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Contratti luce e gas falsi: come tutelarsi?

Purtroppo sono stato truffato ovvero a mia insaputa mi è stato cambiato il gestore da Enel a non si sa chi. Il cambio effettivo é avvenuto il 12 dicembre 2018 e da allora non ho mai ricevuto ne un contratto e nemmeno le bollette. Il mio precedente gestore invocando la Privacy non mi dice qual’è la compagnia a cui sono subentrato. In questo casi che si fa? A chi ci si rivolge??

Il caso da Lei descritto ha sicuramente rilevanza penale perché la sottoscrizione di un contratto con firma falsa o all’insaputa dell’utente consumatore, configura il reato di truffa, perseguibile a querela della persona offesa.

Percorrere la strada penale, a mio avviso non porta al risultato che si desidera, ovvero ritornare al precedente gestore. Peraltro il relativo reato è stato recentemente depenalizzato dal legislatore.

Con la legge n. 129/2010 è stato istituito presso l’Acquirente Unico, quale organismo indipendente  e pubblico il Sistema Informativo Integrato (SII), ovvero è la banca dati che, a livello nazionale, gestisce raccoglie le forniture di energia elettrica e gas e tutti i dati identificativi dei clienti.

Qualora il cliente finale (consumatore o utente), ha necessità di conoscere il fornitore che fattura l’energia elettrica o il gas, deve inoltrare un apposita domanda allo Sportello del Consumatore Energia Ambiente presso l’Aquirente Unico (articolo 3.5 Deliberazione n. 398/2014/r/eel ARERA).

Una volta che siamo venuti a conoscenza del nostro attutale fornitore di luce e gas, dobbiamo inviargli una raccomandata ar per il disconoscimento del contratto che non è stato da noi sottoscritto.

A questo punto il nuovo gestore, attiverà i rimedi previsti dalla delibera 228/2017/r/com ARERA ed accollandosi tutte le spese, compresi i costi della fornitura di luce e gas che nel frattempo sono maturati, dovrà ripristinare il contratto con venditore precedente alle stesse condizioni contrattuali.

Non dovrà preoccuparsi se nel frattempo non le arriveranno bollette, fino a che non sarà ritornato al vecchio fornitore tutte le spese saranno a carico del nuovo gestore.

Se vuoi approfondire contattaci.

 

 

 

 

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Truffa informatica «man in the middle»: come evitarla.

Sono il legale rappresentante di una piccola azienda. Ho inviato un email al mio cliente per il pagamento di una fornitura; purtroppo la mail è stata intercettata da hacker che hanno modificato l’IBAN. Così il mio cliente inconsapevolmente ha bonificato ad una persona sconosciuta. Come posso difendermi?

La vicenda delle intercettazioni dell’email contenenti le coordinate bancarie, è un tema che riguarda  la sicurezza informatica nelle comunicazioni. In questi ultimi anni moltissime banche, clienti,  avvocati professionisti, hanno subito tale attacco informatico che è chiamato “Man-in-the-middle

Man-in-the-middle vuol dire “uomo nel mezzo” ed è una minaccia informatica che permette al cyber malintenzionati di intercettare e manipolare il traffico internet che l’utente crede privato.

Nel tuo caso, qualcuno si è messo nel mezzo tra te ed il tuo cliente, riuscendo ad intercettare il messaggio inviato e ricevuto che è arrivato al destinatario alterato. E come se uno sconosciuto ti avesse messo nella tua cassetta della posta false fatture per cercare di riscuoterle.

Nessun sistema informatico è immune da tale attacco e tutti noi potremmo essere potenzialmente le vittime.

Prima di tutto di consiglio di sporgere denuncia querela alla polizia postale contro ignoti.

Sarà molto difficile ottenere i soldi indietro e bisogna agire prima possibile, perché nel giro di pochi giorni il titolare del conto corrente – persona a noi sconosciuta – ha già prosciugato il conto.

Per evitare che accada ciò è necessario adottare degli accorgimenti:

 – evitare di usare punti d’accesso wi-fi liberi, per effettuare transazioni sensibili, anche con il proprio cellulare (gli aeroporti e le stazioni ferroviarie sono le prime da evitare);

– assicurarsi di utilizzare la versione cifrata dei siti web, controllando che la URL inizi con HTTPS;

– impostare una password per il wi-fi in modalità WPA2 e cambiare quella di default con una di almeno 15 caratteri;

– aggiornare antivirus e sistema operativo sempre all’ultima versione;

– attivare l’autenticazione a due fattori in tutti i nostri account più importanti. Gmail, whatsapp,  Facebook e altri, quasi tutti oggi dispongo di tale sicurezza da diverso tempo.

-configurare la posta elettronica con il protocollo “s”;

Ci sono molti altri accorgimenti a seconda del sistema operativo che utilizziamo, del nostro gestore di posta elettronica, del nostro internet provider.

Per avere maggiori informazioni contattaci o chiedici una consulenza.

 

 

 

 

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Privacy: vale anche per le sentenze messe su internet?

Spesso le sentenze dei Tribunali, della Corte di Cassazione o di altri giudici, possono essere consultate integralmente con i nominativi ed i dati anagrafici di attori e convenuti.

Altre volte le generalità delle parti processuali vengono omesse, oppure oscurate attraverso asterischi.

Ci si domanda, allora, se il diritto ad una chiara e trasparente informazioni giuridica è prevalente rispetto alla privacy del singolo individuo.

Può una parte processuale chiedere l’oscuramento delle proprie generalità anagrafiche, nel caso in cui la sentenza venga pubblicata in un quotidiano giuridico di diffusione nazionale?

Non si può omettere di rilevare come il progresso tecnologico, il perfezionamento dei mezzi di comunicazione di massa e degli strumenti di raccolta di dati e notizie, ha condotto la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10510 del 21016, ha pronunciarsi per la prima volta sulla diffusione dei dati personali presenti nei provvedimenti giurisdizionali per finalità di informativa giuridica.

Qual’è la normativa di riferimento?

La norma primaria è l’art. 52 D.lgs. 196 del 2003, secondo  il quale l’interessato può esplicitamente chiedere, per motivi legittimi, con domanda depositata nella cancelleria, prima che sia definito il grado di giudizio, che, in caso di riproduzione del provvedimento in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica, sia esclusa l’indicazione delle generalità ed altri dati identificati del soggetto interessato, riportati nel provvedimento stesso.

Nell’ambito civilistico, si ricorda poi che devono essere sempre omessi, anche in mancanza di esplicita richiesta, le generalità, nonché altri dati identificativi, anche relativi a terzi dai quali possa desumersi l’identità di minori, oppure delle parti nei procedimenti in materia di rapporti di famiglia e di stato delle persone.

Ed ancora l’art. 22 Codice Privacy afferma un principio generale secondo il quale non possono essere diffusi i dati idonei a rivelare lo stato di salute. Tale inciso, non ammette eccezioni, in quanto la salute è sicuramente un dato sensibilissimo di rilevanza costituzionale, e prevale sull’integrale pubblicazione dei provvedimenti giurisdizionali a scopo di informativa giuridica.

Appare pertanto illecito secondo la Corte di Cassazione in commento  la diffusione delle generalità del ricorrente, con riferimento ad un provvedimento giurisdizionale ove si indicava il suo stato di salute e le sue invalidità. Ciò potrebbe comportare, se provato, anche un risarcimento del danno che non è in re ipsa.

La sentenza merita segnalazione per la sua chiarezza espositiva e per il suo taglio prettamente pratico, perché riepiloga in poche righe lo stato dell’arte, dicendoci quando deve essere omessa e quando può essere invece omessa l’indicazione delle generalità identificative degli interessati in una sentenza che poi verrà pubblicata su quotidiani giuridici o sul web.

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Casa familiare: può essere anche quella dove il minore non ha mai vissuto?

La Suprema Corte di Cassazione con una recente sentenza, la n. 3331 del 2016, è intervenuta per fare chiarezza sul delicato tema dell’assegnazione della casa familiare in caso di separazione tra coniugi.

I fatti sottoposti all’esame dei giudici di legittimità sono i seguenti.

Marito e moglie, dopo la nascita del primo figlio, avevano cessato di vivere insieme nella casa coniugale. La madre aveva lasciato l’abitazione per motivi di lavoro e per sottoporsi a delle cure mediche, in quanto durante sia la gravidanza che dopo il parto aveva sofferto di problemi psicofisici. Anche il padre si era allontanato da casa, portando con sé il bambino presso l’abitazione della nonna.

Nel procedimento innanzi al Tribunale, il giudice aveva optato per l’affido condiviso (con il collocamento prevalente presso la madre e modulazione del diritto di visita per il padre), assegnando la casa familiare alla madre. Dai fatti di causa è emerso che i due coniugi avevano acquistata l’abitazione in comproprietà e ci avevano vissuto insieme per cinque anni, nella prospettiva che sarebbero stati lì anche con il figlio.

L’affidamento condiviso è stato anche confermato dalla Corte d’Appello, sul presupposto che la madre era guarita dai disturbi psicofisici emersi nel passato. Infatti la CTU espletata su entrambi i genitori aveva confermato per tutti e due buone capacità genitoriali.

La Corte d’Appello ribadisce che il piccolo deve essere collocato prevalentemente presso la madre, quale genitore che avrebbe meglio garantito il rispetto verso padre ed il mantenimento dei rapporti con quest’ultimo.

Il padre pur di vedersi riconosciute le migliori qualità genitoriali rispetto alla madre ha fatto ricorso fino alla Cassazione, ritenendo che la sentenza di Appello non avrebbe considerato una parte della CTU che aveva descritto la madre come: “poco sincera, ansiosa, perplessa ipervigile rigida, irritabile, critica, polemica eccitata psicomotoriamente, affetta da tremori ed irrequieta, demotivata e facilmente affaticabile”. L’uomo, inoltre, lamentava un’altra circostanza che gli avrebbe dato il diritto di essere riconosciuto quale genitore collocatario del minore al posto della madre: ovverosia, che il bambino non aveva mai abitato nella casa familiare e pertanto non ci sarebbe stato interesse alla conservazione “dell’habitat” precedente al disgregamento familiare.

La Cassazione, quanto all’affido condiviso e alla collocazione presso la madre, ha confermato la decisione dei Giudici di secondo grado, che hanno ritenuto la madre quella figura genitoriale in grado di garantire continuità di rapporto con entrambi i genitori.

Ma ciò che interessa nel caso in esame è l’innovativo principio espresso dalla Cassazione, in merito alla definizione di casa familiare ai fini del provvedimento di assegnazione ad uno dei genitori.

L’art. 337 sexies c.c. nello stabilire a quale genitore dovrà essere attribuito il godimento dell’abitazione, indica un solo criterio: l’interesse dei figli. Però non ci dice quali caratteristiche deve avere tale peculiare destinazione.

La giurisprudenza di legittimità ha sempre escluso che possa essere qualificata come casa familiare, l’immobile in cui la coppia coniugata o non coniugata non abbia mai convissuto prima della nascita del figlio.

Ma la Cassazione come ha risolto il caso di specie, ove i genitori hanno vissuto insieme per qualche anno nella casa familiare?

E’ stata considerato determinante per sciogliere il dubbio, il fatto che i genitori hanno acquistato in comunione legale un immobile per destinarlo ad abitazione familiare e poi vi hanno anche convissuto stabilmente per 5 anni prima della cessazione della convivenza.

Se la casa coniugale era preesistente alla nascita del figlio minore e il temporaneo allontanamento è dovuto a un conflitto tra genitori, quell’immobile continua ad essere il centro di aggregazione della famiglia e quindi non potrà che essere destinato a casa familiare.

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Sospensione in appello: può essere parziale e limitata alle spese legali.

Tutti sanno che, qualora una sentenza venga ritenta illegittima o ingiusta, si hanno disposizione gli ordinari mezzi di impugnazione previsti dal nostro ordinamento per poter far valere i propri diritti.

Cosa succede se in una sentenza di primo grado nella motivazione si dice che le spese legali devono essere compensate a causa della reciproca soccombenza, mentre nel dispositivo si condanna la parte soccombente a rifondere le spese processuali a quella vittoriosa?

La questione sulle spese processuali, è già stata oggetto di svariate dispute giurisprudenziali e dottrinali, fino alla pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione la n. 16037 del 2010, ove si è stabilito che se il giudice omette di provvedere sulle spese legali, l’unico rimedio esperibile, in assenza di un’espressa indicazione legislativa, sarà il procedimento di correzione degli errori materiali (articoli 287 e 288 c.p.c.).

Ma, non è sempre così. Una sentenza che non si pronuncia, oppure si pronuncia in maniera sbagliata sulle spese processuali, non può essere semplicemente “corretta” con l’ausilio del procedimento di correzione degli errori materiali; anzi sarà necessario in alcuni casi ricorrere agli ordinari mezzi di impugnazione (Appello o Cassazione).

La domanda che viene spontanea porsi è: quale rimedio giuridico posso invocare? Correzione errore materiale, appello, cassazione? Posso utilizzare prima l’uno poi l’altro?

Un interessante pronuncia della Corte D’Appello Bologna del 19/01/2016, ci aiuta a capire come stanno le cose.

Nel caso sottoposto ai giudici della Corte d’Appello, si evince che nella motivazione della sentenza di primo grado il Giudice compensava le spese legali in virtù della reciproca soccombenza, mente nel dispositivo lo stesso Giudice condannava la parte soccombente al pagamento delle spese processuali.

Proposta istanza di correzione dell’errore materiale, il Giudice di primo grado la rigettava, deducendo che l’istanza di correzione dell’errore materiale poteva essere invocata solo per correggere una mera svista o una disattenzione nella redazione del provvedimento, senza intaccare il contenuto sostanziale e concettuale della decisione.

Ecco che allora, nel caso in esame si è fatto ricorso all’appello, per far valere il vizio concernente la statuizione delle spese processuali, chiedendo altresì la sospensione della provvisoria esecuzione della sentenza di primo grado.

I giudici dell’Appello, accolta la sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza ma limitatamente alle sole spese processuali, hanno ritenuto che la statuizione sulle spese non poteva essere corretta con lo strumento dell’errore, trattandosi di un vizio che comporta una pronuncia giudiziale sulla prevalenza o meno della soccombenza.

In calce la pronuncia integrale della Corte D’Appello Di Bologna

 

REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE D’APPELLO DI BOLOGNA

Sezione 1^ Civile

Riunita in Camera di consiglio in persona dei Signori Magistrati:

dott. Fausto Casari Presidente rel.

dott. Francesco Paris oli Consigliere

dott. Riccardo Di Pasquale Consigliere

Letti gli atti del procedimento n. 2014/2015 R. G. A. C. e sciogliendo la riserva di cui all’udienza del 12/1/2016;

OSSERVA

B*** G*** propone istanza di sospensione relativamente alla sentenza del Tribunale di Modena n. 302/2015 pubblicata il 24/2/2015 con la quale, accertato il godimento esclusivo da parte sua di certi beni, quindi anche per le quote di proprietà di B*** A***, B*** S*** e V*** L***, lo si condanna a corrispondere a costoro la somma di Euro 1000 per ogni mese di godimento a far tempo dal 21/9/2006, oltre spese processuali (per Euro 9000 circa) .

Sotto il profilo del fumus, l’istanza di sospensione non è fondata quanto alla condanna al pagamento di una somma a titolo di indennità da uso esclusivo. Le censure alla appellata sentenza non appaiono infatti individuarne motivi di nullità oppure errori gravi o immediatamente apprezzabili, risultando, infatti, al sommario esame qui consentito,correttamente motivata in fatto ed in diritto.

Venendo però alla statuizione riguardante le spese processuali, dalla lettura della sentenza si ricava che parte ora appellata tardivamente, solo con la memoria depositata ai sensi dell’art. 183 c. 6 c.p.c., propose domanda di scioglimento della comunione. Per il resto il giudizio si è concluso con l’accoglimento delle domande tempestivamente proposte e dunque quella di accertamento dell’uso esclusivo, di corresponsione della relativa indennità e infine quella di rendiconto. Ebbene la la motivazione specifica che le spese “vanno compensate attesa la reciproca soccombenza, con riferimento s parte attrice quanto alla domanda di divisione”. Nel dispositivo poi si legge: “Dichiara tenuto e condanna B*** G*** a rifondere le spese processuali del presente giudizio… ”

Proposta istanza di correzione il Tribunale la rigetta osservando che quanto accaduto non è compatibile solo con l’ipotesi di un difetto di corrispondenza tra ideazione e sua rappresentazione grafica, ma anche con un giudizio di prevalenza della soccombenza di B*** G*** rispetto alla espressamente menzionata domanda di divisione.

Tutto ciò considerato ritiene allora la corte che l’istanza di sospensione debba essere accolta limitatamente alla condanna a rifondere le spese processuali.

P. Q. M.

sospende l’efficacia esecutiva della sentenza del Tribunale di Modena n. 302/2015 pubblicata il 24/2/2015 limitatamente alla statuizione riguardante le spese processuali a carico di B*** G***; invita le parti a precisare le conclusioni fissando a tale scopo l’udienza del 26/5/2020 ore 11:00.

Si comunichi

Così deciso in Bologna, Camera di Consiglio della prima Sezione civile, il 19/1/2016

 

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Opposizione a decreto ingiuntivo: occorre la mediazione?

Il tema della necessaria instaurazione della mediazione obbligatoria nei procedimenti di opposizione a decreto ingiuntivo è stata, negli ultimi tempi, fioriera di vivaci dibattiti in seno alla giurisprudenza di merito.

Com’è noto, ai sensi dell’art. 5, 4° comma D.lgs n. 28/2010, il tentativo di conciliazione nei procedimenti per ingiunzione, inclusa l’opposizione, può essere esperito «fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione».

Naturalmente, l’obbligatorietà della mediazione “scatta” quando l’oggetto della controversia ricade su quelle materie espressamente menzionate dall’art. D.Lgs. 28/2010, ovverosia: condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari.

Il Giudice, dopo che si sarà pronunciato sulla provvisoria esecuzione del decreto e, proprio quando si accingerà a decidere il merito della controversia, concederà i termini alle parti per esperire il tentativo di conciliazione ai sensi comma 1 dell’art.5 del citato decreto.

Qual’è allora il rischio di instaurare un giudizio di opposizione, senza aver prima esperito il tentativo di conciliazione?

Purtroppo, a causa dell’imprecisa formulazione normativa, una parte della giurisprudenza di merito ha ritenuto improcedibile l’opposizione a decreto ingiuntivo, con conseguente declaratoria di “definitività” del decreto opposto (ordinanza del Tribunale di Varese del 18 maggio 2012). Altra parte della giurisprudenza di merito, di contro, ha ritenuto che  – se non ci sono istanze delle parti inerenti la provvisoria esecuzione del decreto – il Giudice già alla prima udienza ex art. 183 c.p.c. oltre a dichiarare improcedibile l’opposizione potrebbe revocare l’originario decreto ingiuntivo emesso (recentemente Tribunale di Firenze sentenza del 30 ottobre 2014). Quest’ultimo orientamento, non può che penalizzare fortemente i creditori convenuti, che se non hanno dato impulso alla procedura di mediazione obbligatoria, si vedono sfumare le loro ragioni creditorie con la grave sanzione della revoca del decreto ingiuntivo a suo tempo emesso.

E’ giusto che l’onere di introdurre il percorso obbligatorio di mediazione gravi sul creditore, visto che la legge non dice nulla in proposito?

La Corte di Cassazione, terza sezione civile, con la sentenza n. 24269 del 3 dicembre 2015 precisa che è sull’opponente che deve gravare l’onere della mediazione obbligatoria perché è quest’ultimo che intende percorrere la via lunga instaurando un giudizio contenzioso ordinario.

Nel caso sottoposto all’esame della Corte, il giudice di secondo grado aveva dichiarato l’improcedibilità di un opposizione a decreto ingiuntivo avente ad oggetto il mancato pagamento dei canoni di locazione, in quanto non era stato dato avvio alla mediazione obbligatoria ex D.LGS. 2010 n. 28.

Essendo a carico dell’opponente il potere e l’interesse ad introdurre il giudizio di merito, non può che gravare sui di lui l’onere della mediazione obbligatoria, diversamente l’opposizione sarà improcedibile pena il consolidamento degli effetti del decreto ingiuntivo ex art. 653 c.p.c. 

Una pronuncia condivisibile; una diversa soluzione sarebbe palesemente irrazionale, perché premierebbe la passività dell’opponente ed accrescerebbe gli oneri della parte creditrice.

Del resto, ci si domanda a quale logica di efficienza risponda una interpretazione che accolli al creditore del decreto ingiuntivo l’onere di effettuare il tentativo di mediazione quando ancora non si sa se ci sarà l’opposizione allo stesso decreto ingiuntivo. D’altronde nella maggior parte dei casi le opposizioni a decreto ingiuntivo sono promosse dai debitori con meri scopi dilatori, al solo fine di procrastinare il pagamento della somma ingiunta.

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Mediazione civile in appello: si può fare?

Con ordinanza del 1 ottobre 2015, la Seconda Sezione Civile della Corte D’appello di Firenze, ha invitato le parti processuali ad esperire il procedimento di mediazione dinanzi ad un organismo da loro scelto in base ai criteri dettati dall’art, 4 del D.lgs n. 28/2010, assegnando alle medesime il termine di giorni quindici per il deposito della domanda.
Contrariamente a quanto spesso si ritiene, nel riscrivere parzialmente la normativa di cui al d.lgs. 28/2010, il legislatore ha previsto la possibilità per il giudice dell’appello di disporre l’esperimento del procedimento di mediazione (cd. mediazione ex officio), come condizione di procedibilità per la prosecuzione del giudizio.
Trattandosi di un mero ampliamento dei poteri discrezionali del magistrato, la norma si applica anche ai procedimenti pendenti in secondo grado.
Il provvedimento che si segnala per la sua particolare attualità, probabilmente è una delle prime pronunce in Italia.
Nella controversia oggetto d’esame, l’appellante ha impugnato una sentenza del Tribuna?e di Firenze, con la quale veniva rigettata la domanda volta ad ottenere una pronuncia ex art. 2932 c.c., produttiva degli effetti del contratto definitivo di compravendita non concluso.
La scelta di disporre la mediazione adottata dalla Corte D’appello di Firenze non è stata dettata dall’oggetto principale della lite, ovverosia il trasferimento coattivo dell’immobile, bensì dalla domanda di risarcimento dei danni invocata dall’appellante.
Deve, a questo proposito, precisarsi che lo strumento della mediazione, nell’ambito di quei sistemi di risoluzione dei contenziosi diversi dalla giurisdizione, potrebbe offrire uno sguardo diverso ai conflitti tra le parti.
Viene al riguardo in rilievo, una sperimentazione adottata dal Tribunale di Firenze nell’anno 2009, ancor prima che nelle aule dei Tribunali e negli scritti degli Avvocati si discutesse sulla utilità o meno della mediazione.
Il Progetto Nausicaa – così si chiama- nasce il 01 dicembre del 2009 proprio come “conciliazione delegata dagli uffici giudiziari”.
I firmatari del progetto erano l’Osservatorio sulla giustizia civile di Firenze, la Regione Toscana, la Facoltà di Giurisprudenza, la Camera di commercio di Firenze e l’Organismo di conciliazione di Firenze–OCF.
Secondo le intenzioni dei sottoscrittori del Protocollo d’intesa, Il Progetto Nausicaa avrebbe dovuto concentrarsi sulla promozione della «cultura della mediazione» tra tutti gli operatori coinvolti (magistrati e professionisti), al solo fine di superare le diffidenze e le indifferenze che attanagliano da sempre l’istituto della media-conciliazione.
Nella mia esperienza giuridica di avvocato la mediazione delegata dal giudice non ha portato ai risultati conciliativi sperati e le parti non si sono presentate neanche al primo incontro.
E anche vero che i giudizi d’appello oggi pagano il prezzo più alto, in termini di accumulazione di processi arretrati, e le prime udienze di regola di svolgono dopo 3 anni dall’iscrizione a ruolo della causa.
Che piaccia o meno la mediazione, che si nutra o meno fiducia in questo istituto, esso rappresenta un metodo per gestire in modo più rapido le controversie tra le parti processuali.
Non ci sono alternative alla lunga durata dei procedimenti di appello.
Ecco che allora, che la mediazione, quale rivoluzione culturale in forte espansione, potrà portarci a risolvere i conflitti in modo nuovo, all’interno del quali l’avvocato non potrà che rivestire un ruolo strategico.
Attenzione, sia per il Tribunale di Firenze che per la Corte d’Appello, la mediazione è valida solo se all’incontro partecipano personalmente le parti assistite dai rispettivi Avvocati, una mediazione con la presenza dei soli avvocati è invalida e potrebbe rendere improcedibile la causa.