono indicare: il ripristino di attrezzature, arredi e beni scolastici in genere; la pulizia dei locali scolastici (aule, corridoi, biblioteca); l’eliminazione di situazione di degrado di locali o spazi scolastici; la partecipazione ad iniziative di solidarietà promosse dalla scuola; la collaborazione con i responsabili della biblioteca scolastica per il riordino dei libri o dei locali; la collaborazione con docenti per la preparazione di materiale didattico.
Come presentare il ricorso.
Per quanto riguarda le modalità di presentazione del ricorso, indicativamente si può dire che questo va presentato, entro un termine che decorre dal momento della comunicazione del provvedimento disciplinare, all’Organo di Garanzia interno alla scuola, il quale poi dovrà decidere entro un ulteriore termine: solitamente i provvedimenti disciplinari sono immediatamente esecutivi, per questo l’assistenza proprio di un professionista come l’avvocato può meglio garantire un intervento che sia tempestivo e allo stesso tempo anche qualificato.
Contattaci.
Se ti trovi in una situazione simile a quella in esame, puoi contattarci: valuteremo insieme i fatti e studieremo come intervenire, e, se vi sono i presupposti, potremo predisporre un ricorso per ottenere la sostituzione della sospensione con una misura meno afflittiva e certamente più educativa. Ti faremo un preventivo, ovviamente gratuito.
Oggi ti voglio parlare di un modo molto interessante per risolvere situazioni penali introdotto nel 2017 e che, a mio giudizio, non ancora tutti conoscono e applicano come invece si potrebbe per uscire da procedimenti penali nel modo migliore.
Si tratta dell’estinzione del reato per eliminazione delle conseguenze dell’illecito o, anche solo, offerta di eliminazione effettuata alla vittima del reato.
L’istituto è previsto dal nuovo art 162 ter c.p., introdotto dalla Legge 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario).
Leggiamolo insieme:
«Nei casi di procedibilità a querela soggetta a remissione, il giudice dichiara estinto il reato, sentite le parti e la persona offesa, quando l’imputato ha riparato interamente, entro il termine massimo della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, il danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e ha eliminato, ove possibile, le conseguenze dannose o pericolose del reato. Il risarcimento del danno può essere riconosciuto anche in seguito ad offerta reale ai sensi degli articoli 1208 e seguenti del codice civile, formulata dall’imputato e non accettata dalla persona offesa, ove il giudice riconosca la congruità della somma offerta a tale titolo.
Quando dimostra di non aver potuto adempiere, per fatto a lui non addebitabile, entro il termine di cui al primo comma, l’imputato può chiedere al giudice la fissazione di un ulteriore termine, non superiore a sei mesi, per provvedere al pagamento, anche in forma rateale, di quanto dovuto a titolo di risarcimento; in tal caso il giudice, se accoglie la richiesta, ordina la sospensione del processo e fissa la successiva udienza alla scadenza del termine stabilito e comunque non oltre novanta giorni dalla predetta scadenza, imponendo specifiche prescrizioni. Durante la sospensione del processo, il corso della prescrizione resta sospeso. Si applica l’articolo 240, secondo comma.
Il giudice dichiara l’estinzione del reato, di cui al primo comma, all’esito positivo delle condotte riparatorie».
Lo spirito e l’ambito di applicazione della riforma.
L’intervento normativo che ha introdotto questo istituto si inserisce in un più ampio sistema di riforma dell’ordinamento penale, sia sostanziale che processuale, avviato dalla Riforma Orlando, inteso a “deflazionare il numero di procedimenti penali e comunque a realizzare una rapida definizione degli stessi, determinando effetti di risparmio in termini di spese processuali e di impiego di risorse umane e strumentali” (come si legge nella Relazione tecnica al testo originario).
Attraverso l’estinzione del reato mediante condotte riparatorie, lo Stato, normalmente portatore di un interesse pubblicistico alla repressione penale, rinuncia, per ragioni di politica criminale, alla punizione del colpevole, relativamente a quei reati in cui alla persona offesa è sufficiente un ristoro patrimoniale.
Tutto questo vuol dire che, siccome la giustizia è al collasso, e non si riescono a fare i processi per tutti i reati che vengono commessi, si aprono strade di uscita in cui, a determinate condizioni, si consente agli indagati di definire il procedimento.
Collocato nella parte del Codice Penale dedicata alle cause di estinzione del reato, l’art. 162 ter reca la rubrica “Estinzione del reato per condotte riparatorie”.
Si tratta, nello specifico, di una causa di estinzione del reatoa portata generale, cioè applicabile, sul piano astratto, a qualsiasi fattispecie criminosa, salvo alcune precisazioni che si andranno ad illustrare a breve; a natura ‘personale’, dovendo l’iniziativa provenire necessariamente dalla volontà dall’imputato.
La riparazione in caso di concorso di persone.
Relativamente a questo secondo aspetto, è bene precisare che, laddove il reato sia stato commesso da più persone in concorso, la causa estintiva opererà per il solo imputato che abbia risarcito il danno, con la conseguenza della non estensibilità della declaratoria di estinzione del reato a favore dei correi inadempienti, come previsto dalla disposizione generale di cui all’art. 182 c.p. Così, ad esempio, nel caso in cui il danno cagionato dal reato (ad esempio da un furto) venga risarcito da uno solo dei tre responsabili, gli altri due imputati non potranno automaticamente beneficiare della declaratoria estintiva pronunciata in giudizio in favore del correo, dovendo necessariamente ritenersi circoscritti gli effetti di questa pronuncia al solo imputato da cui sia concretamente promanata l’iniziativa riparatrice ritenuta congrua dal giudice.
Presupposti di applicabilità.
Procedendo nell’analisi dell’art. 162 ter, si rileva immediatamente la necessaria compresenza di due requisiti, ai fini della sua applicabilità:
la verificazione di un reato procedibile a querela di parte (senza limitazioni relative alla cornice edittale), purché rimettibile: rimangono inevitabilmente esclusi dall’ambito applicativo dell’istituto i reati procedibili d’ufficio e quelli perseguibili a querela irretrattabile, quelli, cioè, per i quali il nostro ordinamento prevede che, una volta che sia stata presentata regolare querela da parte della persona offesa, questa non possa più essere rimessa: in questo senso, pertanto, esulano dall’operatività dell’art. 162 ter c.p. i reati di violenza sessuale ex art. 609-bis e di atti sessuali con minorenne ex 609-quater c.p.
la mancata remissione di querela da parte della persona offesa, in seguito alla riparazione del danno da parte del reo. Se vi fosse remissione, infatti, il procedimento penale dovrebbe giungere a naturale estinzione per mancanza di condizione di procedibilità, senza nemmeno passare al vaglio di merito del giudice (ma si dovrebbe arrestare all’accoglimento del G.I.P. della richiesta di archiviazione del PM nella fase delle indagini preliminari), mentre per l’applicabilità dell’art. 162 ter c.p. è necessario giungere alla fase dibattimentale del procedimento penale, come previsto dalla lettera della norma.
Non si applica allo stalking.
Merita un accenno una fattispecie delittuosa particolarmente stigmatizzata nell’attuale contesto sociale, ovvero il reato di atti persecutori disciplinato dall’art. 612 bis c.p. (cd. “stalking”), per il quale inizialmente era ammessa l’estinzione del reato per condotte riparatorie, salvo che il fatto non fosse stato commesso a danno di un minore o di una persona con disabilità (ipotesi procedibili d’ufficio).
Tuttavia, da subito si levarono numerose polemiche in relazione a quei casi in cui fu dichiarato estinto il reato per effetto della mera offerta reale formulata dall’imputato, avente ad oggetto la dazione di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno subito dalla vittima, nonostante il dissenso di quest’ultima.
Per questa ragione, solo qualche mese dopo l’introduzione dell’istituto, il legislatore, con la Legge 4 dicembre 2017 n. 172, è andato ad aggiungere all’art. 162 ter c.p. il seguente comma: “Le disposizioni del presente articolo non si applicano nei casi di cui all’articolo 612 bis”, in tal modo escludendo espressamente l’operatività dell’istituto al reato di atti persecutori.
Le condotte riparatorie.
Entrando nel merito dell’istituto, si osserva che la norma articola le condotte riparatorie in due ipotesi alternative:
condotta riparatoria integrale, congiunta, ove possibile, alla eliminazione delle conseguenze dannose della azione (la norma recita infatti “quando l’imputato ha riparato interamente … il danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e ha eliminato, ove possibile, le conseguenze dannose o pericolose del reato”). Tale comportamento dovrà necessariamente avvenire “entro il termine massimo della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado”, salva la concessione del termine di sei mesi qualora l’imputato provi che, per causa a lui non imputabile, non sia stato in grado di adempiere alle condotte riparatorie entro il termine ordinario richiesto dalla disposizione (art. 162 ter c.p., II comma). Il fatto non addebitabile va individuato in tutte quelle situazioni di difficoltà di pagamento, tali per cui il termine non viene verosimilmente quasi mai negato, come accade negli sfratti per morosità, dove viene sovente concesso il cosiddetto “termine di grazia. Se il giudice decide di accogliere la richiesta, fissa un termine, non superiore a sei mesi, per permettere all’imputato di provvedere al pagamento, anche in forma rateale, di quanto dovuto a titolo di risarcimento; a questo scopo, ordina la sospensione del processo e fissa la successiva udienza alla scadenza del termine stabilito e comunque non oltre novanta giorni dalla predetta scadenza, imponendo specifiche prescrizioni. Durante la sospensione del processo, il corso della prescrizione resta sospeso.
condotta riparatoria realizzata mediante presentazione di un’offerta reale, e successivo deposito, secondo quanto previsto dagli artt. 1208 e ss. c.c., in caso di mancata accettazione da parte della persona offesa e comunque fatto salvo il giudizio di congruità del giudice di merito. In questa ipotesi, stante il richiamo alla disposizione civilistica, è necessario che vengano rispettate alcune prescrizioni, ovvero, anzitutto, che il creditore (persona offesa) sia soggetto capace di ricevere, che l’offerta sia formulata dall’imputato che possa validamente adempiere, ed infine che la riparazione sia completa, ovvero comprensiva della totalità della somma o delle cose dovute. In seguito all’offerta, evidentemente non accettata dalla persona offesa, il giudice ne valuterà la congruità e potrà dichiarare in seguito l’estinzione del reato una volta che l’imputato abbia eseguito il deposito nelle forme stabilite dall’art. 1210 c.c. In particolare, il risarcimento può essere effettuato “banco iudicis”, purché venga accettato (e sia data prova, come sopra si è visto, della sua effettuazione); laddove, invece, la persona offesa non intenda accettare la somma offerta a titolo di risarcimento, posto che l’obbligazione risarcitoria ha per oggetto la dazione di una somma di denaro, occorrerà procedere al deposito della somma offerta presso un istituto bancario: in questo caso, la comunicazione fatta dal debitore al creditore dell’accettazione manifestata dall’intermediario abilitato ad eseguire il trasferimento produrrà gli stessi effetti del deposito previsto dall’art. 1210 c.c. Compiute tutte queste formalità, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, l’imputato dovrà produrne copia, affinché il giudice possa, sentite le parti e la persona offesa, e valutata congrua l’offerta rifiutata, pronunciare la declaratoria (non impugnabile) di estinzione del reato, fatto salvo, ad ogni modo, il potere della persona offesa di richiedere in via civile il ristoro che essa ritiene più congruo.
Cosa deve fare dunque l’autore del reato?
La norma non specifica quale debba essere effettivamente il danno ristorabile, prevedendo unicamente che il danno civile sia riparato “interamente” e che l’eliminazione delle conseguenze offensive avvenga solamente “ove possibile”.
Attualmente, un orientamento dottrinale consolidato ritiene che l’imputato debba porre rimedio ad entrambi i tipi di conseguenze pregiudizievoli sofferte dalla persona offesa, ovvero, sia al “danno civile”, che al “danno criminale”. Per quanto attiene al “danno civile”, l’art. 162ter c.p. attinge con tutta evidenza al testo dell’art. 185 c.p., il quale, nel disciplinare le obbligazioni di natura civilistica scaturenti dall’illecito penale, sancisce per l’appunto l’obbligo delle restituzioni, e l’obbligo del “risarcimento del danno patrimoniale o non patrimoniale” cagionato dal reato. Per quanto attiene invece al “danno criminale”, laddove l’articolo in commento menziona le “conseguenze dannose o pericolose del reato” allude evidentemente all’offesa del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, elemento necessario per la sussistenza del reato.
Al fine di vagliare l’integralità della riparazione del danno, la norma prevede che il giudice, prima di dichiarare estinto il reato, proceda all’audizione (delle parti e) della vittima del reato, ponendosi tale adempimento come momento che, pur se necessario nell’ambito della valutazione circa la sussistenza degli elementi costitutivi della fattispecie riparatoria, non assume tuttavia efficacia vincolante nel contenuto, potendo addirittura essere valutata congrua la proposta riparativa anche in caso di un manifesto diniego della persona offesa. Ciò significa che le esigenze espresse da quest’ultima saranno dunque acquisite dall’organo giudicante, senza però risultare vincolanti nel merito, limitandosi a porsi unicamente come momento di realizzazione del contraddittorio nell’accertamento dei presupposti riparatori dell’estinzione.
È ovvio che nella pratica è bene far precedere sia l’offerta reale che la condotta riparatoria da una trattativa, tramite un avvocato, con la vittima del reato, in modo da vedere se possibile raggiungere un accordo in cui, a seguito dell’esecuzione di una determinata prestazione, come ad esempio il pagamento di una somma di denaro, la vittima si dichiara integralmente risarcita, soddisfatta e tacitata.
Effetti: cosa comporta.
In merito agli effetti dell’applicazione di tale causa estintiva, la dichiarazione di estinzione del reato per effetto delle condotte riparatorie dell’imputato travolge non solo le pene principali e le pene accessorie, ma anche gli effetti penali della condanna e le misure di sicurezza.
Restano efficaci invece gli effetti della confisca obbligatoria, prevista dall’art. 240 comma, secondo comma, c.p., dal momento che l’eventuale pronuncia del giudice penale circa l’estinzione del reato non riveste autorità di giudicato nel giudizio civile.
La causa di estinzione del reato, peraltro, non comporta l’estinzione delle obbligazioni civili derivanti da illecito, pertanto la persona offesa che non reputi soddisfacente e proporzionata all’entità del danno subito la somma deliberata dal giudice penale, eventualmente, può decidere di adire il giudice civile per ottenere una quantificazione più adeguata dello stesso.
Problemi di coordinamento.
La riparazione dal giudice di pace.
Ciò posto, si può considerare come l’art. 162 ter c.p. ponga inevitabilmente problemi di coordinamento con istituti riparatori preesistenti di tipo settoriale, in primo luogo con l’art. 35, D. Lgs. n. 274/2000, che prevede l’estinzione del reato in seguito alla condotta riparatoria da parte dell’imputato nei procedimenti penali di competenza del Giudice di Pace.
Rispetto a questa figura, tuttavia, l’istituto previsto dall’art. 162 ter c.p. si differenzia per la assoluta estraneità di esigenze di conciliazione, di prevenzione di futuri reati e di rieducazione del colpevole: il fondamento teorico dell’istituto previsto dall’art. 162 ter c.p., infatti, non contempla logiche di giustizia riparativa, avendo il legislatore chiaramente mostrato di volere riconnettere esclusiva efficacia al solo fattore della congruità delle condotte riparatorie in relazione alla consistenza del danno arrecato, al fine della declaratoria di estinzione del reato. Qualora, infatti, il giudice reputi le condotte riparatorie congrue, a nulla varrebbe, come detto, un eventuale dissenso della vittima, intenzionata a proseguire nell’azione penale, ma dovrà essere dichiarato estinto il reato.
I commi 1 e 2 dell’art. 35, invece, dispongono che “Il Giudice di Pace, sentite le parti e l’eventuale persona offesa, dichiara con sentenza estinto il reato, enunciandone la causa nel dispositivo, quando l’imputato dimostra di aver proceduto, prima dell’udienza di comparizione, alla riparazione del danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e di aver eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato” e “Il Giudice di Pace pronuncia la sentenza di estinzione del reato di cui al comma 1 solose ritiene le attività risarcitorie e riparatorie idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione”. E’ opinione consolidata, infatti, che la ratio dell’art. 35 d.lgs. n. 274/2000, come del resto dell’intero sistema in cui esso è inserito, sia di tipo conciliativo, nel senso che l’Autorità giudiziaria deve sentire la parte offesa (o la parte civile costituita), il Pubblico Ministero e l’imputato, non solo per valutare l’idoneità delle condotte riparatorie a soddisfare l’esigenza di riprovazione della condotta criminosa tenuta, ma anche per verificare se da siffatte condotte sia possibile evincere un pentimento del reo.
A fronte di tali differenze, posto che l’art. 162 ter c.p. non costituisce un inutile doppione dell’art. 35 d.lgs. n. 274/2000, parte della dottrina sostiene l’astratta applicabilità dell’art.162 ter c.p. anche ai reati di competenza del Giudice di Pace. Tuttavia, la scarsa attenzione alla vittima e l’assenza di contatti conciliativi tra questa e l’imputato si scontrano con l’onere del Giudice di Pace di coltivare durante l’intero corso del procedimento un dialogo conciliativo tra le parti. Il processo penale davanti al Giudice di Pace, infatti, è caratterizzato da un costante promovimento della conciliazione tra le parti, come affermato nella disposizione che ne enuncia i ‘principi generali’ (art. 2, co. 2: Nel corso del procedimento, il giudice di pace deve favorire, per quanto possibile, la conciliazione tra le parti). Pertanto, mentre la disciplina ‘speciale’ di cui all’art. 35 d.lgs. 274/2000 appare perfettamente coerente con tale canone conciliativo, mirando in definitiva a stimolare il ravvedimento dell’imputato fondato sull’esatta percezione del disvalore della propria condotta e sulla conseguente volontà di riparare il danno cagionato alla persona offesa (in un certo senso, quindi, di chiedere scusa all’offeso provvedendo a rimuovere tutti gli effetti pregiudizievoli derivanti dalla condotta lesiva), quella di cui all’art. 162 ter c.p. genera indubbiamente, se proiettata in questo contesto, un fortissimo attrito concettuale.
L’attenuante dell’avvenuta riparazione del danno
Concludendo, volendo accennare brevemente al rapporto tra la causa estintiva del reato prevista dall’art. 162 ter c.p. e gli altri istituti che attribuiscono peculiare rilevanza alle condotte riparatorie del reo, si può citare, in primis, la circostanza attenuante di cui all’art. 62 n. 6 c.p., secondo cui “Attenuano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze attenuanti speciali, le circostanze seguenti: 6) l’avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno, mediante il risarcimento di esso, e, quando sia possibile, mediante le restituzioni; o l’essersi prima del giudizio e fuori del caso preveduto nell’ultimo capoverso dell’articolo 56, adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato”. Considerato che il presupposto sostanziale di entrambe le figure è il medesimo, ovvero la riparazione del danno, si può comunque osservare che nel primo caso l’effetto è quello della estinzione del reato, mentre nel secondo solo l’attenuazione della pena; inoltre nella circostanza attenuante vi è alternatività tra la riparazione del danno tramite risarcimento o restituzioni, e l’essersi il reo adoperato per elidere o attenuare le conseguenze del reato, mentre per l’estinzione del reato ex art. 162 ter c.p., come già detto, l’imputato, per andare esente da sanzione, deve non solo risarcire interamente il danno all’offeso, ma anche eliminare ove possibile le conseguenze del reato. Pertanto, qualora l’imputato abbia riparato il danno ma non anche eliminato le conseguenze del reato, scartata l’applicabilità della causa estintiva, residua comunque la possibilità di attenuare la pena a norma dell’art. 62 n. 6 c.p., ipotesi peraltro configurabile anche qualora si sia in presenza di reati procedibili a querela irretrattabile o procedibili d’ufficio.
La particolare tenuità del fatto.
E’ inoltre evidente la somiglianza con l’istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto, previsto dall’art. 131 bis c.p., che, alla luce della limitata offensività del fatto commesso, consente di pervenire alla conclusione del processo penale mediante l’emissione di una sentenza di assoluzione, ma solo per i reati puniti con pena non superiore nel massimo a cinque anni. In tali ipotesi, i criteri di valutazione per il giudice sono quelli della modalità di estrinsecazione della condotta illecita e dell’esiguità del danno o del pericolo, che devono essere valutate ai sensi dell’art. 133, comma primo, c.p. La norma in questione prevede comunque un accertamento in merito alla commissione del fatto e all’elemento soggettivo (salvo che la dichiarazione non avvenga prima del dibattimento), pertanto la sentenza penale irrevocabile pronunciata ai sensi dell’art. 131 bis c.p. avrà efficacia di giudicato nel giudizio civile per le restituzioni e il risarcimento, e potrà quindi essere fatta valere in quella sede dalla persona offesa per il soddisfacimento delle proprie pretese risarcitorie.
La messa alla prova.
Quanto, infine, ai rapporti tra l’art. 162 ter c.p. e l’art. 168 bis c.p., che disciplina la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato, si ritiene che, stante la sostanziale coincidenza di presupposti, il ricorso alla sospensione del processo con messa alla prova potrebbe essere marginalizzato alle ipotesi in cui non è applicabile il 162 ter c.p., ad esempio quado il reato è procedibile d’ufficio.
Conclusioni.
Sei rimasto coinvolto in un procedimento penale per cui esistono i presupposti per la definizione tramite condotte riparatorie?
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Salve, ho un’attività commerciale che, essendo rivolta al mondo dell’agricoltura, possiamo definire stagionale. Ho aperto il mio negozio in un locale in affitto e la proprietà sulla quale sorge il capannone è di due fratelli. L’accesso all’intera proprietà è consentito attraverso un unico cancello automatico e dal mio negozio non è possibile vederlo poichè mi trovo su un lato dell’edificio. Da qualche mese, nei locali che danno sull’ingresso, si sono insediati 2 concessionari di auto. Uno non ha mai dato problemi, l’altro avendo un parco auto più vasto, di sua libera iniziativa chiude il cancello nei suoi orari di chiusura, impedendo ai miei clienti di accedere al negozio, e la mia posizione non mi permette di essere sempre reattivo alla chiusura dell’accesso. Capita molte volte che dopo aver chiuso il negozio e recandomi nella mia abitazione posta nello stesso edificio, mi accorgo che il cancello è chiuso da chissà quanto tempo e ho la sensazione di essermi trattenuto in magazzino in attesa di clienti che mai avrebbero potuto raggiungermi. Ho detto al proprietario della concessionaria di lasciare aperto, perchè anch’io ho diritto a lavorare (anche perchè io ho aperto da 4 anni e lui da solo qualche mese) e, soprattutto nel periodo di giugno, la mia clientela necessita di un’assistenza più prolungata poichè la campagna di mietitura del grano deve essere accompagnata da una pronta reperibilità dei ricambi dei mezzi agricoli in caso di bisogno. La risposta è sempre la stessa, che siccome le auto possono essere rubate lui vuole chiudere il cancello. Personalmente non credo che l’affittare uno spazio commerciale possa consentire all’affittuario ad arrogarsi il diritto di impedire l’accesso alle altre attività. E io non posso andare avanti a togliere la corrente elettrica al cancello per impedirne la chiusura. Giovanni, mail.
il nostro ordinamento prevede che, quando su uno stesso bene insistono (la proprietà o altri) diritti cd. reali (tra cui, appunto, anche il diritto del conduttore) appartenenti a più soggetti, ogni partecipante non può impedire ad altri di fare uso di quella cosa secondo il proprio diritto.
Nel caso di specie, quindi, il titolare della concessionaria non può, a sua discrezione, chiudere il cancello di ingresso allo spiazzo comune per l’accesso alle vostre attività, posto che tale spiazzo costituisce una pertinenza dei locali che vi sono stati concessi in locazione.
Impedire l’accesso allo stesso nel corso dell’orario di apertura della sua attività , infatti, imita notevolmente il suo diritto di godimento (il quale si estrinseca ovviamente nell’accogliere clienti all’interno dei locali in cui esercita la sua attività).
Ciò detto, prima di procedere giudizialmente per tutelare il suo diritto, le consiglierei di diffidare formalmente, mediante lettea raccomandata con avviso do ricevimento, il suo vicino dal voler proseguire con gli atti di molestia finora posti in essere, rappresentandogli che ogni atto di turabtiva che sia in grado di restringere o recare pregiudizio al legittimo diritto di godimento altrui della cosa locata, o comunque limiti in misura apprezzabile l’esercizio di detto diritto è vietato dalla legge.
Nel caso in cui, così facendo, non riesca ad ottenere nessun risultato, allora le consiglio di procedere giudizialmente, instaurando una causa possessoria, ritenuta esperibile anche da parte del semplice conduttore di un immobile nei confronti dell’autore delle molestie, in quanto va considerato detentore qualificato per conto del locatore possessore. Ne discende che egli ha diritto a tutelare la propria situazione giudidica attraverso l’esercizio dell?azione di manutenzione.
Volevo porro una domanda che forse potrà essere di aiuto anche ad altri. Il mio ex-marito, dal quale sono legalmente separata da 10 anni, ha acquistato una seconda casa a Torino (ne ha già una, dove vive per metà mese, a Napoli). Noi abbiamo un figlio di 16 anni che fino ad ora era l’erede unico. Attualmente ha avuto un figlio dalla sua compagna di Torino. Io sono convinta che le due case debbano essere dei suoi due figli e lui mi ha garantito che ha fatto tutto affinchè la casa a Torino vada al figlio avuto ora e la casa a Napoli vada a mio figlio e mi ha detto di fidarmi e non ho chiesto più nulla. Ma se un domani il figlio torinese volesse intentare una causa per pretendere anche la casa di Napoli come si può evitare ciò a priori? Cosa ha potuto fare legalmente il mio ex-marito per “dare” la casa di Napoli a mio figlio e quella di Torino all’altro figlio visto che i beni, una volta deceduto il padre, vanno ai figli in parti uguali? Inoltre tra un po’ chiederà il divorzio, e se sposasse la compagna, le case andrebbero anche a lei ed ad un’altra figlia avuta da un altro uomo? Scusi se sono stata un po’ ingarbugliata ma non saprei dirlo diversamente. Caterina, mail.
Le domande che mi pone sono tante, quindi cercerò di analizzarle separatamente:
-per quanto riguarda l’eredità di suo figlio, l’ipotesi più accreditabile è che il suo ex-marito abbia fatto testamento, disponendo delle sue due case a favore dei suoi figli. In questo caso, non credo che ci sia bisogno di preoccuparsi, dal momento che, se ci sarà qualcosa di anomalo (cioè se le disposizioni fatte saranno notevolmente sproporzionate), suo figlio potrà legittimamente impugnare il testamento e agire in riduzione contro il “fratellastro”;
-altrettanto inutile è preoccuparsi che il figlio torinese possa intentare una causa contro suo figlio per sottrargli la casa e, sostanzialmente, escluderlo dall’eredità, dal momento che non avrebbe nè titolo, nè modo per farlo;
-certamente, se il suo ex-marito si sposerà nuovamente, la sua nuova moglie acquisterà nei suo confronti la titolarità dei diritti ereditari: questo significa che la moglie, alla morte del suo ex-marito, andrà a partecipare alla spartizione dell’eredità dello stesso, insieme ai due figli. Ciò non significa, però, che anche la figlia avuta dalla nuova moglie diventi erede, quindi quest’ultima potrebbe ereditare la quota che spetterebbe alla madre, al massimo, solo in caso di premorienza della madre.
Gentili Avvocati, cercando su internet la voce “rapporti di vicinato” ho trovato il vostro forum, ho un problema che mi affligge, ho una forno a legna adiacente alla mia casa di abitazione e situato nella mia esclusiva proprietà, esso dista orizzontalmente dal confine circa 3 metri e dal balcone dei vicini 4 metri, l’altezza del comignolo combacia con la fine del piano rialzato del confinante circa 3 metri, vorrei essere sicuro prima di accendere il forno che il vicino (dato che si è creato un rapporto non troppo amichevole) non chiami i vigili e mi denunci per immissioni di fumo moleste:T potreste dirmi se sono in regola e posso accendere il mio forno a legna? Quali sono i parametri di distanza e di altezza comignolo generale per far sì che non si abbiano problemi di emissione di fumo nella proprietà dei confinanti? Francesco, mail.
La norma di riferimento nel caso di specie è l’art. 844 c.c., il quale, nel vietare le immissioni di fumo e di calore, richiama il principio della “normale tollerabilità”, criterio alquanto vago e assolutamente generico.
Esiste tuttavia una normativa, il D.P.C.M. 28/03/1983, che fissa i limiti massimi di accettabilità delle concentrazioni relativi ad inquinanti dell’aria: tuttavia, mentre l’art. 844 c.c. è postao a presidio del diritto di proprietà, la normativa extracodicistica persegue la tutela igienico-sanitaria delle persone e delle comunità esposte. Spetta quindi al giudice chiamato a valutare la tollerabilità o meno delle immissioni contestate individuare quale sia il bene da tutelare in via privilegiata, e decidere, conseguentemente, in merito alla liceità o meno dell’immissione.
In ogni caso, è importante notare, a questo proposito, che la valutazione circa la tollerabilità delle immissioni è legata anche alla condizione dei luoghi: a ciò deriva che non è possibile indicare con assoluta precisione una soglia oltre la quale l’immissione è da considerarsi illecita, ma la relativa valutazione è demandata al giudice che dovrà valutare caso per caso, tenedo conto delle caratteristiche di ogni specifica situazione.
Salve, la mia domanda è inerente ad una disputa che ho con il mio vicino per il passaggio pedonale lungo un sentiero (lungo circa 50mt) che porta alla mia proprietà dalla strada comunale: già diversi anni fa quando l’abitazione fu conclusa per godere di tutti i servizi necessari, furono stesi lungo il sentiero che dalla strada principale porta alla mia proprietà i tubi di acqua ed elettricità. La persona che rivendica la proprietà del sentiero (fondo dominante) mi disse che gli dovevo dei soldi e ci dovevamo mettere d’accordo. Sono passati degli anni e visto e considerato che il sentiero che devo percorrere è in uno stato a dir poco pietoso, e vistomi rifiutata la proposta, in cui mi offrivo di rendere agibile il sentiero a mie spese, ho chiesto di quantificarmi il diritto di servitù e le aggravanti di servitù visto il passaggio dei tubi (questa l’unica alternativa offertami per far sì che lui ripari il sentiero). Premesso che il terreno dall’originale destinazione agricolo è passato a zona di mia residenza con tutti i condoni e le licenze in regola, mi ha chiesto la cifra di 10.000€, ma visto che l’occupazione della terra fatta con i miei tubi è di appena 30cm x circa 50mt del sentiero, mi è parsa una cifra spropositata. Spropositata soprattutto perchè le spese di posa delle tubazioni, la manutenzione in tutti questi anni, e il disagio di percorrere una strada sterrata non illuminatata le ho sempre pagate io. Senza tenere conto che io non avevo alternative dato che questo sentiero è l’unica strada percorribile per raggiungere la mia abitazione. Quindi vi chiedo c’è un modo univoco per calcolare il dovuto a questo signore? 10.000€ possono essere una cifra ragionevole fatte tutte le premesse del caso? C’è una legge che definisce questo tipo di trattative? Vi ringrazio dell’attenzione che mi dedicherete, e aspetto fiducioso vostre notizie. Paolo, mail.
A dire la verità, purtroppo non sono in grado di quantificare il valore dell’indennità dovuta dal proprietraio del fondo dominante per l’esercizio di un diritto di servitù. Direi che, forse, sia più opportuno interpellare un tecnico (geometra o ingegnere), per il quale è certamente molto più agevole individuare le variabili di cui tenere conto ai fini del calcolo.
Buonasera, ho acquistato una proprietà da circa un anno, sulla quale esiste un cancello carrabile per accedere alla proprietà confinante. Tale cancello o eventuali servitù non risultano su alcuna documentazione. La proprietà confinante ha un accesso pedonale e un garage sulla strada provinciale confinante con le due proprietà. Gli utenti di detto cancello passano attraverso la mia proprietà per accedere alla proprietà confinante anche con mezzi che recano danni alla mia proprietà sporcando o rompendo i rami degli alberi del mio giardino. Gli utilizzatori, padre e figli, non sono residenti nella proprietà confinante, utilizzano la proprietà confinate alla mia come zona di stoccaggio balle di fieno, attrezzature, trattori e hanno un paio di mucche nella stalla. Premesso che ho dichiarazione scritta del proprietario che mi ha venduto la casa (erede) che specifica che tale passaggio è sempre stato subordinato ad una sorta di affitto in natura tra i vecchi proprietari, la morte dei quali è sopraggiunta 5 anni or sono, anche la nipote dell’utente principale (padre) mi ha firmato una dichiarazione simile, gli utilizzatori sostengono di aver ottenuto usucapione del passaggio sulla mia proprietà. A questo punto vi chiedo: come mi devo comportare per far cessare il passaggio dei mezzi pesanti sulla mia proprietà? Grazie, Alessandra, mail.
Per quanto riguarda la legittimità della convinzione dei suoi vicini di aver usucapito la servitù, e quindi poter legittimamente passare sul suo fondo senza alcun problema, occorrerebbe accertare il fondamento di tali affermazioni, posto che le servitù possono essere acquistate in diversi modi, tra cui, appunto, l’usucapione (per effetto del passaggio continuato per 20 anni sul medesimo passaggio, che sia caratterizzato dall’evidenza e dalla destinazione obiettiva per quell’uso). Su questo aspetto, quindi, non posso pronunciarmi, non avendo elementi su cui ragionare: non posso quindi dirle con certezza che lei ha il diritto di escludere i suoi vicini dall’esercizio della servitù in questione.
Il fatto, però, che i suoi vicini adducano l’acquisto per usucapione della servitù di passaggio sul suo fondo come scusa per non corrisponderle l’indennità pattuita, mi sembra ragionamento insoddisfacente per poter escludere tale obbligo in capo agli stessi, posto che esiste una scrittura privata che li vincola in tal senso.
Quindi inizialmente le suggerirei di diffidare i suoi vicini, mediante raccomandata con avviso di ricevimento, a volerle corrispondere le indennità pregresse che non le sono state corrisposte, allegando il titolo che giustifica tale sua richiesta (cioè la scrittura privata sottoscritta). Nel caso in cui, poi, non ottenesse alcun riscontro positivo, sarà il caso di procedere per fare accertare l’inadempimento.
Buongiorno, scrivo per avere un parere su di un problema che da circa cinque anni mi sta rendendo la vita difficile. Il luogo dei fatti è una zona montuosa (alt. 930slm), in provincia di Lecco. Nel 1998, mia moglie ha acquistato una baita con un piccolo terreno annesso la quale è stata successivamente ristrutturata e resa abitabile con tutti i permessi necessari, cioè con nulla di abusivo. Di fatto è la nostra seconda casa dove passiamo i week-end. Nel 2002, anch’io ho acquistato una baita con annesso un piccolo terreno esattamente confinante con la proprietà di mia moglie ma questa baita è rimasta deposito per materiale perchè serve solo come riparo per la legna e per gli attrezzi (necessari per sistemare, quando occorre, il terreno). Le due proprietà sono intercluse, cioè non hanno sbocco diretto sulla strada ma distano circa 300 metri dall’unica strada comunale dove lasciamo parcheggiata l’auto per raggiungere a piedi le proprietà. Le due baite fanno parte di un piccolo borgo, un ex alpeggio, che negli ultimi trent’anni ha perso l’originale funzione di ricovero per gli animali e che, come abbiamo fatto noi, è stato nel tempo convertito, quasi completamente, in seconde case, pur mantenendo le caratteristiche originarie per quanto riguarda l’accesso, cioè avviene solo a piedi perchè non esiste strada carrabile. L’accesso, appunto, avviene per due sentieri che nell’arco dei decenni gli antichi pastori hanno creato e che per consuetudine nel passaggio, sono arrivati sino a noi. Di fatto chi deve raggiungere la propria baita attraversa una serie, più o meno lunga, di proprietà altrui e questo è sempre avvenuto senza problemi perchè è l’unico modo. Arrivo al punto. Cinque anni fa una baita con un piccolo terreno confinante con il nostro è stata acquistata ma mai sistemata. Di fatto è usata come deposito. Il sentiero che mi permette di raggiungere le nostre proprietà arriva da loro fino a pochi metri prima, dopodichè lo devo abbandonare per attraversare questo piccolo fazzoletto di terra di circa cinque metri di larghezza. Ma i nuovi proprietari si oppongono a questo passaggio che io uso da oltre dieci anni, e che è stato sempre usato anche in passato, almeno questo è quanto mi hanno confermato gli anziani del posto. In un primo momento hanno eretto una staccionata che però il Comune ha fatto rimuovere perchè il Piano Regolatore vieta la costruzione di staccionate proprio per evitare di limitare la libera circolazione tra le proprietà, poi su consiglio del loro legale hanno depositato sul passaggio materiale vario (pallets e altro), ma che il Comune, anche in questo caso, ha fatto rimuovere perchè indecoroso con l’ambiente, per arrivare ai giorni nostri dove sono comparse delle fascine di legna ma in questo caso il Comune si è dichiarato incompetente perchè trattasi di materiale non inquinante, in fondo si tratta solo di legna locale, ma che di fatto mi impedisce di arrivare alla mia proprietà. A nulla è servito discutere con i proprietari della baita spiegando loro che non possono chiudere il passaggio, oltretutto il loro acquisto è avvenuto anni dopo il nostro, ma loro sostengono che potremmo fare un giro più lungo e disagevole raggiungendo lo stesso la strada. Il fatto è che mentre il passaggio che abbiamo sempre usato è ben segnato a terra dal passaggio, appunto decennale, degli abitanti, quello che ci propongono loro passa su di un terreno pratoso vergine e qui credo che il proprietario potrebbe, a ragione, prendersela con noi perchè il nostro passaggio, per quanto pedonale, potrebbe rovinare l’erba. Quali azioni posso intraprendere per convincere queste persone a lasciarmi usare il passaggio che ho sempre usato? Lo so che esiste la possibilità di chiedere il riconoscimento di una servitù coatta, visto che di accordi non se ne parla, ma è possibile ottenerla senza imbarcarmi in una lunga causa civile? Spero di avere ben chiarito il mio problema e spero di non essermi troppo dilungato. Vi ringrazio per tutto l’aiuto che potrete darmi. Cordiali saluti. (Emiliano, mail).
Il nostro codice civile prevede che le servitù cd. “non apparenti” possano essere acquistate mediante usucapione, ovvero in virtù dell’esistenza (e, ovviamente, dell’utilizzo) ininterrotto per 20 anni di opere visibili e permanenti obiettivamente destinate a tale esercizio.
Nel suo caso, posto che lei si serve del sentiero di accesso alla pubblica via da una decina di anni, dovrebbe compiere una verifica volta ad accertare se anche il suo dante causa si sia servito, come le ha detto, dello stesso stradello per un periodo tale per cui, se sommato ai 10 anni del suo possesso, possa consentire di raggiungere i 20 anni necessari ai fini dell’usucapione, in virtù del principio ex art. 1146 c.c. Posto infatti che il possesso non deve necessariamente essere esercitato dal medesimo soggetto che invochi l’usucapione, tale norma sancisce che l’avente causa a titolo particolare può sommare il proprio possesso a quello del suo predecessore (accessione del possesso) ai fini del calcolo del tempo.
Per fare accertare l’esistenza del suo diritto, qualora questo risulti essere stato da lei realmente acquistato per usucapione, dovrà essere esercitata una tipica azione a tutela della servitù, la cd. azione confessoria, volta non solo ad ottenere il riconoscimento del proprio diritto, ma anche la cessazione di altrui atti di turbativa. Temo però che non sarà una cosa breve, in ogni caso le consiglio di chiedere a consulenza di professionisti qualificati, che le forniscano l’assistenza adeguata e competente.
Ho comunicato al proprietario di casa la necessità di dover lasciare l’appartamento (di cui il mio compagno è il locatario “ufficiale”) per i seguenti motivi: la casa risulta molto fredda e poco soleggiata, genera una macchia di umidità di discrete dimensioni in un angolo della parete della camera da letto e comunque lungo tutta la parete e le due finestre corre il nero dell’umidità. Nei mesi freddi è possibile vedere proprio il ristagno di acqua sul pavimento, abbiamo già una volta richiesto, mediante l’amministratore dei beni del proprietario di casa, l’intervento di uno specialista il quale dopo un’ispezione ha confermato che per il fenomeno non si può far nulla; abbiamo acquistato un deumidificatore elettronico per abbassare la percentuale di umidità e utilizziamo un dispositivo più semplice dotato di pastiglia ad assorbimento nel quale puntualmente si accumula almeno un litro di acqua; si tratta però di rimedi che non risolvono il problema. A ciò si aggiunga che ho sviluppato una tosse legata anche a questa umidità ed essendo in gravidanza non intendo far trascorrere al mio bambino nemmeno un mese in queste condizioni. Questi gravi motivi, legati alle precarie condizioni di salubrità dell’appartamento, possono ridurre il preavviso? (per esempio l’articolo 1580 del codice civile potrebbe in questo caso essere di riferimento?)
Come lei stessa ha correttamente osservato, l’articolo 1580 c.c. tutela proprio una situazione come la sua, introducendo una tutela molto efficace per la salute del conduttore, il quale può chiedere la risoluzione del contratto (e il risarcimento del danno, ove dimostri che il locatore era a conoscenza della insalubrità dell’appartamento) e non il semplice adempimento in forma specifica, in quanto il nostro ordinamento intende privilegiare il diritto alla salute, sanzionando con la risoluzione l’inidoneità della cosa locata.