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Cassazione in camera di consiglio: come funziona?

La camera di consiglio nuovo rito di default.

Oggi ti parlo di come funziona il procedimento civile in camera di consiglio presso la Cassazione, rimandando per il resto alla mia scheda di base sul ricorso per cassazione che puoi trovare qui.

scrivere in tribunale

È un rito molto importante ormai perché, da fine 2016, la Corte di Cassazione, quando opera a sezioni semplici, decide di default in camera di consiglio, cioè in una udienza privata senza la partecipazione diretta delle parti, e non più in pubblica udienza, appunto con la partecipazione delle parti.

Sostanzialmente, si è passati ad una forma scritta di trattazione del procedimento, sempre alla faccia del principio di oralità del processo, che in realtà è scomparso da decenni anche presso i giudici di merito e forse non è mai stato davvero praticato se non in forma molto limitata.

Per parti, ovviamente, si intendono il ricorrente, la controparte, che può aver presentato controricorso o ricorso incidentale, e il pubblico ministero.

La riforma è stata introdotta dal D.L. 31.8.2016, n. 168, convertito, con modificazioni, dalla L. 25.10.2016, n. 197, che ha introdotto il nuovo art. 380 bis del codice di procedura civile.

La possibilità per le parti di svolgere le proprie difese avviene, nel meccanismo previsto dalla nuova legge, consentendo alle stesse di depositare delle proprie memorie scritte entro un certo termine anteriore alla data fissata per l’udienza in camera di consiglio.

L’esempio più noto di memorie scritte è quello delle memorie ex art. 183 che vengono utilizzate nel procedimento di primo grado e su cui puoi trovare maggiori informazioni in questo post.

Come funziona.

L’art. 380 bis 1 cod. proc. civ. prevede quanto segue.

Della fissazione del ricorso in camera di consiglio dinanzi alla sezione semplice ai sensi dell’articolo 375, secondo comma, è data comunicazione agli avvocati delle parti e al pubblico ministero almeno quaranta giorni prima. Il pubblico ministero può depositare in cancelleria le sue conclusioni scritte non oltre venti giorni prima dell’adunanza in camera di consiglio. Le parti possono depositare le loro memorie non oltre dieci giorni prima dell’adunanza in camera di consiglio. In camera di consiglio la Corte giudica senza l’intervento del pubblico ministero e delle parti.

Ad ogni modo, le regole di base, a riguardo, sono le seguenti:

  • innanzitutto, quando la Corte fissa l’udienza in camera di consiglio deve darne avviso alle parti almeno 40 giorni prima; questo avviso, nei procedimenti che ho seguito negli ultimi anni, è sempre arrivato tramite pec sulla mia casella;
  • a quel punto, il pubblico ministero ha 20 giorni per scrivere una propria memoria, che potrà depositare entro 20 giorni prima quello della data dell’udienza in camera di consiglio; nei processi che ho seguito, il pm non ha mai formulato le proprie conclusioni, la cancelleria della corte comunica anche in questi casi un avviso in cui specifica che il pm non ha depositato proprie conclusioni;
  • i difensori delle parti (ricorrente, controricorrente, ricorrente in via incidentale, ecc.) hanno 30 giorni per depositare una loro memoria, che quindi dovrà essere depositata 10 giorni prima quello fissato per l’udienza in camera di consiglio.

I termini cambiano nelle ipotesi in cui il giudizio viene di ritenuto di facile soluzione in un senso o nell’altro. L’art. 380 bis cod. proc. civ. dispone infatti quanto segue:

Nei casi previsti dall’articolo 375, primo comma, numeri 1) e 5), su proposta del relatore della sezione indicata nell’articolo 376, primo comma, il presidente fissa con decreto l’adunanza della Corte indicando se è stata ravvisata un’ipotesi di inammissibilità, di manifesta infondatezza o di manifesta fondatezza del ricorso. || Almeno venti giorni prima della data stabilita per l’adunanza, il decreto è notificato agli avvocati delle parti, i quali hanno facoltà di presentare memorie non oltre cinque giorni prima.

Il termine per i difensori, dunque, può essere di dieci giorni o di cinque, nei casi in cui il giudizio è ritenuto di più semplice soluzione. 

Fare la memoria conviene?

Conviene fare la memoria prevista per i difensori?

In generale, sono più per una risposta negativa, ma c’è da dire che dipende dalla situazione o, in altri termini, bisogna vedere che cosa hanno fatto o scritto le altre parti.

Ad esempio, se ti trovi nella posizione di aver fatto ricorso, le controparti non si sono costituite con controricorso, il pm non ha depositato le proprie conclusioni (ipotesi questa che è probabilmente la più comune), a che cosa servirebbe depositare una ulteriore memoria, che potrebbe solo infastidire i giudici che non amano le ripetizioni fini a loro stesse?

Diverso potrebbe essere invece il caso opposto, in cui le controparti si sono costituite e il pm magari ha depositato conclusioni scritte «contrarie» all’accoglimento del ricorso; in questo caso, il ricorrente potrebbe sfruttare il termine per alcune brevi e sintetiche repliche a quanto sostenuto dalle altre parti.

Ovviamente, nei casi in cui il ricorso sia stato ritenuto di facile soluzione, in senso favorevole al cliente, ci sono meno vantaggi nel depositare la memoria; viceversa nel caso opposto, in cui il giudizio è stato ritenuto di facile soluzione a favore del rigetto: in questo caso la memoria può essere un’opportunità.

La memoria, nei casi in cui viene formata, deve essere la più breve possibile, la sintesi non verrà mai raccomandata abbastanza per gli atti giudiziari e in cassazione vale ancora di più.

Conclusioni.

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Causa non soddisfacente: che fare?

ho appena terminato una causa civile di danneggiamento dove ero parte offesa, la giudice però non vuole pagarmi nulla se non una somma misera di 50 euro perché dice che alla domanda non sono stati quantificati i danni materiali, oltretutto non mi da neanche il danno morale, il fatto risale a marzo 2014 e poi si era depenalizzato con conseguente causa civile, come posso fare ora per recuperare i danni? Il fatto accaduto in condominio, il vicino di casa si permetteva di entrare nella scala mia per distruggere violenza i vasi e piante, vasi terracotta scaraventandoli da un altezza di 5 /6.metri.

Se hai «appena terminato una causa civile» ci sarà una sentenza che la definisce.

Se l’ipotesi è questa, allora la situazione è, di conseguenza, la seguente:
– l’unico modo per tentare di cambiare quanto deciso nella sentenza è impugnarla, probabilmente con appello;
– nel caso in cui non venga proposto appello, o comunque impugnazione, nei termini previsti dalla legge, la sentenza diventerà per sempre definitiva, a prescindere da qualsiasi questione a riguardo, da chi avesse ragione o torto e in che misura.

A questo va aggiunto che se non hai fornito una idonea dimostrazione del danno nel corso del giudizio di primo grado non potrai farlo in secondo grado, perché in appello è vietato salvo eccezioni di abbastanza rara applicazione introdurre nuove prove.

Per cui, l’appello potrebbe essere valutato solo se tu avessi introdotto prove sufficienti del danno che il giudice di primo grado avrebbe sbagliato a valutare: ad esempio avevi messo una ricevuta che il giudice ha ritenuto prova non valida, ma che puoi chiedere al giudice di secondo grado, cioè di appello, di ritenere, a contrario, prova valida.

Se, invece, le prove non sono proprio state richieste, allora l’appello sarebbe molto probabilmente non solo inutile ma anche controproducente, perché anche in quella sede potresti essere condannato alle spese legali.

Se vuoi farci esaminare le possibilità di impugnazione, il prodotto da valutare sarebbe questo anche se ti consiglio di riflettere bene sulla convenienza di spendere ulteriore denaro e investire ancora sulla vertenza.

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Sentenza di patteggiamento e appalti pubblici.

In caso di patteggiamento con pena sospesa è possibile continuare a partecipare agli appalti pubblici?

La vedo molto grigia.

La sentenza di patteggiamento è, per legge, equiparata ad una sentenza di condanna.

Lo prevede la parte finale del comma 1 bis dell’art. 445 del codice di procedura penale, secondo cui appunto «Salve diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna».

Questa disposizione è stata introdotta nel codice nel 2003. In precedenza, la giurisprudenza si era occupata del tema giungendo ad esiti contrastanti. La Corte costituzionale, con sentenza n. 251 del 1991, aveva infatti esplicitamente affermato che questa sentenza «non ha le caratteristiche proprie di una sentenza di condanna basata sull’accertamento pieno della fondatezza dell’accusa penale».

Queste pronunzie tuttavia ormai sono superate dal chiaro dettato legislativo vigente.

Ovviamente, sono fatte salve eventuali diverse disposizioni di legge che prevedano eccezioni, però, nel caso degli appalti pubblici non sembrano esserci.

Anzi, i giudici per lo più tendono a ragionare nel senso della esclusione dalle gare per chi ha una condanna con pena applicata a seguito di patteggiamento (ex multis, T.A.R. Piemonte, sez. II, 4/2/1999, n. 59)

Se vuoi approfondire ulteriormente, valuta di acquistare una consulenza, anche se non credo che possa valerne la pena.

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Causa vinta: cosa é meglio fare?

Mia madre ha vinto una causa contro il suo ex datore di lavoro per il riconoscimento dell’indennizzo di un infortunio.
Il mio avvocato mi ha messo davanti due ipotesi:
notificare immediatamente la sentenza alla controparte e cominciare con l’azione di recupero crediti però con il pericolo che la controparte si rivolga alla corte d’appello (altri anni annosi di processo, sono già anni che ci andiamo dietro e finalmente c’è una sentenza)
oppure attendere i giorni per la quale la controparte deve fare appello senza notificare, una volta scaduti i giorni si procede con il recupero credito senza possibilità di appello in altre corti. Innanzitutto le vorrei chiedere quale delle due suggerisce, poi in seconda le vorrei chiedere:
quanto andrò a pagare per la procedura di recupero credito?

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Sei mesi per licenziamento: quale il regime fiscale?

licenziata dopo 30 anni con una mail. Ho fatto causa. Primo grado perso e vinto. La ditta condannata a reintegrarmi entro 3 giorni oppure a risarcire con 6 mesi di stipendio. Ovviamente non mi hanno ripresa e ho dovuto pignorarli per avere i 6 mesi. Hanno effettuato in Aprile 2018 un bonifico di circa 14.000€ con indicato: pagamento per sentenza X. Non ho ricevuto nessun dettaglio cartaceo. Ho chiesto al mio avvocato cosa fare di queste somme? se e come dichiararle? preciso che sono sempre disoccupata e senza reddito, e il licenziamento risale a 3 anni fa. Nel 2019 come mi devo comportare? faccio denuncia dei redditi? devo pagarci delle tasse? se si a quanto ammontano? come faccio il calcolo? La ditta non avrebbe dovuto inviarmi i conteggi? o versare una Ritenuta Acconto? vi prego aiutatemi… il mio avvocato diceva che i soldi erano netti non da dichiarare, ma mi sono documentata e temo non sia cosi.

Mi dispiace per la tua vicenda.

Come dico sempre, la materia fiscale e previdenziale non è quella che gli avvocati conoscono meglio, per giuste ragioni su cui non mette conto dilungarsi in questa occasione.

Su aspetti del genere, meglio sentire un commercialista o un consulente del lavoro.

In generale, credo che la somma che ti è stata liquidata non corrisponda e non possa essere considerata retribuzione, ma un risarcimento del danno che ti è stato cagionato con il licenziamento.

Se così fosse, ed è una cosa da verificare anche leggendo bene la sentenza, il regime fiscale e previdenziale sarebbe completamente diverso da quello cui sono assoggettate le somme corrispondenti a retribuzione.

Se credi, lo possiamo approfondire, tramite un’apposita consulenza, ma io ti consiglierei di investire prima i tuoi soldi nel parere di un bravo consulente del lavoro, che potrebbe magari sentirsi a riguardo con il legale che ti ha seguito per la causa di lavoro.

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Mio padre non mi ha mai riconosciuto: cosa posso fare?

sono un ragazzo di 19 anni. Al momento della mia nascita non sono stato riconosciuto da mio padre e sono stato mantenuto esclusivamente da mia madre per tutta la mia vita. Volevo sapere, ho il diritto di chiedere a mio padre gli alimenti arretrati? Se si, cosa debbo fare per far si che ciò avvenga?

Il primo passo è verificare con cura la sussistenza dei presupposti per fare l’azione di riconoscimento della paternità, di cui all’art. 269 cod. civ., rubricato «Dichiarazione giudiziale di paternità e maternità».

Se ho ben capito, infatti, tuo padre al momento è «solo» il tuo padre biologico, mentre a livello giuridico e legale non esiste alcun accertamento e, pertanto, nessun rapporto di filiazione.

Per poter chiedere qualcosa al tuo padre biologico, il presupposto indispensabile è che venga accertato, anche legalmente, il rapporto di paternità.

Per questo tipo di azione sono previsti dei presupposti, in sostanza occorre trovarsi in una situazione in cui sarebbe ammesso il riconoscimento. Un esempio di caso in cui questa azione non sarebbe ammessa sarebbe quello in cui tu fossi stato adottato da un altro uomo, oppure risultassi figlio «legittimo» (diciamo così per praticità, anche se il termine non esiste più) di un altro uomo, perché ad esempio tua madre al momento del concepimento era sposata con costui – faccio esempi astratti perché se dici che ti ha mantenuto sempre tua madre non è questo il tuo caso. Nella prima di queste ipotesi non si potrebbe fare nulla, nella seconda bisognerebbe prima fare un’altra causa di contestazione della legittimità – anche qui dopo attenta verifica dei presupposti – e poi l’azione di riconoscimento in capo al «vero» padre.

Se ci fossero adeguate basi legali per l’azione di riconoscimento della paternità, si potrebbe, in quella sede, chiedere un risarcimento del danno, che secondo i giudici viene determinato in via equitativa (Corte d’appello di Lecce, sentenza 07-07-2016) e «indennitaria» in capo a colui che sarebbe poi, eventualmente, accertato essere il tuo vero padre.

Il punto è anche che il mantenimento dovuto per la tua sussistenza non è mai stato adeguatamente liquidato da un giudice prima di adesso, cioè quantificato nel suo preciso ammontare. Ulteriormente, è impossibile da liquidare, anche a posteriori, perché oltre al mantenimento ordinario ci sono anche tante spese straordinarie che, dopo quasi vent’anni, non si può pretendere di ricostruire minuziosamente – la sentenza sopra citata dice ad esempio che essendo «impossibile pervenire ad una esatta determinazione del dovuto atteso che non è pensabile che la madre conservi scontrini o ricevute di tutte le spese sostenute nell’interesse della figlia, anche in considerazione del lungo tempo trascorso tra la nascita di quest’ultima e l’introduzione del giudizio di primo grado (anni 32)» si è ritenuto preferibile e legittimo «fare riferimento al criterio equitativo».

Peraltro, se si parlasse di mantenimento vero e proprio, ci sarebbe anche un altro problema. È vero che il diritto al mantenimento è imprescrittibile, ma le singole rate si prescrivono dopo 5 anni, se non richieste. Per cui, se ragionassimo nell’ambito di questa logica, se tu ottenessi il riconoscimento giudiziale potresti richiedere il mantenimento solo andando indietro di 5 anni dalla sentenza che accerta la paternità, cosa che sarebbe abbastanza iniqua, in fondo.

Per fortuna, i giudici di solito ragionano abbastanza diversamente, inquadrando la cosa più come un risarcimento del danno che come un mantenimento arretrato.

Se vuoi approfondire maggiormente questa situazione puoi acquistare una consulenza da questa pagina. Se invece vuoi direttamente un preventivo per l’azione relativa puoi chiedercelo compilando il modulo apposito nel menu principale del blog. Ti raccomando, con l’occasione, di iscriverti alla newsletter del blog, o, se non ti piace la mail, al gruppo Telegram, in modo da non perderti importanti e utili aggiornamenti quotidiani.

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Nullità del matrimonio e compravendita di immobili: che succede?

l’ annullamento del matrimonio, quali effetti produce su un contratto di acquisto di una casa, stipulato successivamente al matrimonio in regime di comunione dei beni? E’ comunque valido o l’annullamento del matrimonio annulla anche il successivo contratto di compravendita?

Per l’ennesima volta in due decenni, ricordo che le domande astratte nella pratica giuridica hanno molto poco senso. Bisogna parlare dei fatti e delle situazioni in cui si radica il problema, lasciando che sia il giurista interpellato a fare i più opportuni inquadramenti. Sarebbe stato molto meglio descrivere appunto la situazione concreta e il problema relativo che c’è da risolvere.

In linea generale, ad ogni modo, si può dire che sicuramente un contratto di compravendita rimane valido anche a seguito di nullità del matrimonio a che, al momento della stipulazione, vincolava uno o entrambi i contraenti.

Può essere più difficile capire quale sia la situazione proprietaria del bene, nel senso che va stabilito quale sia la sorte del regime patrimoniale tra i coniugi in dipendenza dell’annullamento e, se si suppone una sua caducazione, quali conseguenze ne derivino.

Peraltro, le conseguenze comunque sono destinate a cambiare a seconda di come è stata redatta la compravendita e di chi vi ha partecipato.

Ad esempio, se supponessimo che i coniugi erano in regime di comunione, come erano, che cosa accade nel caso di nullità, se, sempre ad esempio, all’atto ha partecipato solo uno dei due coniugi mentre l’altro lo aveva acquistato solo in forza dell’applicazione del ridetto regime di comunione?

È difficile ipotizzare che vi possa essere una comunione tra coniugi che si trasforma in comunione ordinaria, anche perché la comunione tra coniugi è, secondo una nota espressione della corte costituzionale, una «comunione senza quote».

Ed infatti la Cassazione, con la sentenza n. 11467/2003 ha precisato che in caso di annullamento del matrimonio, la comunione legale si scioglie, ma il regime patrimoniale legale, pur dopo l’avvenuto scioglimento della comunione, non si trasforma, di per sé, in comunione ordinaria e non soggiace alla relativa disciplina.

La situazione andrebbe approfondita molto di più. Se credi, valuta di acquistare una consulenza. Ti raccomando, con l’occasione, di iscriverti alla newsletter del blog, o, se non ti piace la mail, al gruppo Telegram, in modo da non perderti importanti e utili aggiornamenti quotidiani.

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Affido ai servizi sociali: conviene il ricorso in cassazione?

Da 12 anni combatto per difendermi legalmente dal mio ex marito che malgrado ne ha fatte di tutte a. me e ai miei figli è sempre uscito ridendo dalle varie udienze dicendomi vai dove vuoi mio padre è un massone io ti distruggo! E così è stato dopo un rincorso in appello aa Corte di Genova per riprendermi i miei figli in affido dallo scorso anno ai serv. Soc, motivazione del Giudicee nostre dispute economiche, tenendo conto che io non ho nulla il mio ex molto molto ricco gra, je ai Giudice nel corso degli anni li ha privati di tutto. Oggi i miei figli hanno 17anni nessun Giudice ha mai accettato la richiesta che vengano sentiti, neanche in appello che ha mantenuto l’affido ai s. Soc che non solo non accettano le relazioni dell’ASL ma li minacciano se non fanno quello che loro stabiliscono, naturalmente su richiesta del padre, di chiuderli in una struttura. Cmq il giudice senza motivare con termini di legge il suo rifiuto ha lasciato me e i. miei figli senza giustizia, addirittura negando loro il tenore di vita, dicendo che sarebbero troppo viziati, quindi non ne hanno diritto! Secondo lei con lo schifo di corruzione che c è nel ostro paese se vado in cassazione, tenendo conto che non ho possibilità economiche rischio di piangere di più di quanto ho pianto? E i miei figli che hanno visto di tutto da quando avevano 5anni.he fine possono fare con un padre che pur di distruggermi li fa passare per inadeguati?

Per sapere se una sentenza di appello è impugnabile in cassazione e, ulteriormente, se, una volta accertatane la impugnabilità, ciò sia ulteriormente conveniente, bisogna prima studiare approfonditamente le due sentenze precedenti e i fascicoli relativi.

Al netto di questo, si può fare qualche osservazione generale.

Intanto, il giudizio di cassazione non è un terzo grado di giudizio, dove la materia può essere di nuovo completamente ridiscussa, come avviene, almeno tendenzialmente, in appello, ma un grado di legittimità, in cui si dibatte per lo più sull’applicazione corretta o meno delle norme giuridiche, anche se gli aspetti di fatto in qualche modo a volte rientrano.

Ovviamente, è un grado di giudizio in cui la corte giudica «a fascicolo chiuso» cioè sulla base di un fascicolo già formato e dove è escluso che si possano introdurre nuove prove, documenti, tantomeno CTU e così via.

Soprattutto, la considerazione che mi pare assorbente è il fatto che i tuoi figli abbiano già 17 anni, con la conseguenza che il prossimo anno le disposizioni in materia di affido sono destinate comunque a cadere, anche se ovviamente se ci sono altre disposizioni sul mantenimento queste permangono sino al raggiungimento dell’autosufficienza.

A seconda delle modifiche, comunque, che si riterrebbero opportune per l’interesse dei minori, si potrebbe forse anche lasciar passare in giudicato la sentenza di appello per poi presentare un’istanza di modifica condizioni, ma anche questo va valutato accuratamente.

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Messa alla prova conclusa positivamente e casellario giudiziale.

un ragazzo ventenne (incensurato) a causa di coltivazione con tre amici di alcune piantine di marijuana per uso proprio, è stato rinviato a giudizio. Nell’udienza preliminare il GIP ha disposto la sospensione del procedimento con messa alla prova per un anno da parte dei quattro ragazzi. Conclusasi positivamente tale prova, il GUP, con apposita sentenza, ha dichiarato l’estinzione del reato ex art. 464 septies C.P.P. Ciò posto, e considerato tutto quanto ha formato sul blog oggetto di discussione in merito alle iscrizioni visibili sul certificato penale del casellario giudiziale e sulla visura richiesta dagli stessi interessati, desidererei conoscere come mai, nel caso di specie, anche su quest’ultima risulta la identica iscrizione del certificato penale e non risulta, invece, l’iscrizione “NULLA”,come mi è sembrato capire dovrebbe essere, atteso che non c’è stata condanna alcuna

La condanna non c’è stata, ma il reato sì, anche se poi si è estinto.

L’estinzione non determina la cancellazione «storica» del reato.

Anche chi ha ottenuto la dichiarazione di estinzione del reato a seguito di sentenza, come ad esempio la sentenza di patteggiamento, conserva il precedente, nonostante l’intervenuta estinzione.

Nel caso della messa alla prova, peraltro, il codice prevede che la stessa ordinanza di ammissione della messa alla prova venga iscritta nel casellario. Questa disposizione, tra l’altro, è stata mandata nel 2017 alla corte costituzionale per il vaglio di costituzionalità sulla base di una serie di considerazioni, mi pare dal tribunale di Firenze. Ad ogni modo, fino ad eventuale dichiarazione di incostituzionalità, la ordinanza continuerà ad essere iscritta – cosa che serve nel caso in cui la stessa persona richieda la messa alla prova in un altro diverso procedimento in cui è coinvolta.

Analogamente, la permanenza dell’iscrizione serve anche per valutare la eventuale nuova richiesta di messa alla prova, da parte della stessa persona, che avvenga dopo che la messa alla prova, nel primo procedimento, è stata completata positivamente e si è conclusa con la sentenza di non luogo a procedere per intervenuta estinzione del reato.

L’estinzione del reato elimina gli effetti penali, e spesso nemmeno tutti, dello stesso, ma non cancella il precedente.

Per la cancellazione del precedente, l’unica ipotesi è quella dell’abrogatio criminis e cioè della depenalizzazione del fatto come reato, come è avvenuto ad esempio per coloro che avevano un precedente per ingiuria, che al momento è solo un illecito amministrativo.

Non credo che possa valere la pena approfondire ulteriormente, ma se vuoi farlo puoi valutare l’acquisto di una consulenza.

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Accettazione eredità del minore: occorre beneficio di inventario?

a mio figlio è morto suo papà essendo l’unico erede prende liquidazione, soldi della banca e la macchina del suo papà, sono andata tramite avvocato e il giudice ha dettato la sentenza di fare una parte con vincolo pupillare, volevo chiedere è obbligo che io devo fare l’inventario tramite notaio?

L’inventario, nel caso di accettazione di un’eredità da parte di un minore, deve essere sempre fatto o, detto in altri termini, un minore può accettare un’eredità solo con beneficio d’inventario.

Questo non deriva dal vincolo pupillare imposto dal giudice tutelare, ma da una disposizione di ordine generale contenuta nel codice civile che ha l’evidente funzione di tutelare il minore che, in vicende come queste, è considerato un soggetto debole, anche alla luce della considerazione per cui non si sa mai con precisione cosa compone l’asse ereditario, soprattutto quanto a passività.

L’inventario può essere svolto da un notaio o dal cancelliere del tribunale delegato dal giudice. Entrambe queste figure svolgono malvolentieri un’attività noiosa, lunga e complicata come quella dell’inventario dei beni ereditari, ma più malvolentieri di tutti sicuramente il notaio che solitamente si occupa di cose molto più piacevoli e remunerative.

Devi comunque trovare un modo per realizzare questo inventario, magari tramite un notaio che nonostante tutto può essere disponibile a fare volentieri un compito come questo.

Ti suggerisco anche di provare a chiedere qualche consiglio direttamente in cancelleria.

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