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Causa continuamente rimandata: si può velocizzare?

per la seconda volta mi capita che la data fissata per l’udienza venga spostata per motivi personali del giudice di un anno. Udienza fissata per il 28 marzo 2019, per indisponibilita’ del giudice viene rinviata al 23 febbraio 2020.
Altre udienze precedenti sempre per lo stesso motivo :
udienza fissata per il 16.10.2017 viene rinviata d’ufficio al 13.9.2018
ed ancora dal 16.2. 2017 rinvio al 13.9.18.
Insomma da come si vede e’ un vero strazio al quace non so se e’ possibile fare qualcosa oppure reclamare presso il tribunale.. Non so quanto mi durera’ questa causa se continuano rinvii di anno in anno. Della cosa (appena saputo dell’ultimo rinvio) il mio sistema nervoso e’ andato alle stelle. Chiedo se e’ possibile fare qualcosa contro questo sistema (che cosidero e scusatemi.. ) schifoso.

In linea di principio, si potrebbe fare una istanza di prelievo, ma bisognerebbe innanzitutto verificarne l’eventuale fondamento, in relazione all’oggetto della causa e alle circostanze in cui si inserisce, tutti elementi di cui non hai parlato affatto, inoltre si tratta di un’iniziativa che ha generalmente molto scarse possibilità di successo, cadendo in un sistema giudiziario che, per tanti motivi che non è il caso di stare qui a ricordare, non può procedere più speditamente di quanto già proceda.

È esperienza comune di tutti i cittadini, purtroppo, ed è anche per questo che consiglio da due decenni almeno di stare lontano dal sistema giudiziario, non solo quello italiano, ma anche di un qualsiasi altro paese, il più possibile, cercando soluzioni stragiudiziali e rivolgendocisi solo quanto purtroppo non è possibile trattare il problema in nessun altro modo.

Se è vero che non è possibile velocizzare la causa in alcun modo, si può tuttavia chiedere un risarcimento allo stato italiano per l’eccessiva durata del giudizio, secondo le regole previste per l’equa riparazione, alla cui scheda approfondita rimando per un maggior riguardo sul tema.

Fai attenzione, però, che il tuo avvocato abbia svolto le richieste necessarie – i cosiddetti rimedi preventivi – per poter preservare il tuo diritto a riguardo, come spiego meglio in questo post che ti invito a leggere attentamente.

Se vuoi approfondire ulteriormente, puoi valutare di acquistare una consulenza. Iscriviti al mio blog, per non perdere post utili per orientarti nella vita di tutti i giorni, sia nei problemi legali che personali.

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Equa riparazione: chi paga le spese legali?

Mio padre deceduto prima della sentenza aveva intentato causa di equa riparazione che ha vinto per 10 anni di durata di un processo intentato dal Comune contro lui e altri che all’epoca erano consiglieri dal quale era stato assolto .
l’avvocato dal quale mi sono recato mi ha comunicato che i ricorrenti ,totali 19 difesi da sei avvocati hanno dato mandato agli avvocati di riscuotere il risarcimento per pagare l’onorario
ma non è la parte soccombente in questo caso il Comune di Algheroche devepagare le spese processuali?
Inoltre ancora non mi è stata fornita tale liberatoria ne l’ammontare della somma posta a risarcimento ne sono stato contattato dal legale ma ne sono venuto a conoscenza
in base a un articolo della Nuova Sardegna datato 2014 vorrei sapere se l’avvocato avesse o meno l’obbligo di informarmi in qualità di erede dato che era sicuramente a conoscenza del decesso di mio padre

C’è una grande confusione dentro alla tua testa…

Inoltre non si può mai commentare un provvedimento senza averlo letto o quantomeno conoscerne il dispositivo.

Posso solo fare qualche osservazione in via generale.

Nei processi per equa riparazione, sulla quale ti invito a leggere con attenzione la scheda relativa, la controparte non è mai la parte del processo di origine, ma il ministero della giustizia e quindi in definitiva lo stato italiano.

Questo perché l’equa riparazione riguarda esclusivamente l’eccessiva durata dei processi, a prescindere dal merito, tant’è vero che la riparazione può essere chiesta anche da chi ha perso il processo «a monte».

Di solito, lo stato italiano viene condannato a rimborsare anche una piccola parte di spese processuale, ma non è detto che ciò sia avvenuto. La cosa migliore sarebbe appunto vedere cosa prevede la sentenza.

Il nostro studio affronta questo tipo di pratiche tradizionalmente con un sistema di compenso a percentuale.

Mi dispiace per tuo padre, ma non ho capito bene cosa c’entri la pubblicazione di un articolo di giornale con eventuali obblighi dell’avvocato.

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Causa persa con condanna alle spese: mi conviene fare l’appello?

Ho una balconata condivisa col vicino con unica pavimentazione e divisa nelle due proprietà da una piccola inferriata.Il frontalino si é rovinato per infiltrazioni da piogge e il vicino voleva rifare tutto il balcone (guaina, piastrelle) compreso la mia parte. Altri vicini l’hanno fatto con risultati negativi dopo pochi mesi dai lavori. Ho detto ok x rifare il suo balcone ma io vorrei sapere prima i lavori utili che garantiscono la tenuta.Perciò mi ha portato in causa nel 2010 e il 13.1.2016 la sentenza mi ha giudicato soccombente con tutte le spese a mio carico (11.000€) e obbligo a fare i lavori indicati dal CTU. Trovo la sentenza ingiusta in quanto la CTU non dà torto a nessuno e indica lavori differenti da quelli indicati dalla parte.Vorrei sapere se è conveniente andare in appello per l’attribuzione delle spese (non compensate) e per la soccombenza. Inoltre se i termini ci sono x l’appello e x la durata della causa se posso richiedere la legge Pinto.

Direi che nel vostro caso l’errore sia stato non aver fatto il procedimento di CTU preventiva ex art. 696 bis cod. proc. civ. che avrebbe potuto chiarire i lavori effettivamente necessari senza bisogno di fare una vera e propria causa, che comunque, sulla base dello stesso, le parti sarebbero state libere in seguito di fare in caso di bisogno.

Su questo tipo di strumento processuale, rimando comunque alla lettura della scheda relativa, che ne approfondisce gli aspetti principali.

Per sapere se conviene presentare impugnazione, occorre una consulenza apposita che, esaminando sia la sentenza sia il fascicolo della precedente fase di giudizio, consenta di sviluppare le valutazioni e le considerazioni più opportune del caso. Se vuoi fare questo approfondimento, il «prodotto» che noi mettiamo a disposizione è questo.

Tieni presente tuttavia che, anche una volta studiati fascicolo e sentenza, non ci potrà essere assoluta sicurezza sull’esito dell’appello né sul merito né sul punto relativo alle spese legali. L’esito della consulenza sarà un giudizio di probabilità o meno, ma un margine di rischio rimane sempre e comunque. Considera che la sentenza di secondo grado, se dovesse andare nel modo peggiore, potrebbe confermare la condanna di primo grado e in più condannarti alle spese della fase di appello, con la qual cosa il conto a tuo carico crescerebbe ancora di più.

Dei termini per presentare l’appello abbiamo parlato più volte, per cui ti invito a fare una ricerca tra i vecchi post del blog, anche se la valutazione va poi sempre fatta in concreto perché dipende da una serie di circostanze che possono a mio giudizio essere adeguatamente apprezzate solo da un giurista.

Per quanto riguarda la legge Pinto, i presupposti sembrerebbero esserci per l’equa riparazione e pertanto ti suggerisco di valutare questa eventualità per essere almeno risarcita della lunghezza eccessiva del procedimento.

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Sentenza che non arriva mai: come si può velocizzare?

vi contatto per avere informazioni sullo svolgimento della mia causa che va ormai avanti dal 2005.In sintesi nel 2005 ho avuto un incidente automobilistico su un tratto stradale di competenza anas per un lavoro da loro svolto in maniera scorretta.dopo avere fatto causa in tribunale ho avuto vari incontri anche con i testimoni,da li sono cominciati una valanga di rinvii,fino a quando nel 2014 il giudice si e deciso a mandare in giudizio la causa,ma da allora non si e saputo più nulla.Ogni volta che contatto il mio legale la risposta e sempre la stessa ,che la risposta arriva per via telematica e che e normale per quel giudice prendersi tutto questo tempo.
La mia domanda e ,se è normale che dopo tutti questi anni per decidere l’esito della pratica sia passato più di 1 anno e non si sa nulla.

Purtroppo, è normalissimo. Questi sono i tempi medi del sistema giudiziario italiano, con alcune eccezioni sia in meglio ma, più spesso, in peggio.

La tua causa si trova adesso in decisione, che è riservata. Per questa decisione, per fare la sentenza, il codice di procedura civile prevede dei termini per il giudice, che però sono privi di qualsiasi sanzione in caso di inosservanza, con la conseguenza che quasi mai vengono rispettati.

Del resto, il carico di lavoro dei giudici non è affatto di poca importanza, anzi tutto al contrario pochi giudici di solito si trovano a dover smaltire una mole enorme di lavoro.

Non c’è onestamente nulla che sia opportuno fare per velocizzare il deposito della sentenza, in teoria si potrebbe fare un’istanza di sollecito o prelievo ma io se fossi il tuo legale onestamente te lo sconsiglierei.

L’unica cosa che potrai fare, una volta che sarà uscita e passata in giudicato la sentenza, è chiedere l’equa riparazione o risarcimento del danno che hai subito per aver avuto il giudizio durata superiore ai 3 anni previsti dalla legge, e dalla convenzione CEDU, come durata ragionevole per un processo in primo grado.

Per ulteriori approfondimenti sull’equa riparazione, che è stata ritoccata profondamente con la legge di stabilità 2016, ti rimando alla lettura della nostra scheda di approfondimento.

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Equa riparazione: le novità della legge di stabilità 2016.

Introduzione.

La legge di stabilità per il 2016 ha apportato importanti modifiche alla legge Pinto (i cui estremi esatti sono quelli di legge 24 marzo 2001, n. 89, “Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile.”, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n.78 del 3–4–2001 ).

L’equa riparazione, per un approfondimento sulla quale rimandiamo alla scheda relativa, è stata profondamente modificata, con effetto a partire dal 1° gennaio 2016.

La chiave di lettura delle modifiche.

Prima di passare in esame le singole novità, è giusto fornire la “chiave di lettura” dell’insieme globale delle stesse, o, per chi preferisce, il punto di vista, giusto o sbagliato, dal quale sono state da me affrontate e valutate. Per fare questo, è necessario richiamare brevemente alcune circostanze.

I procedimenti giudiziari – civili, penali, amministrativi, tributari, contabili – nel nostro paese non funzionano, sono gravemente inefficienti, con ritardi esprimibili in termini di anni, quando non decenni, tanto che in alcuni casi si può parlare di un vero e proprio collasso di interi settori della giustizia. La volontà politica di far funzionare i procedimenti non c’è, considerato che lo Stato non effettua investimenti seri, e spesso anche meno seri, in questo settore, non si sa bene per quale ragione, anche se c’è il sospetto che, in fondo, una situazione in cui diventa molto difficile se non impossibile applicare le regole faccia comodo a molti, mentre le aziende, quando hanno vertenze da risolvere, si rivolgono a sistemi alternativi come l’arbitrato.

Questo sistema fallimentare, i nostri politici non possono lasciarlo semplicemente collassare del tutto, come fanno con tante altre cose, perchè l’Italia ha aderito alla Convenzione Europa dei diritti dell’uomo o CEDU, tra i quali diritti si annovera, per espressa disposizione della convenzione stessa, vincolante per l’Italia, anche quello ad una durata ragionevole dei processi.

Siccome sono decenni che l’Italia non garantisce processi di durata ragionevole a nessuno, tutti coloro che ne sono rimasti coinvolti hanno potuto chiedere il risarcimento danni allo Stato italiano per la violazione di questo obbligo. Molte di queste persone sono state seguite dal nostro studio, per cui si tratta di un fenomeno che conosco bene e da vicino. L’Italia ha speso somme enormi per pagare questi risarcimenti, in ogni caso molto di più di quello che avrebbe speso se avesse investito nell’efficienza del sistema giudiziario, anche per questo io resto profondamente convinto che l’inefficienza della giustizia risponda ad un preciso interesse di chi ci comanda davvero, altrimenti la cosa non avrebbe veramente alcun senso.

La legge Pinto rappresenta l’attuazione nell’ordinamento italiano delle disposizioni previste dalla convenzione CEDU. Essa è stata limitata in un primo modo dal governo Monti, proprio per evidenti esigenze di contenimento del bilancio pubblico, mentre viene ora stravolta completamente dal governo Renzi sempre con il medesimo obiettivo: pagare meno soldi possibile e risparmiare più che si può.

Il punto è che i nostri politici farebbero davvero di tutto pur di non far funzionare come si deve il sistema giudiziario, che deve rimanere così: un disastro al collasso.

Le nuove modifiche hanno l’evidente scopo di mettere quanto più possibile i bastoni tra le ruote a tutti coloro che, rimasti vittima della grave inefficienza del sistema giudiziario italiano, intendono conseguire il giusto risarcimento, come previsto dalla convenzione CEDU.

Buona parte di queste modifiche sono di dubbia legittimità, sia con riguardo alla Costituzione italiana, sia con riguardo all’obbligo dell’Italia al rispetto delle convenzioni internazionali, ma sino a che non ci sarà l’intervento ufficiale della Corte costituzionale o della CEDU esse rappresentano la legge vigente e devono essere applicate.

Passiamo adesso, per singoli punti, all’esame delle principali novità introdotte.

Le principali novità.

Le prese in giro preventive.

La prima novità è l’onere per la parte di un giudizio se vuole puoi chiedere l’equa riparazione di adottare appositi rimedi preventivi. Non facciamoci ingannare e diciamo le cose come stanno: è una grande presa in giro, a partire dal termine stesso. Qui non c’è nessun rimedio, perchè questi “rimedi” non rimedieranno proprio niente. Sono solo formalità burocratiche inutili che servono allo Stato per denegare beffardo a chi non le avrà poste in essere il suo diritto ad un giusto risarcimento. E su chi ricadrà il peso di questa buffonata? Ovviamente sugli avvocati difensori: la parte che si vedrà denegata l’equa riparazione, potrà valutare di chiedere un risarcimento al proprio avvocato che non ha esperito i prescritti “rimedi” o non gliene ha mai nemmeno parlato.

Vediamo di capire bene i termini del discorso. Lo Stato dovrebbe fornire ad ogni cittadino un’automobile in grado di viaggiare a 80 km/h. Gliene fornisce una che corre a 3 chilometri orari, così che il cittadino non riesce ad arrivare in tempo da nessuna delle parti in cui gli serviva di arrivare. Lo Stato è responsabile di ciò, ma si solleva dalle sue responsabilità dicendo al cittadino: “se non chiedi all’auto di andare a velocità superiore a 3 chilometri orari, la colpa è tua”. Questo quando il motore dell’auto non fa per costituzione più di 3 chilometri all’ora anche quando l’accelerazione è al massimo.

Lo Stato ha la colpa di tutto, ma la scarica sul cittadino, che è la vittima. Questo è il magnifico governo che abbiamo in Italia. E ci mettiamo in mezzo anche i media: avete sentito qualche giornalista o blogger che vi ha parlato di questo e lo ha denunciato come avrebbe dovuto fare?

Anche qui come al solito aspetto che qualcuno mi dimostri che ho torto. Potete lasciare anche un commento qui sotto.

Comunque è un’ottima idea, che credo nell’Italia di Renzi farà successo. La prossima che mi aspetto è che Trenitalia sostenga che i treni non arrivino in ritardo perchè i viaggiatori non hanno incitato a sufficienza il conducente, viaggiatori che quindi sono colpevoli dell’inefficienza relativa.

Torniamo, comunque, a noi. Quindi lo Stato chiede all’utente del sistema giustizia di fare cose inutili, che non possono avere alcuna rilevanza per la durata dei processi (che non è nelle mani del cittadino, che è solo un utente) che però hanno un valore burocratico – legale, tanto che se non le fai poi non puoi chiedere il risarcimento che ti spetta.

Vediamo quali sono queste cose. Le “prese per il culo preventive” – credo sia preferibile questo termine – sono definite dal nuovo art. 1 bis della legge Pinto in modo diverso a seconda del tipo di procedimento, se civile, penale, amministrativo, contabile, di legittimità e così via. Rimandando alla lettura completa della disposizione, mi concentrerò qui su quelle previste per i procedimenti civili, che sono quelli più numerosi, anche in sede di equa riparazione.

La prima cosa che dovrebbe fare chi vuole preservare il suo diritto all’equa riparazione sarebbe introdurre il giudizio nelle forme del procedimento sommario di cognizione di cui all’art. 702 bis del codice di procedura civile, una delle altre grandi invenzioni degli ultimi anni, che in realtà ha dimostrato di non essere in grado di sveltire molto. Ricordo che in un caso, dopo adeguato studio con un collega, tentammo di usarlo per una usucapione da incardinare davanti al tribunale di Napoli, ma il giudice non gradì affatto e fece un provvedimento in cui, senza dare motivazione di sorta, disponeva il cambiamento del rito da quello sommario a quello ordinario.

In sostanza, il nostro governo finge di pensare che i giudici possano essere più efficienti se il giudizio viene introdotto con il sistema del ricorso piuttosto che con quello della citazione, ma è evidente che è anche questa solo una presa in giro. Piuttosto, il problema si pone nei confronti degli avvocati, nei termini che accennavo prima: tutte le volte in cui un legale non introduce col ricorso sommario una causa in teoria assoggettabile a questo rito (lo sono le cause non collegiali), preclude il diritto del proprio cliente ad una futura equa riparazione, esponendosi così ad una richiesta di risarcimento danni.

Questo ci porta subito, peraltro, ad un’altra questione: le prese per il culo preventive devono essere esperite tutte, per poter conservare il diritto all’equa riparazione, o è sufficiente anche una sola di esse? Ciò in quanto almeno per il civile le prese per il culo preventive sono molteplici e non riguardano solo l’introduzione del giudizio, ma anche altre fasi dello stesso.

Ad ogni modo, è bene esaminare i rimedi e, nel dubbio, porre in essere tutti quelli che si può. Rimando per maggiori approfondimenti a questo post, dove, sia pure affrontando l’argomento da un altro angolo visuale, quello della responsabilità dell’avvocato, mi soffermo sui rimedi e su quello che si potrebbe fare in concreto per integrarli e soddisfarli nella pratica forense quotidiana.

La competenza territoriale.

Un’altra novità molto importante è relativa alla competenza territoriale. Mentre prima della legge di stabilità la corte d’appello veniva individuata sulla base delle regole del codice di procedura penale, come meglio illustrato in questo post, attualmente la corte è quella dello stesso distretto in cui si è svolto il procedimento presupposti.
Ciò risulta dal nuovo comma 1 dell’art. 3 della legge Pinto, che riporto di seguito: «1. La domanda di equa riparazione si propone con ricorso al presidente della corte d’appello del distretto in cui ha sede il giudice innanzi al quale si e’ svolto il primo grado del processo presupposto. Si applica l’articolo 125 del codice di procedura civile».

La riduzione della misura dell’indennizzo.

Poteva mancare?
Prima il tetto massimo era 1500 euro, attualmente la legge prevede una «forbice» tra 400 e 800 euro massimi per ogni anno o frazione di anno (art. 2 bis, comma 1°, legge Pinto).
Sono poi previsti una serie di criteri correttivi in più e in meno che rendono sostanzialmente impossibile predeterminare quale potrà essere il risarcimento che liquiderà il giudice, interamente lasciato alla discrezione del medesimo, anche se è prevedibile che le corti si assesteranno su standard locali di riferimento che utilizzeranno nella maggior parte dei casi, più che altro per pigrizia.

Altre limitazioni dell’indennizzo.

Le modifiche naturalmente si sperticano nel limitare il più possibile il ricorso effettivo all’equa riparazione.
Sono così previsti casi in cui non è riconosciuto alcun indennizzo, ad esempio per lite temeraria e cioè partecipazione al processo in mala fede, id est consapevolezza del mancato fondamento delle proprie richieste e pretese, espressamente estesi anche «al di fuori» dei casi previsti dall’art. 96 del codice di rito (art. 2, comma 2-quinquies, legge Pinto), tanto che si arriva a ricomprendervi espressamente «ogni altro caso di abuso dei poteri processuali».
Sono poi previsti casi di presunzione legale di insussistenza del danno da ritardo nel processo, che ammettono la prova contraria, anche se è poi tutto da vedere con quali modalità, specialmente in un procedimento avente struttura sostanzialmente monitoria, si potranno fornire queste prove (art. 2, comma 2-sexies, legge Pinto).

Modalità di pagamento.

Qui c’è il vero capolavoro. Facendo finta di cercare di rendere efficiente il sistema dei pagamenti a coloro che, dopo aver percorso tutta la trafila, sono riusciti a vedersi riconosciuto un risarcimento, in realtà le nuove disposizioni mettono loro i bastoni tra le ruote, limitando per l’ennesima volta il loro diritto di agire esecutivamente e mettendoli in sostanza in balia dell’amministrazione.
La disposizione di riferimento è il nuovo art. 5-sexies della legge Pinto, alla cui lettura rimando chi volesse approfondire, purtroppo anche in questo caso si tratta di disposizioni che, per quanto contrarie alla CEDU e probabilmente anche alla costituzione costituiscono, sinchè non saranno formalmente espunte dal nostro ordinamento, diritto positivo con cui fare i conti.

Conclusioni.

Continueremo a praticare l’equa riparazione, anche se è evidente che il nostro governo non vuole assolutamente che questo genere di pratiche vengano esperite.
Peraltro è ancora presto per capire quale sarà la portata effettiva delle nuove norme, così come accade per ogni riforma, ragione per cui vale la pena, senza rischiare e con la solita prudenza, continuare a depositare ricorsi, anche per vedere quali saranno gli orientamenti e le prassi delle corti.
Nel momento in cui ci troveremo di fronte ad ostacoli o limitazioni illegittimi, valuteremo ogni volta il ricorso alla CEDU, considerato che ormai la contrarietà nazionale all’istituto è divenuta intollerabile e probabilmente anche illegittima, come cennato più volte.

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Responsabilità dell’avvocato: nuovi casi dalla legge di stabilità.

Il modo consueto di esercitare la professione non va più bene.

Mi rivolgo con questo post in primis ai colleghi avvocati: sapete già che, dal primo gennaio 2016, se, ad esempio, introduceste un giudizio con atto di citazione anziché con ricorso ex art. 702 bis cod. proc. civ. potreste, dopo anni, essere chiamati a risarcire un danno cagionato al vostro cliente, per avergli fatto perdere denaro?

Non è per niente fantascienza, anzi è davvero un’ipotesi grave, concreta e reale, che sono già certo si verificherà in molti casi, come conseguenza delle ultime bislacche invenzioni legislative dei nostri governanti.

Prima di entrare nel merito, vi sollecito a condividere e inviare questo post a tutti i colleghi che vi sono più vicini o che volete avvisare di questa nuova importante cosa di cui tener conto, della quale ad oggi nessuna istituzione forense ci ha avvertito. La condivisione sui social non è solo gradita, ma ritengo doverosa per tutti quelli che hanno a cuore la sorte della categoria forense.

Questo post è, comunque, per tutti gli avvocati: anche – anzi soprattutto – quelli che non si sono nemmeno mai occupati di equa riparazione o legge Pinto.

Perché la nuova disciplina dell’equa riparazione è fonte di responsabilità per tutti i processualisti?

Vediamo adesso più in dettaglio come stanno le cose.

Stavo studiando le novità in materia introdotte dal comma 777 della legge di stabilità, già in vigore appunto dal primo gennaio 2016 e, facendo questo, mi sono accorto che le nuove regole determinano casi molto importanti, diffusi e ricorrenti di possibile responsabilità professionale, verso cui appunto dovrebbero prestare attenzione tutti i colleghi avvocati, anche quelli che non sanno nemmeno bene che cos’è l’equa riparazione.

Su queste singole novità uscirà appena possibile, sempre a mia cura, un apposito post di approfondimento, ma ritengo opportuno anticipare intanto questo aspetto, a beneficio di tutti gli avvocati e dei loro assistiti.

Facciamo subito un esempio per concretizzare meglio.

Sinora la scelta delle modalità di introduzione del giudizio era discrezionale del legale, che poteva valutarla in base alla strategia di fondo, decidendo, tra l’altro, se farla col tradizionale atto di citazione o con il ricorso ex 702 bis del rito sommario.

Dal primo gennaio 2016, il legale dovrà invece, se non vorrà far perdere probabili, anzi quasi certi (visto che quasi tutti i processi sforano il termine ragionevole), diritti al proprio cliente, introdurla necessariamente con il ricorso per rito sommario, nei casi in cui è applicabile, che sono per lo più le cause riservate alla decisione del giudice unico.

Ciò risulta dal nuovo art. 1 bis, comma 2°, della legge 24 marzo 2001, n. 89, dal quale risulta che, se una parte non ha, a tempo debito, esperito quelli che la stessa legge definisce come «rimedi preventivi» perde il diritto all’equa riparazione, cioè ad essere risarcito per gli anni di durata del processo ulteriori rispetto a quelli che sarebbero ragionevoli.

Questo significa che, se siete avvocati e non userete i «rimedi preventivi» – che poi in realtà sono inutili e dannose prese in giro, tutto fuorché veri e propri «rimedi» – il vostro cliente perderà il diritto a conseguire il risarcimento che gli spetta, quantificato dall’art. 2 bis legge cit. in una somma da 400 a 800€ per ogni anno, con i correttivi in più o in meno previsti dalla norma stessa.

Questi soldi potreste essere dunque chiamati a pagarli voi difensori, a titolo di responsabilità professionale, ragione per cui dovete o esperire, tutte le volte in cui è possibile, questi demenziali «rimedi preventivi» oppure, quantomeno, informare il cliente, tramite raccomandata o pec, della possibilità di farlo, lasciando a lui la decisione.

Questa nuova disciplina dei rimedi preventivi quindi è destinata a riflettersi sul modo in cui noi avvocati conduciamo i procedimenti giudiziari, siano essi civili, penali, amministrativi, contabili, di legittimità, perché appunto la mancata osservanza determina decadenze in capo ai nostri clienti, salvi solo i casi, di ristrettissima minoranza, in cui i procedimenti hanno durata ragionevole.

I cosiddetti «rimedi preventivi».

Quali sono, a questo punto, i «rimedi preventivi» e che cosa dovremmo fare noi avvocati per gestire concretamente questa riforma?

Prima di passarli in esame, c’è da dire che, come cennato, questi rimedi non rimediano niente, non hanno nessuna efficacia sostanziale o di accelerazione, il loro esperimento è destinato ad essere completamente inutile, anzi dannoso perché imbriglia, appesantisce e vincola l’attività defensionale che invece, per essere completamente efficace, dovrebbe essere il più possibile libera.

Ma tant’è. È un adempimento «burocratico» dalla mancanza del quale, a prescindere dalla sua più completa inutilità, può discendere la perdita di diritti e di somme di denaro per i nostri clienti e la responsabilità relativa in capo a noi, quindi vanno pedissequamente osservati, visto che la nostra prima «missione» come avvocati è tutelare i clienti e non far decadere in capo a loro nessun diritto o posizione attiva.

I rimedi preventivi sono definiti dall’art. 1 ter della legge Pinto, che qui riassumo rimandando tuttavia per completezza alla lettura integrale del medesimo.

Per il processo civile sono l’introduzione del giudizio nelle forme del ricorso sommario, la richiesta di passaggio al rito sommario, la istanza di decisione mediante trattazione orale. Nel processo penale, il deposito di una apposita istanza di accelerazione, facoltà in questo caso riservata anche all’imputato, cosa che potrebbe in qualche modo sollevare da responsabilità il legale, anche se probabilmente permane un dovere di informazione al riguardo. Nei processi davanti al TAR e Consiglio di Stato, la presentazione di istanza di prelievo. Nei procedimenti contabili davanti alla Corte dei conti e di legittimità davanti alla Cassazione una istanza di accelerazione.

Ovviamente, tutte queste istanze non serviranno a niente di concreto, perché come ha cura di precisare il settimo ed ultimo comma della disposizione in esame: «7. Restano ferme le disposizioni che determinano l’ordine di priorità nella trattazione dei procedimenti» – e qui una bella risata ci sta tutta… Sennonché queste istanze saranno una perdita di tempo per i clienti, per gli avvocati, per il personale di cancelleria, per i giudici, tempo che avrebbe potuto più utilmente essere dedicato alla cura concreta dei casi, ma che il nostro meraviglioso governo ci obbliga, per sue esigenze, a dedicare a gestire inutili adempimenti burocratici.

Che cosa devono fare dunque gli avvocati?

Innanzitutto, credo che ogni studio dovrebbe fare una apposita riunione con tutto il personale, anche paralegale e amministrativo, per informare in sintesi di queste importanti novità, definendo alcune prassi di riferimento da adottare a partire da gennaio 2016.

Le prassi di riferimento, poi, potrebbero essere sintetizzate come segue.

A) Chiaramente la prima prassi da varare è quella dell’adozione del ricorso ex art. 702 bis cod. proc. civ. per l’introduzione dei nuovi giudizi, eventualmente definendo un modello di mail in cui si illustra al cliente la ragione di questa scelta, da inviare via mail al cliente stesso. Questo sarà utile in quei casi, non rari, in cui il giudice, dopo il deposito del ricorso ex art. 702 bis, nel quale il nostro governo ripone tanti pie quanto commoventi speranze, fissasse la prima udienza dopo un anno, due o tre. Nei casi più gravi, bisognerà informare adeguatamente il cliente sulle conseguenze della scelta del metodo, lasciando al medesimo la scelta tra la conservazione del diritto all’equa riparazione e la velocità concreta del processo, che può essere negli soddisfatta in non rari casi dall’introduzione con atto di citazione.

B) In tutte le prossime udienze delle cause civili dello studio, bisognerà mettere un paio di righe a verbale con l’istanza di trasformazione del rito da ordinario a sommario, ad esempio con la formula «il difensore formula richiesta di passaggio dal rito ordinario al rito sommario ai sensi dell’art. 183 bis cod. proc. civ. e sin da ora istanza di decisione a seguito di trattazione orale a norma dell’articolo 281-sexies, il tutto ai fini di cui all’art. 1 ter della legge 24 marzo 2001, n. 89», lasciando poi che il giudice ne faccia l’uso che creda. Una buona idea potrebbe essere inserire questo promemoria nei modelli dei fogli di udienza, quelli che si usano per fare le istruzioni a chi va a fare le udienze, avvertendo però tutti di non fare «copia e incolla» dei vecchi statini che si trovano già nella pratica, ma di usare sempre i modelli aggiornati.

C) Sempre a livello di modelli, conviene adeguarli inserendo ad esempio anche in quello degli atti di citazione la richiesta di trattazione orale. Questo è utile ad esempio nei casi in cui è inammissibile il rito sommario ex art. 702 bis cod. proc. civ. quindi diventa rilevante il solo «rimedio preventivo» della istanza di trattazione orale. In tutti gli altri casi in cui è prevista la istanza di accelerazione, conviene depositarla prima possibile, tendenzialmente insieme al primo atto che ponete in essere nel procedimento in questione, un non senso ma tant’è, quindi nel penale insieme alla nomina, nei ricorsi per quanto riguarda i procedimenti amministrativi, contabili, di legittimità. Anzi, probabilmente la cosa migliore è inserirla direttamente nei modelli di nomina di difensore, ricorso, ecc., sempre con una formula come la seguente, in una riga a sé stante: «Si formula sin da ora istanza di accelerazione ai sensi dell’art. 1-ter della legge 24 marzo 2001, n. 89».

Come già cennato, è assolutamente importante che i titolari di ogni studio ribadiscano con apposite circolari e/o in apposite riunioni di studio a tutti i colleghi, collaboratori, paralegali, personale amministrativo che è fondamentale non usare mai un atto vecchio come modello per pigrizia, cosa che molti tendono a fare, ma usare sempre i modelli nuovi, da tenere in una apposita cartellina condivisa con tutto il gruppo di lavoro – noi ad esempio teniamo tutti i nostri modelli in una cartella di Dropbox business.

Conclusioni.

È tutto per oggi. Come cennavo, si tratta di novità importanti ma insidiose, in quanto più nascoste, perché relative ad un settore della pratica giudiziaria di cui non si occupano tutti gli avvocati, ma solo pochi. Nessuna delle istituzioni forensi si è ad oggi premurata di mandare circolari di avvertimento, ragione per cui, mentre stavo scrivendo il post di approfondimento per il blog sulle ultime novità in tema di legge Pinto, ho deciso di sospendere lo stesso e scrivere prima, invece, questo post, dedicato a me stesso e a tutti gli altri colleghi.

In seguito, appena potrò, completerò l’altro post in cui darò conto delle novità, queste ed altre, per chi è interessato a chiedere l’equa riparazione, un filone di lavoro che il nostro studio continuerà a coltivare, come sta facendo da anni.

Ribadisco: manda questo post a tutti i colleghi che ti stanno a cuore, condividilo sui social network, credo sia importante; alla fine, a rimetterci rischiamo sempre di essere noi avvocati.

E non dimenticare di iscriverti al blog, per non perdere post come questo, che non trovi da nessun’altra parte.

Un abbraccio.

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Ricorso alla Corte Europea Diritti dell’Uomo: occorre un avvocato?

Quante volte avrai sentito parlare del ricorso alla Cedu e ti sarai chiesto come fare, a chi rivolgersi, se ne vale la pena, quanto tempo dovrai aspettare, quanto costa….

Beh, sicuramente sono tutte domande più che lecite e ti posso dire subito che sul web puoi trovare centinaia di risorse utili per acquisire almeno le informazioni di prima mano, quelle che possono aiutare ad infarinarsi un pò.

Certo è che, a mio avviso, si tratta di un procedimento dove l’avvocato gioca un ruolo centrale: curiosamente nelle prime fasi si può anche farne a meno, ma ritengo che il tecnicismo che caratterizza questo ricorso sia il motivo principale per cui mi sento di consigliare l’affidamento del dossier da subito ad un tecnico esperto.

Perchè questo? è semplice: basta dare un’occhiata al modello di ricorso che la stessa Corte mette a disposizione sulla rete per rendersi conto che bisogna prestare la massima attenzione ai dettagli.

Ovviamente tutti possono (o potrebbero) da soli compilare il c.d. “formulario”, ma certe sfumature soprattutto in diritto le può cogliere solo un avvocato che si dedichi costantemente alla specifica materia:  è quell’accorgimento che contribuisce ad elevare significativamente le possibilità di riuscita di tutta l’operazione.

Primo consiglio quindi: farsi affiancare dal difensore.

Sappi poi che la Corte EDU non vuole saperne di ricorsi incompleti; in buona sostanza se vedi come è strutturato il formulario ( http://www.echr.coe.int/Documents/Application_Form_2014_1_ITA.pdf ) potrai subito percepire che si tratta di un documento avente un valore giuridico ben preciso, tant’è che l’Organo sovranazionale lo dice espressamente nel preambolo, con una sorta di ammonimento.

Il formulario dovrà essere compilato in ogni sua parte, meticolosamente: si tratta di un accorgimento essenzialmente tecnico che serve alla Corte per avere sott’occhio tutto l’insieme degli argomenti rilevanti per il ricorrente.

Da sapere: la Corte EDU non rilascia consigli tecnico giuridici a chi li dovesse eventualmente chiedere prima di compilare il formulario; è vero però che mette a disposizione della vasta platea di possibili ricorrenti europei istruzioni e guide in varie lingue, tutte facilmente reperibili on line (altro motivo che indirettamente segnala l’importanza di avere a fianco l’avvocato angelo custode).

Nella mia esperienza posso dire che spesso mi sono imbattuto in richieste di assistenza giunte a studio….all’ultimo minuto: inutile dire che si tratta dell’approccio errato e che sconsiglio fortemente, non tanto per il fatto che questo ricorso può essere presentato non oltre sei mesi dall’ultima decisione definitiva nazionale (diventeranno quattro), ma perché tutta la procedura richiede calma e pazienza, meticolosità, precisione, conoscenza approfondita della Convenzione e tanto altro….

Lo studio e la preparazione per tempo del ricorso alla Corte Edu saranno quindi una garanzia per chi ricorre: se questa condizione verrà soddisfatta, allora potremo dire che varrà la pena presentarlo.

Vuoi sapere quanto ti può costare un ricorso CEDU con l’assistenza di un avvocato? Sei preoccupato per i costi?

Tranquillo, è molto semplice: con il difensore che avrai scelto perché ti ispira fiducia potrai metterti sempre d’accordo sul “come” e sul “quanto”.

Ad ogni modo se tu volessi avere qualche altro riferimento normativo o sui parametri forensi nel caso tu non abbia concordato i compensi prima di formalizzare l’incarico, vai su www.cnf.it che è l’Organo istituzionale dell’avvocatura italiana, poi via sulla voce “avvocati”, quindi sulla voce “parametri”, infine clicca su “decreto 55/14” e leggi i valori riportati dalla tabella 14.

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Mancato divorzio: si può chiedere il risarcimento?

vorrei chiedere un risarcimento del danno esistenziale oltre all’equa riparazione per un procedimento di divorzio giudiziale iniziato nel 2009 e nonancora concluso, nemmeno con sentenza parziale, che era stata chiesta per contrarre nuovo matrimonio che tutt’ora non è avvenuto a causa delle lungaggini del tribunale

Rispondo con la collaborazione del collega Michele Peri, con il quale abbiamo svolto qualche ricerca sul punto.

La questione è interessante, perché il danno che una persona riceve non potendosi risposare per mancanza di sentenza sul divorzio è importante e concreto, inoltre a volte anche gratuito per la mancanza di una sentenza parziale che in molti casi si potrebbe emettere, ma che nella prassi non sempre i tribunali redigono.

Purtroppo però, pare che il danno possa essere chiesto (ed eventualmente riconosciuto) solo nell’ambito del procedimento ex legge Pinto, portando tutte le prove del caso, cioè facendo un ricorso per equa riparazione, alla scheda completa sulla quale rimando per maggiori approfondimenti.

L’art. 2 Legge Pinto infatti parla di risarcimento del danno patrimoniale o non patrimoniale (quindi anche esistenziale) per mancato rispetto del termine ragionevole di durata.

Il precedente giurisprudenziale da cui si desume quanto sopra riguarda in realtà la vecchia procedura prevista dalla legge Pinto anteriormente alla riforma operata dal governo Monti, ma il ragionamento credo sia lo stesso anche ora, tranne che per il fatto che non è possibile assumere testimoni.

Cass., 19394/2005

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato il 25.6.2002, *** *** chiedeva che la Corte di Appello di Milano, previo accertamento della violazione dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali (d’ora in avanti, per brevita’, denominata semplicemente Convenzione europea), sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo, disponesse la condanna del Ministero della Giustizia al pagamento di quanto dovutogli a titolo di equa riparazione del danno, patrimoniale, non patrimoniale ed esistenziale, subito in conseguenza della durata appunto della causa civile che, da lui instaurata davanti al Tribunale di Torino con ricorso notificato il 14.7.1997, avente per oggetto la pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto il 31.8.1986 con *** *** *** ***, era stata decisa da detto Giudice con sentenza definitiva del 18.7/26.11.2001.

Si costituiva in giudizio l’Amministrazione convenuta, resistendo alla pretesa avversaria.

Il Giudice adito, con decreto emesso in data 27.9/11.10.2002, condannava la predetta Amministrazione al pagamento della somma di euro 3.000,00, a titolo di ristoro del danno non patrimoniale conseguente alla non ragionevole durata del procedimento di divorzio sopra indicato, rigettando ogni diversa domanda di danni e segnatamente assumendo:

a) che tra la data della notificazione del ricorso e quella della decisione fossero trascorsi piu’ di quattro anni, laddove la durata ragionevole della causa, di pronta ed agevole definizione trattandosi di divorzio “consensuale” siccome relativo alla sola pronuncia di “stato”, con esclusione delle questioni di ordine patrimoniale, doveva essere stimata pari ad un anno e due mesi;

b) che fosse da liquidare al ***, a titolo di ristoro, in via equitativa, del danno non patrimoniale, la somma di euro 1.000,00 per ciascuno dei tre anni eccedenti la ragionevole durata di cui sopra;

c) che il cd. danno esistenziale non costituisse un autonomo titolo di danno, rientrando in quello biologico, indimostrato;

d) che l’inopinato caducarsi del novello progetto matrimoniale del ***, in conseguenza della eccessiva durata della procedura di divorzio, non apparisse suffragato da alcuna prova.

Avverso tale decreto, ricorre per Cassazione il medesimo ***, deducendo due motivi di gravame ai quali resiste con controricorso il Ministero della Giustizia.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di impugnazione, lamenta il ricorrente omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., assumendo:

a) che non puo’ non definirsi erronea la motivazione dell’impugnato decreto la’ dove, apoditticamente, si afferma che il danno esistenziale rientri de plano in quello biologico, omettendosi qualsivoglia ulteriore considerazione in ordine alla configurabilita’ e sussistenza, nella specie, di una diversa figura di danno, connessa agli effetti pregiudizievoli determinatisi nella vita di relazione del ricorrente ed, in particolare, relativi alla di lui possibilita’ di ricostituirsi un nucleo familiare legittimo;

b) che, nel caso in esame, l’irragionevole durata della procedura intesa ad ottenere la caducazione degli effetti civili del precedente matrimonio ha determinato l’impossibilita’ per il *** di contrarre un nuovo vincolo coniugale, per cio’ solo gravemente compromettendo un suo diritto fondamentale;

c) che, a tal fine, il ricorrente ha altresi’ fornito prova certa e concreta delle proprie allegazioni attraverso la dichiarazione sostitutiva di notorieta’ di *** *** in data 22.5.2002, dalla quale si evince come la consolidata relazione intrapresa con il ricorrente sin dal 1996 fosse stata dalla medesima dichiarante interrotta a seguito dell’ulteriore rinvio della procedura di divorzio, comunicatole nell’estate del 2000;

d) che, del resto, nessuna prova diversa da quella fornita avrebbe potuto dare il ricorrente stesso, secondo le regole processuali applicabili, laddove la libera valutazione, da parte del giudice, della dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorieta’ deve in concreto ammettersi in quei particolari casi nei quali, come nella specie, tale dichiarazione venga resa non da una parte ma da un terzo.

Con il secondo motivo di impugnazione, del cui esame congiunto con il precedente si palesa l’opportunita’ involgendo ambedue la trattazione di questioni strettamente connesse, lamenta il ricorrente violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., assumendo:

a) che la Corte territoriale ha ritenuto la sussistenza di carenza probatoria in ordine alle difese svolte dal medesimo ricorrente per non avere quest’ultimo richiesto l’audizione, in qualita’ di teste, della sopra nominata ***;

b) che il tenore letterale dell’art. 3, comma quinto, della legge n. 89 del 2001 persuade del fatto che la norma, elencando e descrivendo in modo dettagliato quelle che sono le facolta’ istruttorie riconosciute alle parti, ha inteso escludere in capo ad esse la possibilita’ di dedurre prove testimoniali e, conseguentemente, di richiederne la relativa assunzione.

I due motivi non sono fondati.

Giova, al riguardo, premettere come la figura del danno “esistenziale” sia stata elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, anche di questa Corte (Cass. 7 giugno 2000, n. 7713 e Cass. 10 maggio 2001, n. 6507, la’ dove, con riguardo alla tutela di pregiudizi non patrimoniali conseguenti alla lesione di diritti fondamentali della persona, diversi dalla salute, collocati al vertice della gerarchia dei valori costituzionalmente garantiti e la cui violazione non puo’ rimanere senza “la minima delle sanzioni – risarcimento del danno – che l’ordinamento appresta per la tutela di un interesse”, si e’ fatto riferimento ad una categoria di danno, appunto “esistenziale od alla vita di relazione”, capace di ostacolare “le attivita’ realizzatrici della persona umana”), per sopperire alle lacune, riscontrate in tema di protezione civilistica degli attributi e dei valori della persona medesima, connesse all’impossibilita’ di giovarsi dell’art. 185 c.p. (e di liquidare percio’ il relativo danno morale) quante volte non risultasse concretizzata una fattispecie di reato, mentre, nella materia de qua, poiche’ il legislatore e’ intervenuto enunciando espressamente la possibilita’ di riconoscere il danno “non patrimoniale” al di fuori dai limiti posti dall’art. 2059 c.c. (art. 2, primo comma, della legge n. 89 del 2001), appare evidente come il pregiudizio esistenziale costituisca una “voce”del danno indicato da ultimo (Cass. 5 novembre 2002, n. 15449), conformemente, del resto, a quanto riconosciuto, in via di principio, da questa stessa Corte, la’ dove figura affermato che, nel vigente assetto dell’ordinamento, in cui assume posizione preminente la Costituzione, che, all’art. 2, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi di ingiusta lesione di un valore inerente alla persona umana, costituzionalmente protetto, dalla quale conseguano pregiudizi non suscettibili di valutazione economica, onde esso non si identifica e non si esaurisce nel danno morale soggettivo, costituito dalla sofferenza contingente e dal turbamento transeunte dell’animo (Cass. 31 maggio 2003, n. 8827 e n. 8828; Cass. 18 novembre 2003, n. 17429; Cass. 12 dicembre 2003, n. 19057; Cass. 15 gennaio 2005, n. 729), ovvero, con specifico riguardo al tema dell’equa riparazione ai sensi della legge n. 89 del 2001, dagli stati d’ansia, dal patimento e dal disagio interiore connessi al protrarsi nel tempo dell’attesa di una decisione vertente su un bene della vita reclamato dal soggetto interessato, ma comprende altresi’ il pregiudizio che dalla durata irragionevole dell’attesa di giustizia si riflette sulla vita di relazione del medesimo soggetto (Cass. 17 aprile 2003, n. 6168).

In questi termini, l’assunto della Corte territoriale, la quale, dopo aver reputato “innegabile” il danno non patrimoniale connesso al ritardo nell’emanazione di un provvedimento relativo allo “stato della persona” ed avere, percio’, liquidato al ***, in via equitativa, la somma di euro 1.000,00 per ciascuno dei tre anni oltre l’anno e mesi due stimato come il tempo di ragionevole durata del procedimento in esame, ha quindi affermato che “Il cd. danno esistenziale non costituisce…un autonomo titolo di danno”, non soggiace di per se’ a censura, indipendentemente, poi, tenuto conto della palese ininfluenza della circostanza in questa sede, dal fatto che la stessa Corte abbia ricondotto tale danno nell’ambito di quello “biologico” ed abbia ritenuto quest’ultimo, nella specie, “indimostrato”.

Peraltro, poiche’ la richiamata sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte n. 1338 del 2004, malgrado abbia compiuto una semplificazione degli oneri probatori, ha tuttavia espressamente riferito il danno non patrimoniale, il quale non puo’ essere negato alla persona che ha visto violato il proprio diritto alla durata ragionevole del processo, all’afflizione causata dall’esorbitante attesa della decisione, ovvero al patema d’animo, all’ansia ed alla sofferenza morale che non occorre dimostrare, sia pure attraverso elementi presuntivi, trattandosi di conseguenze (non patrimoniali appunto) che possono reputarsi presenti secondo l’id quod plerumque accidit ed essendo normale che l’anomala lunghezza di un processo le produca in capo alla parte che vi e’ coinvolta, laddove, del resto, il danno cd. “esistenziale”, concretandosi in una modificazione dell’agire del singolo, e’ agevolmente accertabile altresi’ in via oggettiva, ovvero sulla base di indici piu’ sicuri (si pensi al cambiamento dei propri usi di vita sociale, delle proprie scelte abituali e cosi’ via) di quelli che suggeriscono l’esistenza di un danno morale soggettivo, del tutto correttamente il Giudice di merito ha ritenuto che “L’inopinato caducarsi del novello progetto matrimoniale del *** in conseguenza della eccessiva durata della procedura di divorzio non appare suffragato da alcuna prova seria, tale non potendosi considerare la dichiarazione di certa *** *** in data 22 maggio 2002 (costei avrebbe deciso di troncare la relazione sentimentale instaurata con il *** allorche’, nell’estate del 2000, le fu comunicato l’ulteriore rinvio della causa di divorzio)”, senza che, d’altra parte, si verta nell’ambito dell’art. 76 del D.P.R. n. 445 del 2000 e che la predetta *** sia stata indicata quale teste sulle circostanze contenute nella dichiarazione stessa. A tale riguardo, infatti, conviene notare:

a) che alla dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorieta’ posta in essere da un terzo estraneo alla lite deve attribuirsi la stessa rilevanza assegnata alla scrittura proveniente da un terzo appunto (Cass. 7 agosto 2004, n. 15306), onde tale dichiarazione, non configurandosi come prova tipica, non riveste la piena efficacia delle prove documentali e puo’ costituire semplicemente un indizio suscettibile di integrare il fondamento della decisione in concorso con altre risultanze istruttorie delle quali occorre valutare la rilevanza, restando cosi’ rimessa al prudente apprezzamento, insindacabile in sede di legittimita’ se adeguatamente motivato, del giudice di merito (Cass. 14 agosto 2001, n. 11105; Cass. 3 agosto 2002, n. 11652; Cass. 27 luglio 2004, n. 14122), il quale, quindi, nella specie, del tutto correttamente non ha considerato ” la dichiarazione di certa *** *** in data 22 maggio 2002″, di per se’ sola, come una “prova seria”;

b) che, del resto, parimenti incensurabile si palesa il rilievo della Corte territoriale in ordine alla circostanza che “la predetta *** (non) e’ stata indicata quale teste sulle circostanze contenute nella dichiarazione stessa”, atteso che la formulazione dell’art. 3, quinto comma, della legge n. 89 del 2001 non esclude che i mezzi di prova attraverso i quali ricostruire i fatti rilevanti ai fini del decidere siano, e restino, quelli “tipici” di ogni procedimento il quale, come accade in materia di equa riparazione, pur articolandosi nelle forme della Camera di consiglio; (art. 3, quarto comma, della gia’ citata legge n. 89/001), non realizzi un’espressione di giurisdizione volontaria (cosi’ da rendere possibile al giudice di assumere informazioni sui fatti in modo tendenzialmente libero e di ricorrere a mezzi di prova anche “atipici”), ma abbia per oggetto un conflitto di posizioni tra le parti applicato a diritti soggettivi, ovvero costituisca l’espediente normativo per dare vita ad una forma processuale semplificata ed alternativa rispetto a quella ordinaria, ma volta a finalita’ di accertamento e/o di condanna che sono analoghe od identiche, onde dal catalogo delineato dagli artt. 2699 e seguenti c.c. e dagli artt. 191 e seguenti c.p.c., ivi comprendendo, quindi, altresi’ la prova testimoniale, le parti e la corte di appello (quest’ultima nell’esercizio dei suoi poteri ufficiosi) possono attingere senza limitazioni particolari, tanto piu’ in un caso, come quello di specie, in cui le norme sul procedimento di equa riparazione, contenute nel richiamato art. 3 della legge n. 89/2001, non recano alcuna esplicita disposizione in contrario.

Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.

La sorte delle spese del giudizio di Cassazione segue il dettato dell’art. 385, primo comma, c.p.c., liquidandosi tali spese in euro 1.500,00 per onorario, oltre le spese prenotate a debito.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso in favore del controricorrente delle spese del giudizio di Cassazione, liquidate in euro 1.500,00 per onorario, oltre le spese prenotate a debito.

Cosi’ deciso in Roma, il 17 maggio 2005.

Depositato in Cancelleria il 4 ottobre 2005.

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Sentenza che tarda: come si può velocizzare?

Se possibile avrei una domanda veloce riguardo i tempi per avere la sentenza di una causa civile.
Ben 10 anni fa sono stato truffato da alcune persone che dovevano costruire delle villette, e non l’hanno piu’ fatto, ovviamente tenendosi i soldi che avevo dato loro.
Dopo appunto quasi 10 anni si lentissimo progresso, la causa civile e’ finalmente arrivata al punto che il giudice (Tribunale di Taranto) si e’ riservato la decisione finale.
L’avvocato mi ha detto che a questo punto ai sensi dell’art. 190 c.p.c. le parti hanno la facoltà di depositare note conclusive entro i successivi 60 gg. e note di replica nei successivi 20 gg. Dopo tale termine complessivo di 80 gg. il Giudice potrà emettere la sentenza.
Ebbene, questo totale di 80 giorni e’ passato una decina di giorni fa. Potrebbe consigliarmi cosa posso fare se non vedo emettere la sentenza ?

Non puoi fare niente per avere prima la sentenza, puoi solo chiedere, in relazione all’intero procedimento, l’equa riparazione.

Il codice di procedura civile prevede un termine per il giudice per emettere la sentenza dopo che le parti si sono scambiate le memorie conclusionali, cioè la comparsa e le eventuali repliche.

Ma si tratta di un termine per la cui violazione non è prevista alcuna sanzione. Un famoso studioso del processo italiano, Redenti, diceva a proposito di questo termini che, accanto alla distinzione tra termini perentori e ordinatori, occorrerebbe introdurre la categoria dei termini «canzonatori», proprio perché sono una presa in giro.

Solo nei casi di ritardi estremi nel deposito della sentenza, a partire da almeno 4 o 5 anni, si può pensare di fare, ad esempio, un esposto al Consiglio Superiore della Magistratura, cosa che peraltro può condurre, in caso di accoglimento, all’applicazione di una sanzione disciplinare in capo al magistrato, ma comunque non direttamente all’emissione della sentenza.

C’è da dire anche, a voler essere oggettivi, che il carico di lavoro dei magistrati è davvero imponente e spesso molti ritardi non sono affatto biasimevoli, perché è umanamente impossibile per un giudice che ha tantissimi fascicoli fare prima ad emettere le sentenze. Purtroppo, non è a colpi di legislazione che si possono risolvere i problemi di efficienza del lavoro!

Altrimenti basterebbe fare una legge per cui tutti dovrebbero consegnare le cose in tempo, ma è chiaro che una legge del genere non servirebbe a niente…

Io credo che non ti rimanga che aspettare, come fanno tutti.

Una volta che sarà stata depositata la sentenza, e non solo per il ritardo nella pubblicazione della stessa, ma per la durata complessiva del processo potrai depositare un ricorso per equa riparazione. Se vuoi un preventivo per questo tipo di ricorso, puoi compilare il modulo apposito.

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Equa riparazione: si può chiedere anche se perdi la causa?

Si può chiedere l’equa riparazione anche quando una parte è rimasta soccombente, cioè ha perso il processo durato troppo a lungo? Sapevo che si poteva fare prima del decreto Crescitalia, ma che dopo l’entrata in vigore del decreto non si può più.

L’equa riparazione si può sempre chiedere, anche se hai perso la causa. L’indennizzo che ti paga il procedimento di equa riparazione è il danno morale che una persona subisce per il fatto di essere stata parte di un procedimento – civile, penale, amministrativo, in qualche caso anche tributario e di altro tipo – per un numero eccessivo di anni.

Se tu perdi la causa, non è che hai avuto meno disagio nell’esser parte di un processo per anni o decenni.

Anche chi ha torto, anzi per certi profili soprattutto chi ha torto, ha diritto di venirne a conoscenza in un tempo ragionevole.

Peraltro, il concetto di torto o di ragione, specialmente nelle liti civili, basate sul riferimento ad un sistema giuridico le cui regole sono ispirate spesso a tecnicismi lontani dal senso comune, è talmente vago da impedire di poter parlare, onestamente, di buona o mala fede, in molti casi, tanto che una persona può intentare un procedimento convinto di avere ragione, per poi ritrovarsi invece sconfitto, magari semplicemente per un problema istruttorio, cioè di prove.

Al di là di questi concetti, che sono fondamentali, che sia possibile chiedere l’equa riparazione, anche dopo il decreto Crescitalia (d.l. n. 83 del 2012) che ha riformulato la legge Pinto in diverse parti, lo ha stabilito espressamente Corte Costituzionale, con l’ordinanza 09/05/2014, n. 124

Con questo provvedimento, la Corte con cui ha previsto che la nuova disposizione, così come riformulata dal decreto Crescitalia, nella parte in cui, riferendosi all’importo dell’indennizzo e stabilendo che esso «non può in ogni caso essere superiore […] al valore del diritto accertato dal giudice», debba essere intesa come riferita al caso in cui il giudice accerta l’esistenza del diritto fatto valere in giudizio, non anche a quello in cui ne accerti l’inesistenza con conseguente soccombenza della parte.