Mi sono trasferito a casa della mia compagna che vive in un complesso formato da 2 appartamenti un’officina ed una villetta… noi siamo nel secondo appartamento e sotto di noi c’è lo zio della mia compagna. Oggi tornando a casa ho parcheggiato come al solito all’interno del cortile e sono andato su in casa con mia figlia… Dopo un paio d’ore siamo scesi per andare a prendere la mia compagna in stazione, ma la moglie dello zio ha parcheggiato volutamente la sua macchina dietro la mia per impedirmi di uscire… ho citofonato e mi ha preso a parolacce dicendo che la macchina l’avrebbe spostata quando voleva e così la mia compagna è dovuta tornare a piedi dalla stazione ed io sono rimasto bloccato. Posso fare qualcosa far finire queste prepotenze? Ho fatto un video del parcheggio
Comportamenti di questo genere secondo i giudici integrano il reato di violenza privata.
Non ti consiglierei, tuttavia, di presentare direttamente una denuncia, ma di spedire una diffida alla responsabile di tale gesto, chiedendo appunto che una condotta di questo tipo non si ripeta in futuro, sotto pena, in difetto, di presentazione appunto della denuncia.
Nella diffida, inoltre, puoi chiedere il risarcimento del danno che hai subito per non aver potuto utilizzare il tuo veicolo a causa del blocco «doloso».
Se la responsabile dell’illecito si assume l’impegno di evitare comportamenti del genere in futuro, e risarcisce, anche se con ammontare modesto e/o simbolico, il danno che hai subito, puoi valutare di non presentare la denuncia; viceversa in caso contrario.
Se vuoi approfondire maggiormente, e/o procedere con l’invio della diffida, chiama il numero 059 761926 e concorda il tuo appuntamento, che potrà essere anche via telefono o videocall ovviamente; se preferisci, puoi anche acquistare direttamente da qui, in questo caso sarà poi il mio ufficio a contattarti per concordare giorno ed ora della riunione sul tuo caso.
Iscriviti oggi stesso al blog per iniziare a ricevere gratuitamente contenuti come questo, utili per sapersi gestire nelle situazioni legali che ti possono capitare nella vita.
ho appena terminato una causa civile di danneggiamento dove ero parte offesa, la giudice però non vuole pagarmi nulla se non una somma misera di 50 euro perché dice che alla domanda non sono stati quantificati i danni materiali, oltretutto non mi da neanche il danno morale, il fatto risale a marzo 2014 e poi si era depenalizzato con conseguente causa civile, come posso fare ora per recuperare i danni? Il fatto accaduto in condominio, il vicino di casa si permetteva di entrare nella scala mia per distruggere violenza i vasi e piante, vasi terracotta scaraventandoli da un altezza di 5 /6.metri.
Se hai «appena terminato una causa civile» ci sarà una sentenza che la definisce.
Se l’ipotesi è questa, allora la situazione è, di conseguenza, la seguente: – l’unico modo per tentare di cambiare quanto deciso nella sentenza è impugnarla, probabilmente con appello; – nel caso in cui non venga proposto appello, o comunque impugnazione, nei termini previsti dalla legge, la sentenza diventerà per sempre definitiva, a prescindere da qualsiasi questione a riguardo, da chi avesse ragione o torto e in che misura.
A questo va aggiunto che se non hai fornito una idonea dimostrazione del danno nel corso del giudizio di primo grado non potrai farlo in secondo grado, perché in appello è vietato salvo eccezioni di abbastanza rara applicazione introdurre nuove prove.
Per cui, l’appello potrebbe essere valutato solo se tu avessi introdotto prove sufficienti del danno che il giudice di primo grado avrebbe sbagliato a valutare: ad esempio avevi messo una ricevuta che il giudice ha ritenuto prova non valida, ma che puoi chiedere al giudice di secondo grado, cioè di appello, di ritenere, a contrario, prova valida.
Se, invece, le prove non sono proprio state richieste, allora l’appello sarebbe molto probabilmente non solo inutile ma anche controproducente, perché anche in quella sede potresti essere condannato alle spese legali.
Se vuoi farci esaminare le possibilità di impugnazione, il prodotto da valutare sarebbe questo anche se ti consiglio di riflettere bene sulla convenienza di spendere ulteriore denaro e investire ancora sulla vertenza.
Iscriviti al blog per ricevere il post del giorno, tutti i giorni alle sette, dal lunedì al venerdì, e restare legato al più utile blog giuridico e personale italiano, per evitare altre situazioni spiacevoli in futuro.
Oggi ti voglio parlare di un modo molto interessante per risolvere situazioni penali introdotto nel 2017 e che, a mio giudizio, non ancora tutti conoscono e applicano come invece si potrebbe per uscire da procedimenti penali nel modo migliore.
Si tratta dell’estinzione del reato per eliminazione delle conseguenze dell’illecito o, anche solo, offerta di eliminazione effettuata alla vittima del reato.
L’istituto è previsto dal nuovo art 162 ter c.p., introdotto dalla Legge 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario).
Leggiamolo insieme:
«Nei casi di procedibilità a querela soggetta a remissione, il giudice dichiara estinto il reato, sentite le parti e la persona offesa, quando l’imputato ha riparato interamente, entro il termine massimo della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, il danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e ha eliminato, ove possibile, le conseguenze dannose o pericolose del reato. Il risarcimento del danno può essere riconosciuto anche in seguito ad offerta reale ai sensi degli articoli 1208 e seguenti del codice civile, formulata dall’imputato e non accettata dalla persona offesa, ove il giudice riconosca la congruità della somma offerta a tale titolo.
Quando dimostra di non aver potuto adempiere, per fatto a lui non addebitabile, entro il termine di cui al primo comma, l’imputato può chiedere al giudice la fissazione di un ulteriore termine, non superiore a sei mesi, per provvedere al pagamento, anche in forma rateale, di quanto dovuto a titolo di risarcimento; in tal caso il giudice, se accoglie la richiesta, ordina la sospensione del processo e fissa la successiva udienza alla scadenza del termine stabilito e comunque non oltre novanta giorni dalla predetta scadenza, imponendo specifiche prescrizioni. Durante la sospensione del processo, il corso della prescrizione resta sospeso. Si applica l’articolo 240, secondo comma.
Il giudice dichiara l’estinzione del reato, di cui al primo comma, all’esito positivo delle condotte riparatorie».
Lo spirito e l’ambito di applicazione della riforma.
L’intervento normativo che ha introdotto questo istituto si inserisce in un più ampio sistema di riforma dell’ordinamento penale, sia sostanziale che processuale, avviato dalla Riforma Orlando, inteso a “deflazionare il numero di procedimenti penali e comunque a realizzare una rapida definizione degli stessi, determinando effetti di risparmio in termini di spese processuali e di impiego di risorse umane e strumentali” (come si legge nella Relazione tecnica al testo originario).
Attraverso l’estinzione del reato mediante condotte riparatorie, lo Stato, normalmente portatore di un interesse pubblicistico alla repressione penale, rinuncia, per ragioni di politica criminale, alla punizione del colpevole, relativamente a quei reati in cui alla persona offesa è sufficiente un ristoro patrimoniale.
Tutto questo vuol dire che, siccome la giustizia è al collasso, e non si riescono a fare i processi per tutti i reati che vengono commessi, si aprono strade di uscita in cui, a determinate condizioni, si consente agli indagati di definire il procedimento.
Collocato nella parte del Codice Penale dedicata alle cause di estinzione del reato, l’art. 162 ter reca la rubrica “Estinzione del reato per condotte riparatorie”.
Si tratta, nello specifico, di una causa di estinzione del reatoa portata generale, cioè applicabile, sul piano astratto, a qualsiasi fattispecie criminosa, salvo alcune precisazioni che si andranno ad illustrare a breve; a natura ‘personale’, dovendo l’iniziativa provenire necessariamente dalla volontà dall’imputato.
La riparazione in caso di concorso di persone.
Relativamente a questo secondo aspetto, è bene precisare che, laddove il reato sia stato commesso da più persone in concorso, la causa estintiva opererà per il solo imputato che abbia risarcito il danno, con la conseguenza della non estensibilità della declaratoria di estinzione del reato a favore dei correi inadempienti, come previsto dalla disposizione generale di cui all’art. 182 c.p. Così, ad esempio, nel caso in cui il danno cagionato dal reato (ad esempio da un furto) venga risarcito da uno solo dei tre responsabili, gli altri due imputati non potranno automaticamente beneficiare della declaratoria estintiva pronunciata in giudizio in favore del correo, dovendo necessariamente ritenersi circoscritti gli effetti di questa pronuncia al solo imputato da cui sia concretamente promanata l’iniziativa riparatrice ritenuta congrua dal giudice.
Presupposti di applicabilità.
Procedendo nell’analisi dell’art. 162 ter, si rileva immediatamente la necessaria compresenza di due requisiti, ai fini della sua applicabilità:
la verificazione di un reato procedibile a querela di parte (senza limitazioni relative alla cornice edittale), purché rimettibile: rimangono inevitabilmente esclusi dall’ambito applicativo dell’istituto i reati procedibili d’ufficio e quelli perseguibili a querela irretrattabile, quelli, cioè, per i quali il nostro ordinamento prevede che, una volta che sia stata presentata regolare querela da parte della persona offesa, questa non possa più essere rimessa: in questo senso, pertanto, esulano dall’operatività dell’art. 162 ter c.p. i reati di violenza sessuale ex art. 609-bis e di atti sessuali con minorenne ex 609-quater c.p.
la mancata remissione di querela da parte della persona offesa, in seguito alla riparazione del danno da parte del reo. Se vi fosse remissione, infatti, il procedimento penale dovrebbe giungere a naturale estinzione per mancanza di condizione di procedibilità, senza nemmeno passare al vaglio di merito del giudice (ma si dovrebbe arrestare all’accoglimento del G.I.P. della richiesta di archiviazione del PM nella fase delle indagini preliminari), mentre per l’applicabilità dell’art. 162 ter c.p. è necessario giungere alla fase dibattimentale del procedimento penale, come previsto dalla lettera della norma.
Non si applica allo stalking.
Merita un accenno una fattispecie delittuosa particolarmente stigmatizzata nell’attuale contesto sociale, ovvero il reato di atti persecutori disciplinato dall’art. 612 bis c.p. (cd. “stalking”), per il quale inizialmente era ammessa l’estinzione del reato per condotte riparatorie, salvo che il fatto non fosse stato commesso a danno di un minore o di una persona con disabilità (ipotesi procedibili d’ufficio).
Tuttavia, da subito si levarono numerose polemiche in relazione a quei casi in cui fu dichiarato estinto il reato per effetto della mera offerta reale formulata dall’imputato, avente ad oggetto la dazione di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno subito dalla vittima, nonostante il dissenso di quest’ultima.
Per questa ragione, solo qualche mese dopo l’introduzione dell’istituto, il legislatore, con la Legge 4 dicembre 2017 n. 172, è andato ad aggiungere all’art. 162 ter c.p. il seguente comma: “Le disposizioni del presente articolo non si applicano nei casi di cui all’articolo 612 bis”, in tal modo escludendo espressamente l’operatività dell’istituto al reato di atti persecutori.
Le condotte riparatorie.
Entrando nel merito dell’istituto, si osserva che la norma articola le condotte riparatorie in due ipotesi alternative:
condotta riparatoria integrale, congiunta, ove possibile, alla eliminazione delle conseguenze dannose della azione (la norma recita infatti “quando l’imputato ha riparato interamente … il danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e ha eliminato, ove possibile, le conseguenze dannose o pericolose del reato”). Tale comportamento dovrà necessariamente avvenire “entro il termine massimo della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado”, salva la concessione del termine di sei mesi qualora l’imputato provi che, per causa a lui non imputabile, non sia stato in grado di adempiere alle condotte riparatorie entro il termine ordinario richiesto dalla disposizione (art. 162 ter c.p., II comma). Il fatto non addebitabile va individuato in tutte quelle situazioni di difficoltà di pagamento, tali per cui il termine non viene verosimilmente quasi mai negato, come accade negli sfratti per morosità, dove viene sovente concesso il cosiddetto “termine di grazia. Se il giudice decide di accogliere la richiesta, fissa un termine, non superiore a sei mesi, per permettere all’imputato di provvedere al pagamento, anche in forma rateale, di quanto dovuto a titolo di risarcimento; a questo scopo, ordina la sospensione del processo e fissa la successiva udienza alla scadenza del termine stabilito e comunque non oltre novanta giorni dalla predetta scadenza, imponendo specifiche prescrizioni. Durante la sospensione del processo, il corso della prescrizione resta sospeso.
condotta riparatoria realizzata mediante presentazione di un’offerta reale, e successivo deposito, secondo quanto previsto dagli artt. 1208 e ss. c.c., in caso di mancata accettazione da parte della persona offesa e comunque fatto salvo il giudizio di congruità del giudice di merito. In questa ipotesi, stante il richiamo alla disposizione civilistica, è necessario che vengano rispettate alcune prescrizioni, ovvero, anzitutto, che il creditore (persona offesa) sia soggetto capace di ricevere, che l’offerta sia formulata dall’imputato che possa validamente adempiere, ed infine che la riparazione sia completa, ovvero comprensiva della totalità della somma o delle cose dovute. In seguito all’offerta, evidentemente non accettata dalla persona offesa, il giudice ne valuterà la congruità e potrà dichiarare in seguito l’estinzione del reato una volta che l’imputato abbia eseguito il deposito nelle forme stabilite dall’art. 1210 c.c. In particolare, il risarcimento può essere effettuato “banco iudicis”, purché venga accettato (e sia data prova, come sopra si è visto, della sua effettuazione); laddove, invece, la persona offesa non intenda accettare la somma offerta a titolo di risarcimento, posto che l’obbligazione risarcitoria ha per oggetto la dazione di una somma di denaro, occorrerà procedere al deposito della somma offerta presso un istituto bancario: in questo caso, la comunicazione fatta dal debitore al creditore dell’accettazione manifestata dall’intermediario abilitato ad eseguire il trasferimento produrrà gli stessi effetti del deposito previsto dall’art. 1210 c.c. Compiute tutte queste formalità, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, l’imputato dovrà produrne copia, affinché il giudice possa, sentite le parti e la persona offesa, e valutata congrua l’offerta rifiutata, pronunciare la declaratoria (non impugnabile) di estinzione del reato, fatto salvo, ad ogni modo, il potere della persona offesa di richiedere in via civile il ristoro che essa ritiene più congruo.
Cosa deve fare dunque l’autore del reato?
La norma non specifica quale debba essere effettivamente il danno ristorabile, prevedendo unicamente che il danno civile sia riparato “interamente” e che l’eliminazione delle conseguenze offensive avvenga solamente “ove possibile”.
Attualmente, un orientamento dottrinale consolidato ritiene che l’imputato debba porre rimedio ad entrambi i tipi di conseguenze pregiudizievoli sofferte dalla persona offesa, ovvero, sia al “danno civile”, che al “danno criminale”. Per quanto attiene al “danno civile”, l’art. 162ter c.p. attinge con tutta evidenza al testo dell’art. 185 c.p., il quale, nel disciplinare le obbligazioni di natura civilistica scaturenti dall’illecito penale, sancisce per l’appunto l’obbligo delle restituzioni, e l’obbligo del “risarcimento del danno patrimoniale o non patrimoniale” cagionato dal reato. Per quanto attiene invece al “danno criminale”, laddove l’articolo in commento menziona le “conseguenze dannose o pericolose del reato” allude evidentemente all’offesa del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, elemento necessario per la sussistenza del reato.
Al fine di vagliare l’integralità della riparazione del danno, la norma prevede che il giudice, prima di dichiarare estinto il reato, proceda all’audizione (delle parti e) della vittima del reato, ponendosi tale adempimento come momento che, pur se necessario nell’ambito della valutazione circa la sussistenza degli elementi costitutivi della fattispecie riparatoria, non assume tuttavia efficacia vincolante nel contenuto, potendo addirittura essere valutata congrua la proposta riparativa anche in caso di un manifesto diniego della persona offesa. Ciò significa che le esigenze espresse da quest’ultima saranno dunque acquisite dall’organo giudicante, senza però risultare vincolanti nel merito, limitandosi a porsi unicamente come momento di realizzazione del contraddittorio nell’accertamento dei presupposti riparatori dell’estinzione.
È ovvio che nella pratica è bene far precedere sia l’offerta reale che la condotta riparatoria da una trattativa, tramite un avvocato, con la vittima del reato, in modo da vedere se possibile raggiungere un accordo in cui, a seguito dell’esecuzione di una determinata prestazione, come ad esempio il pagamento di una somma di denaro, la vittima si dichiara integralmente risarcita, soddisfatta e tacitata.
Effetti: cosa comporta.
In merito agli effetti dell’applicazione di tale causa estintiva, la dichiarazione di estinzione del reato per effetto delle condotte riparatorie dell’imputato travolge non solo le pene principali e le pene accessorie, ma anche gli effetti penali della condanna e le misure di sicurezza.
Restano efficaci invece gli effetti della confisca obbligatoria, prevista dall’art. 240 comma, secondo comma, c.p., dal momento che l’eventuale pronuncia del giudice penale circa l’estinzione del reato non riveste autorità di giudicato nel giudizio civile.
La causa di estinzione del reato, peraltro, non comporta l’estinzione delle obbligazioni civili derivanti da illecito, pertanto la persona offesa che non reputi soddisfacente e proporzionata all’entità del danno subito la somma deliberata dal giudice penale, eventualmente, può decidere di adire il giudice civile per ottenere una quantificazione più adeguata dello stesso.
Problemi di coordinamento.
La riparazione dal giudice di pace.
Ciò posto, si può considerare come l’art. 162 ter c.p. ponga inevitabilmente problemi di coordinamento con istituti riparatori preesistenti di tipo settoriale, in primo luogo con l’art. 35, D. Lgs. n. 274/2000, che prevede l’estinzione del reato in seguito alla condotta riparatoria da parte dell’imputato nei procedimenti penali di competenza del Giudice di Pace.
Rispetto a questa figura, tuttavia, l’istituto previsto dall’art. 162 ter c.p. si differenzia per la assoluta estraneità di esigenze di conciliazione, di prevenzione di futuri reati e di rieducazione del colpevole: il fondamento teorico dell’istituto previsto dall’art. 162 ter c.p., infatti, non contempla logiche di giustizia riparativa, avendo il legislatore chiaramente mostrato di volere riconnettere esclusiva efficacia al solo fattore della congruità delle condotte riparatorie in relazione alla consistenza del danno arrecato, al fine della declaratoria di estinzione del reato. Qualora, infatti, il giudice reputi le condotte riparatorie congrue, a nulla varrebbe, come detto, un eventuale dissenso della vittima, intenzionata a proseguire nell’azione penale, ma dovrà essere dichiarato estinto il reato.
I commi 1 e 2 dell’art. 35, invece, dispongono che “Il Giudice di Pace, sentite le parti e l’eventuale persona offesa, dichiara con sentenza estinto il reato, enunciandone la causa nel dispositivo, quando l’imputato dimostra di aver proceduto, prima dell’udienza di comparizione, alla riparazione del danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e di aver eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato” e “Il Giudice di Pace pronuncia la sentenza di estinzione del reato di cui al comma 1 solose ritiene le attività risarcitorie e riparatorie idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione”. E’ opinione consolidata, infatti, che la ratio dell’art. 35 d.lgs. n. 274/2000, come del resto dell’intero sistema in cui esso è inserito, sia di tipo conciliativo, nel senso che l’Autorità giudiziaria deve sentire la parte offesa (o la parte civile costituita), il Pubblico Ministero e l’imputato, non solo per valutare l’idoneità delle condotte riparatorie a soddisfare l’esigenza di riprovazione della condotta criminosa tenuta, ma anche per verificare se da siffatte condotte sia possibile evincere un pentimento del reo.
A fronte di tali differenze, posto che l’art. 162 ter c.p. non costituisce un inutile doppione dell’art. 35 d.lgs. n. 274/2000, parte della dottrina sostiene l’astratta applicabilità dell’art.162 ter c.p. anche ai reati di competenza del Giudice di Pace. Tuttavia, la scarsa attenzione alla vittima e l’assenza di contatti conciliativi tra questa e l’imputato si scontrano con l’onere del Giudice di Pace di coltivare durante l’intero corso del procedimento un dialogo conciliativo tra le parti. Il processo penale davanti al Giudice di Pace, infatti, è caratterizzato da un costante promovimento della conciliazione tra le parti, come affermato nella disposizione che ne enuncia i ‘principi generali’ (art. 2, co. 2: Nel corso del procedimento, il giudice di pace deve favorire, per quanto possibile, la conciliazione tra le parti). Pertanto, mentre la disciplina ‘speciale’ di cui all’art. 35 d.lgs. 274/2000 appare perfettamente coerente con tale canone conciliativo, mirando in definitiva a stimolare il ravvedimento dell’imputato fondato sull’esatta percezione del disvalore della propria condotta e sulla conseguente volontà di riparare il danno cagionato alla persona offesa (in un certo senso, quindi, di chiedere scusa all’offeso provvedendo a rimuovere tutti gli effetti pregiudizievoli derivanti dalla condotta lesiva), quella di cui all’art. 162 ter c.p. genera indubbiamente, se proiettata in questo contesto, un fortissimo attrito concettuale.
L’attenuante dell’avvenuta riparazione del danno
Concludendo, volendo accennare brevemente al rapporto tra la causa estintiva del reato prevista dall’art. 162 ter c.p. e gli altri istituti che attribuiscono peculiare rilevanza alle condotte riparatorie del reo, si può citare, in primis, la circostanza attenuante di cui all’art. 62 n. 6 c.p., secondo cui “Attenuano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze attenuanti speciali, le circostanze seguenti: 6) l’avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno, mediante il risarcimento di esso, e, quando sia possibile, mediante le restituzioni; o l’essersi prima del giudizio e fuori del caso preveduto nell’ultimo capoverso dell’articolo 56, adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato”. Considerato che il presupposto sostanziale di entrambe le figure è il medesimo, ovvero la riparazione del danno, si può comunque osservare che nel primo caso l’effetto è quello della estinzione del reato, mentre nel secondo solo l’attenuazione della pena; inoltre nella circostanza attenuante vi è alternatività tra la riparazione del danno tramite risarcimento o restituzioni, e l’essersi il reo adoperato per elidere o attenuare le conseguenze del reato, mentre per l’estinzione del reato ex art. 162 ter c.p., come già detto, l’imputato, per andare esente da sanzione, deve non solo risarcire interamente il danno all’offeso, ma anche eliminare ove possibile le conseguenze del reato. Pertanto, qualora l’imputato abbia riparato il danno ma non anche eliminato le conseguenze del reato, scartata l’applicabilità della causa estintiva, residua comunque la possibilità di attenuare la pena a norma dell’art. 62 n. 6 c.p., ipotesi peraltro configurabile anche qualora si sia in presenza di reati procedibili a querela irretrattabile o procedibili d’ufficio.
La particolare tenuità del fatto.
E’ inoltre evidente la somiglianza con l’istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto, previsto dall’art. 131 bis c.p., che, alla luce della limitata offensività del fatto commesso, consente di pervenire alla conclusione del processo penale mediante l’emissione di una sentenza di assoluzione, ma solo per i reati puniti con pena non superiore nel massimo a cinque anni. In tali ipotesi, i criteri di valutazione per il giudice sono quelli della modalità di estrinsecazione della condotta illecita e dell’esiguità del danno o del pericolo, che devono essere valutate ai sensi dell’art. 133, comma primo, c.p. La norma in questione prevede comunque un accertamento in merito alla commissione del fatto e all’elemento soggettivo (salvo che la dichiarazione non avvenga prima del dibattimento), pertanto la sentenza penale irrevocabile pronunciata ai sensi dell’art. 131 bis c.p. avrà efficacia di giudicato nel giudizio civile per le restituzioni e il risarcimento, e potrà quindi essere fatta valere in quella sede dalla persona offesa per il soddisfacimento delle proprie pretese risarcitorie.
La messa alla prova.
Quanto, infine, ai rapporti tra l’art. 162 ter c.p. e l’art. 168 bis c.p., che disciplina la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato, si ritiene che, stante la sostanziale coincidenza di presupposti, il ricorso alla sospensione del processo con messa alla prova potrebbe essere marginalizzato alle ipotesi in cui non è applicabile il 162 ter c.p., ad esempio quado il reato è procedibile d’ufficio.
Conclusioni.
Sei rimasto coinvolto in un procedimento penale per cui esistono i presupposti per la definizione tramite condotte riparatorie?
Chiedici un preventivo compilando il modulo apposito.
Se credi che questo approfondimento possa essere utile a qualcuno che conosci, mandaglielo, oppure se credi, condividilo pure sui social.
Iscriviti alla newsletter del blog per non perdere post importanti e utili come questo.
sono stato presumibilmente vittima di INGIURIA ad opera del mio ex-superiore gerarchico nell’azienda in cui ho lavorato fino a Novembre 2018. Vorrei per cortesia un preventivo per la lettura e valutazione di email in mio possesso per un riscontro sull’opportunità di procedere davanti a un giudice di pace per la richiesta di risarcimento del danno.
Il costo è sempre quello per la consulenza di base, che comprende anche la diffida e cioè la lettera di richiesta danni, di natura stragiudiziale, rivolta all’autore dell’illecito.
Una prima valutazione dell’opportunità di fare una causa civile al giudice di pace per il risarcimento del danno – l’ingiuria come sai è stata depenalizzata, e anche prima comunque era preferibile agire in sede civile – si può fare immediatamente, al momento del confezionamento della lettera, ma poi andrà rifatta o meglio integrata in base al riscontro che si otterrà o meno con la lettera.
Se vuoi procedere, dunque, intanto con una prima analisi di fattibilità e con la lettera, procedi con l’acquisto dalla pagina in questione.
Ti raccomando con l’occasione di iscriverti e restare iscritto al blog, in modo da non perdere importanti articoli in grado di farti evitare problemi e fregature nella vita di tutti i giorni.
licenziata dopo 30 anni con una mail. Ho fatto causa. Primo grado perso e vinto. La ditta condannata a reintegrarmi entro 3 giorni oppure a risarcire con 6 mesi di stipendio. Ovviamente non mi hanno ripresa e ho dovuto pignorarli per avere i 6 mesi. Hanno effettuato in Aprile 2018 un bonifico di circa 14.000€ con indicato: pagamento per sentenza X. Non ho ricevuto nessun dettaglio cartaceo. Ho chiesto al mio avvocato cosa fare di queste somme? se e come dichiararle? preciso che sono sempre disoccupata e senza reddito, e il licenziamento risale a 3 anni fa. Nel 2019 come mi devo comportare? faccio denuncia dei redditi? devo pagarci delle tasse? se si a quanto ammontano? come faccio il calcolo? La ditta non avrebbe dovuto inviarmi i conteggi? o versare una Ritenuta Acconto? vi prego aiutatemi… il mio avvocato diceva che i soldi erano netti non da dichiarare, ma mi sono documentata e temo non sia cosi.
Mi dispiace per la tua vicenda.
Come dico sempre, la materia fiscale e previdenziale non è quella che gli avvocati conoscono meglio, per giuste ragioni su cui non mette conto dilungarsi in questa occasione.
Su aspetti del genere, meglio sentire un commercialista o un consulente del lavoro.
In generale, credo che la somma che ti è stata liquidata non corrisponda e non possa essere considerata retribuzione, ma un risarcimento del danno che ti è stato cagionato con il licenziamento.
Se così fosse, ed è una cosa da verificare anche leggendo bene la sentenza, il regime fiscale e previdenziale sarebbe completamente diverso da quello cui sono assoggettate le somme corrispondenti a retribuzione.
Se credi, lo possiamo approfondire, tramite un’apposita consulenza, ma io ti consiglierei di investire prima i tuoi soldi nel parere di un bravo consulente del lavoro, che potrebbe magari sentirsi a riguardo con il legale che ti ha seguito per la causa di lavoro.
ho un’attività di rappresentanza di testi scolastici con deposito e sono in affitto . da circa tre anni (un anno dopo il nostro ingresso nel locale ) il proprietario del locale adiacente ha dato in affitto il proprio spazio a una ditta che fa lavaggio auto. Sulla parete che separa il nostro locale dal locale del lavaggio c’è tantissima umidità al punto che l’intonaco si stacca cadendo sui ripiani dove noi abbiamo i libri Un anno fa circa hanno eseguito i lavori di impermeabilizzazione nel fondo del lavaggio ma l’umidità continua ad essere , pezzi importanti di intonaco che si staccano , quindi tutti i ripiani sulla parete interessata sono inutilizzabili (circa 10/12 metri di muro per un’altezza di 2 metri ) il proprietario ha in corso denunce e varie liti legali con il proprietario del locale adiacente , ci ha promesso che farà di nuovo i lavori di ripristino ma intanto noi abbiamo disaggio e difficoltà a lavorare, posso chiedere danni? una diminuzione del canone?
Certamente sembrano esserci adeguate basi di fatto per poter richiedere una diminuzione del canone e magari il risarcimento del danno subito.
Per la diminuzione del canone, è noto che non si può praticamente autonomamente, ma va o concordata o prevista da un giudice all’interno di una causa civile, che però molti rinunciano a fare perché trattandosi di locazioni spesso non vale la pena coltivarle in sede giudiziale. Se la riduzione non è concordata, o prevista da un giudice, nel momento in cui, a forza di ridurre ogni mese una parte di canone, si arrivano a superare le due mensilità, il proprietario dell’immobile può intimare lo sfratto.
L’inadempimento, quantomeno parziale, a mio giudizio c’è, considerando che l’immobile non viene mantenuto in stato da servire all’uso cui è destinato, specialmente considerando lo smercio di materiale librario, anche se a riguardo bisognerebbe vedere cosa dice esattamente il contratto di locazione.
Attenzione che nelle locazioni commerciali lo sfratto non è sanabile come in quelle civili, non esiste il termine di grazia e non giova nemmeno pagare dopo l’intimazione dello sfratto perché vale il principio della cristallizzazione dell’inadempimento.
Per quanto riguarda la voce, ulteriore, di danno, va ricordato che ogni danno di cui si chiede il ristoro deve essere, salvo i casi in cui è ammessa la valutazione equitativa, puntualmente comprovato e dimostrato. Nel vostro caso, trattandosi di un danno economico, bisognerà pur avere qualche elemento a sostegno.
Quello che vi consiglierei di fare è di mettere per iscritto le vostre richieste mediante una diffida tramite avvocato, dopodiché si potrà valutare in base alla risposta, o alla mancata risposta, della proprietà, restando inteso che mi sembra comunque una situazione in cui il metodo principe è quello della negoziazione volta alla ricerca di un accordo.
Se vuoi consultare la nostra offerta per la diffida, ti puoi collegare a questa pagina.
Oggi voglio comunicarti che ho creato un nuovo prodotto nel nostro store legale, il ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che abbiamo scelto di tariffare peraltro in modo abbastanza contenuto per dare una possibilità in più a chi ha esaurito tutti i rimedi interni.
Come sempre, si tratta di un prodotto pacchettizzato a forfait, cioè a corpo per tutto il lavoro, in modo da dare massima chiarezza sui costi all’utente finale.
Nell’attesa di redigere e pubblicare a riguardo una scheda più approfondita, mi limito a dirti in questa occasione che si tratta di una forma di «impugnazione» o meglio ricorso che si può fare una volta che sono stati esauriti i mezzi offerti dall’ordinamento italiano.
Tipicamente, presenta ricorso alla CEDU chi ha perso la causa in Cassazione, ad esempio.
Con questo ricorso, non si può comunque più cambiare la decisione presa all’interno dello Stato italiano, cioè non si può mai ottenere una riforma della sentenza italiana, che rimane tale e quale, ma si può ottenere che lo Stato italiano venga condannato ad un risarcimento del danno, sempre che ovviamente nel modo in cui lo Stato ha esercitato la giurisdizione, cioè ha deciso il caso, ci sia stata la violazione dei diritti previsti dalla convenzione.
Prima di fare il ricorso, è importante esaminare il caso e vedere se ci sono adeguate basi legali per un’iniziativa del genere. Il lavoro da fare è molto importante, come avviene man mano che si accumula materiale e, quindi, il fascicolo diventa sempre più grande.
Il mio consiglio, se sei interessato ad un’iniziativa di questo genere, è sempre quello di acquistare, prima, una consulenza sull’impugnazione, appunto per verificare la presenza di adeguati presupposti. In seguito, in caso di risposta affermativa, potrai acquistare il prodotto completo.
Per ulteriori chiarimenti, puoi lasciare un commento qui sotto o contattarci dalla sezione apposita nel menu principale del blog. Ti raccomando, con l’occasione, di iscriverti alla newsletter del blog, o, se non ti piace la mail, al gruppo Telegram, in modo da non perderti importanti e utili aggiornamenti quotidiani.
sono un ragazzo di 19 anni. Al momento della mia nascita non sono stato riconosciuto da mio padre e sono stato mantenuto esclusivamente da mia madre per tutta la mia vita. Volevo sapere, ho il diritto di chiedere a mio padre gli alimenti arretrati? Se si, cosa debbo fare per far si che ciò avvenga?
Il primo passo è verificare con cura la sussistenza dei presupposti per fare l’azione di riconoscimento della paternità, di cui all’art. 269 cod. civ., rubricato «Dichiarazione giudiziale di paternità e maternità».
Se ho ben capito, infatti, tuo padre al momento è «solo» il tuo padre biologico, mentre a livello giuridico e legale non esiste alcun accertamento e, pertanto, nessun rapporto di filiazione.
Per poter chiedere qualcosa al tuo padre biologico, il presupposto indispensabile è che venga accertato, anche legalmente, il rapporto di paternità.
Per questo tipo di azione sono previsti dei presupposti, in sostanza occorre trovarsi in una situazione in cui sarebbe ammesso il riconoscimento. Un esempio di caso in cui questa azione non sarebbe ammessa sarebbe quello in cui tu fossi stato adottato da un altro uomo, oppure risultassi figlio «legittimo» (diciamo così per praticità, anche se il termine non esiste più) di un altro uomo, perché ad esempio tua madre al momento del concepimento era sposata con costui – faccio esempi astratti perché se dici che ti ha mantenuto sempre tua madre non è questo il tuo caso. Nella prima di queste ipotesi non si potrebbe fare nulla, nella seconda bisognerebbe prima fare un’altra causa di contestazione della legittimità – anche qui dopo attenta verifica dei presupposti – e poi l’azione di riconoscimento in capo al «vero» padre.
Se ci fossero adeguate basi legali per l’azione di riconoscimento della paternità, si potrebbe, in quella sede, chiedere un risarcimento del danno, che secondo i giudici viene determinato in via equitativa (Corte d’appello di Lecce, sentenza 07-07-2016) e «indennitaria» in capo a colui che sarebbe poi, eventualmente, accertato essere il tuo vero padre.
Il punto è anche che il mantenimento dovuto per la tua sussistenza non è mai stato adeguatamente liquidato da un giudice prima di adesso, cioè quantificato nel suo preciso ammontare. Ulteriormente, è impossibile da liquidare, anche a posteriori, perché oltre al mantenimento ordinario ci sono anche tante spese straordinarie che, dopo quasi vent’anni, non si può pretendere di ricostruire minuziosamente – la sentenza sopra citata dice ad esempio che essendo «impossibile pervenire ad una esatta determinazione del dovuto atteso che non è pensabile che la madre conservi scontrini o ricevute di tutte le spese sostenute nell’interesse della figlia, anche in considerazione del lungo tempo trascorso tra la nascita di quest’ultima e l’introduzione del giudizio di primo grado (anni 32)» si è ritenuto preferibile e legittimo «fare riferimento al criterio equitativo».
Peraltro, se si parlasse di mantenimento vero e proprio, ci sarebbe anche un altro problema. È vero che il diritto al mantenimento è imprescrittibile, ma le singole rate si prescrivono dopo 5 anni, se non richieste. Per cui, se ragionassimo nell’ambito di questa logica, se tu ottenessi il riconoscimento giudiziale potresti richiedere il mantenimento solo andando indietro di 5 anni dalla sentenza che accerta la paternità, cosa che sarebbe abbastanza iniqua, in fondo.
Per fortuna, i giudici di solito ragionano abbastanza diversamente, inquadrando la cosa più come un risarcimento del danno che come un mantenimento arretrato.
Se vuoi approfondire maggiormente questa situazione puoi acquistare una consulenza da questa pagina. Se invece vuoi direttamente un preventivo per l’azione relativa puoi chiedercelo compilando il modulo apposito nel menu principale del blog. Ti raccomando, con l’occasione, di iscriverti alla newsletter del blog, o, se non ti piace la mail, al gruppo Telegram, in modo da non perderti importanti e utili aggiornamenti quotidiani.
Scrivo per una consulenza in merito all’acquisto di una camera da letto completa (nuova) acquistata con contratto ai primo di maggio 2018 presso un rivenditore di mobili. Al momento della consegna ci si è resi conto che la camera era quella esposta in negozio (priva di imballaggio e con evidenti segni dovuti alla esposizione). Abbiamo contattato immediatamente il rivenditore a diverse utenze ma non ha mai risposto….la camera è stata regolarmente montata dagli operai e, a seguito di incontro nel negozio con i rivenditori abbiamo avuto modo di notare che, nonostante i tentativi di convincerci che l’ordine fosse avvenuto realmente, una fattura riportante la data 12/08/2016 e relativa alla camera da letto esposta, riportava chiaramente evidenziati i ns. dati…..siamo stati aggrediti con atteggiamenti offensivi e costretti ad abbandonare il negozio…Vorremo gentilmente informazioni sulla procedura da adottare per far valere i ns. diritti.
Se ho ben capito, vi è stata venduta per nuova una camera che in realtà era già stata utilizzata per scopo di esposizione e che quindi avrebbe dovuto esservi, semmai, venduta con una riduzione del prezzo come è d’uso in questi casi, comunque lasciandovi la facoltà di scelta a seguito della dichiarazione precisa dello stato della merce da parte del venditore.
Da questo punto di vista, la cosa più urgente è segnalare ufficialmente, tramite una diffida a mezzo di un avvocato, la difformità tra quanto convenuto nel contratto – contratto che, tuttavia, dovrà prima esaminato accuratamente – e quanto consegnato, evidenziando anche – e ciò vale anche come denuncia relativa – i singoli «vizi» del bene e cioè al momento i «segni» derivanti dall’uso di esposizione fatto della camera.
In tale diffida, si può richiedere una riduzione del prezzo ovvero la risoluzione del contratto, cioè la restituzione della camera contro la restituzione del prezzo pagato, oltre ovviamente al risarcimento del danno, anche se naturalmente la soluzione migliore anche per una vertenza come questa è quella di trovare un accordo transattivo.
Per la denuncia dei vizi sono previsti termini molto rigorosi, per cui vi consiglio di andare immediatamente da un legale, anche considerando che probabilmente avreste fatto meglio a rifiutare l’installazione della camera da letto una volta constatato che non si trattava di un bene nuovo di fabbrica ma con un precedente uso espositivo.
Purtroppo le spese legali, se non avete una polizza di tutela legale, almeno inizialmente sono a carico vostro.
Se volete inviare una diffida tramite il nostro studio, potete acquistarla direttamente da questa pagina. Vi consiglio inoltre di iscrivervi alla newsletter del blog o al gruppo Telegram per non perdere altri preziosi ed utili aggiornamenti come questo, in grado di evitarvi di incorrere in futuri problemi.
La stagione estiva è ormai alle porte e si intensificano, facendosi frenetiche (!!), tra i consumatori, le attività di ricerca, individuazione e prenotazione delle meritate vacanze.
Tutti noi in questo periodo dell’anno siamo alla ricerca della “vacanza ideale”, quella che servirà a cancellare tutti i pensieri e lo stress di un intero anno lavorativo. Quella che ci farà ritemprare nello spirito e nel corpo!
Forse…
E si, perché, purtroppo, molto spesso, le agognate ferie si trasformano in vere e proprie tragedie, al limite del surreale!
La location non è proprio quella che ci aspettavamo (in foto era decisamente, come dire…diversa!!), i servizi promessi e tutti inclusi nel prezzo in realtà non ci sono…o sono tutti a pagamento e costosissimi!
I transfer si trasformano in veri e propri viaggi della speranza (speriamo di arrivare a destinazione…prima o poi!!).
Queste ed altre amenità del genere…
Se ci dovessimo trovare di fronte a situazioni, come dire, critiche, possiamo in qualche modo tutelarci?
E se si, come??
La normativa in materia è stata recentemente riformata, udite udite…a tutela del consumatore!
Intanto va precisato che sono da intendersi pacchetti turistici le combinazioni “di almeno due tipi di servizi turistici di trasporto, alloggio, noleggio veicoli o altro servizio turistico ai fini dello stesso viaggio se combinati da un unico professionista, ovvero, anche se siano conclusi contratti separati con singoli fornitori di servizi turistici, siano acquistati presso un unico punto vendita, oppure offerti ad un prezzo forfettario, ovvero pubblicizzati sotto denominazione di ‘pacchetto’ o denominazione analoga oppure, infine, combinati entro 24 ore dalla conclusione di un primo contratto, anche con processi collegati di prenotazione online”.
Vengono, inoltre, aumentate le tutele dei viaggiatori in caso di RECESSO.
RESPONSABILITA’ PER “PACCHETTO DIFETTOSO” Altra novità è rappresentata dall’intensificazione della responsabilità dell’organizzatore per l’inesatta esecuzione del pacchetto. Viene garantita al viaggiatore una riduzione del prezzo, oltre all’eventuale risarcimento del danno e alla possibilità di recedere dal contratto.
TRE ANNI PER CHIEDERE I DANNI Altra novità rilevante riguarda i termini di prescrizione: 3 anni per il danno alla persona e 2 per gli altri danni.
Per prevenire problemi in vacanza o comunque per gestirli una volta malauguratamente insorti, é fondamentale avere, prima di partire, una polizza di tutela legale e, soprattutto, un contratto di protezione.