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un medico può farsi «pubblicità» tramite un volantino?

Il dottore Tizio viene sottoposto a formale procedimento disciplinare da parte dell’Ordine dei Medici del luogo in cui esercita la professione, in relazione alla diffusione di un volantino ove risultano pubblicizzate le prestazioni offerte dalla Cooperativa ‘’X’’ di dentisti, della quale lo stesso Tizio risulta direttore sanitario. L’accusa iniziale che viene formulata nei confronti del dottore è quella di avere tenuto un comportamento non conforme rispetto a quanto disposto dal codice deontologico. All’esito del procedimento disciplinare, la Commissione incaricata pronuncia a carico dell’incolpato la sanzione della sospensione (pari a 3 mesi) dall’esercizio della professione. Secondo la Commissione la diffusione dei volantini pubblicitari effettuata dal dentista risulta essere scorretta sul piano deontologico, in quanto lesiva del decoro e della dignità professionale ed, ulteriormente, ispirata ad una realtà di esclusiva natura commerciale. La Commissione sostiene, inoltre, che il messaggio diffuso, mediante volantino, sia falso nella parte in cui postula l’esistenza di una tariffa minima nazionale, oramai abrogata. Secondo la Commissione il mero richiamo a quei minimi tariffari risulta essere ‘’biasimevole’’ (…). Tizio, per contrastare quanto affermato in sede disciplinare ricorre presso la Corte di Cassazione formulando differenti motivi a sostegno della sua correttezza professionale: nel primo motivo, denuncia espressamente l’avvenuta violazione del diritto comunitario originario (Trattato UE), la violazione della Direttiva 2006/123/CE (diritto comunitario derivato), nonché rilevanti vizi motivazionali; nel secondo motivo, il ricorrente denuncia la violazione della Legge interna nr. 248/06. La Corte di Cassazione accoglie il ricorso del dentista e la decisione impugnata viene cassata.

Ebbene, le disposizioni comunitarie, richiamate da Tizio in sede di ricorso, risultano ispirate alla massima liberalizzazione delle prestazioni di servizi. In tal senso, una nota sentenza della Corte di Giustizia UE, 05 aprile 2011, causa C-119/09, segna un importante ‘’punto a favore’’ verso la liberalizzazione delle comunicazioni commerciali dei professionisti, a sostegno del convincimento che la pubblicità sia utile per tutelare i consumatori. La Corte di Giustizia mediante quest’ultima pronuncia sottolinea, soprattutto, l’obbligo sancito, per gli Stati Membri della Comunità, dall’art. 24.1 della Direttiva 2006/123/CE di sopprimere tutti i divieti in materia di comunicazioni commerciali delle professioni regolamentate. Nello specifico, la Direttiva 2006/123/CE, conosciuta come ‘’Direttiva Servizi’’, mira ad agevolare nel mercato interno all’Unione la libertà di stabilimento dei prestatori di servizi e mira altresì ad allargare la scelta offerta ai destinatari dei servizi, migliorandone la qualità in favore dei consumatori e delle imprese utenti. Focalizzando l’attenzione al panorama domestico, è semplice ricostruire l’evoluzione normativa concretizzatisi nell’ambito della pubblicità professionale. Ab origine, la Legge nr. 175 del 1992 non conteneva, in realtà, un divieto di pubblicità ma ne regolava l’esercizio, limitando ‘’il mezzo’’ pubblicitario e ‘’l’oggetto’’ della comunicazione pubblicitaria. Il Decreto ”Bersani”, convertito in Legge, nr. 248/2006, in sintonia con il panorama normativo comunitario, ha rimosso tutto ciò che può intendersi come divieto, ‘’liberalizzando, per l’appunto, la pubblicità, anche in ambito sanitario’’. La novella in quaestio ‘’ha ampliato’’ l’oggetto della comunicazione pubblicitaria, consentendo anche di comunicare le peculiarità del servizio offerto e il prezzo delle relative prestazioni. In tal senso, è essenziale evidenziare la funzione riconosciuta alla deontologia professionale e il ruolo che possono svolgere gli Ordini professionali. Al riguardo, la Direttiva 2006/123/CE invita gli Stati Membri a ‘’favorire’’ l’elaborazione di regole e quindi di codici di condotta da parte di Ordini, organismi o associazioni professionali. Per tali ragioni, in merito al controllo sulla pubblicità, l’Ordine non può esimersi dall’intervenire nel caso in cui rilevi forme di pubblicità ingannevole, ossia ‘’qualsiasi pubblicità che in qualunque modo induca in errore o possa indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, leda o possa ledere un concorrente’’, ex art. 20 D.lgs. nr. 206/2005 (in tal senso, si rinvia ai D.lgs. nr. 145/07, 146/07). In combinato disposto, l’art. 21 del medesimo Codice del Consumo stabilisce che ‘’per determinare se la pubblicità sia ingannevole se ne devono considerare tutti gli elementi (…)’’. Per completare la sintetica analisi normativa, è bene evidenziare che ‘’il Decreto Bersani trova applicazione anche per le strutture sanitarie gestite da società’’. Oggi, ‘’si rileva totale equiparazione tra professionisti e società sotto il profilo pubblicitario e nuova spinta per la concorrenza, sempre all’interno dei canoni di trasparenza e veridicità’’ (in tal senso, Cass. nr. 3717/12).

Secondo la Corte di Cassazione, III sezione civile, sentenza nr. 11816 del 2012, nella fattispecie in esame, i differenti motivi proposti da Tizio appaiono fondati: ‘’le argomentazioni addotte dalla Commissione disciplinare risultano infatti speciose e tautologiche. L’assunto dell’ambiguità e del carattere ingannevole del riferimento ad una tariffa oramai abrogata è all’evidenza viziato da un’insopprimibile insofferenza verso il ricorso al messaggio pubblicitario da parte dell’esercente la professione sanitaria. Non si vede, infatti, come quel richiamo, che necessariamente presuppone, piuttosto che smentire, il carattere puramente orientativo della tariffa, possa confliggere con la trasparenza e la veridicità della comunicazione. Ne ha troppo senso la valorizzazione, in chiave di addebito, della genericità della promessa riduzione, in quanto non riferita a singole prestazioni, potendo ciò incidere solo sulla capacità di persuasione del messaggio, che è profilo certamente estraneo alla sfera di intervento degli organi disciplinari’’. Pertanto, prosegue la Corte, ‘’le ragioni addotte dalla Commissione a sostegno della negativa valutazione formulata al riguardo sono giuridicamente scorrette e logicamente inappaganti’’.

Insomma, grazie all’avvenuta evoluzione normativa ‘’i prezzi delle prestazioni’’ sono oggi liberi: ogni dentista può applicare il prezzo che meglio crede, ogni dentista tramite la pubblicità può informare quali servizi offre, in quale modo li offre e a quale prezzo. In sintonia, gli Ordini professionali vigilano sul rispetto delle regole di correttezza affinchè la pubblicità avvenga secondo criteri di trasparenza e veridicità delle qualifiche professionali e di non equivocità, a tutela dell’interesse dell’utenza. Ma ci si chiede: nonostante si attui una concreta concorrenza-liberalizzazione ed un parallelo controllo su di essa, oggi la pubblicità risulta ‘’compiutamente’’ regolamentata? Attualmente, esistono disposizioni specifiche relative alla pubblicità sanitaria online o vengono applicate norme generali valide per tutti i media?

 …‘’La tecnologia avanza più velocemente rispetto agli aspetti legislativi’’: tutto ciò potrebbe comportare una mera ‘’sovrapposizione-contrasto’’ tra etica medica ed etica di marketing!

 

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la responsabilità del datore di lavoro e del lavoratore in caso di decesso del secondo

Tizio perde la vita a causa di un infortunio sul lavoro: nello svolgimento delle sue mansioni, alle dipendenze di Caio, rimane folgorato nel tentativo di operare un collegamento tra la betoniera (presente nel cantiere) e il cavo di alimentazione, con la corrente in tensione. Il Tribunale di primo grado, competente, dichiara la responsabilità del datore di lavoro per l’infortunio mortale occorso al suo dipendente Tizio. A seguire, la Corte d’appello, chiamata a pronunciarsi, riconosce una responsabilità di tipo concorrente tra datore di lavoro e lavoratore. Caio decide, così, di proporre successivo ricorso in Cassazione: Corte che conferma la sentenza emessa in secondo grado e, pertanto, rigetta il ricorso.

In tema di responsabilità civile, il referente normativo del nesso di causalità va individuato nelle disposizioni del codice penale, ex artt. 40 e 41 c.p.. Ad ogni modo, appare chiaro che la causalità civile è diversa da quella penale perché è diverso il sistema e la ratio che lo anima, perché sono diverse le regole che governano la prova e perché soprattutto sono diversi i beni tutelati. ‘’Ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola probatoria in quanto nel primo vige la regola della prova oltre il ragionevole dubbio, mentre nel secondo vige la regola del più probabile che non’’ (Cass., Sez. Unite, 11  gennaio 2008, nr. 581, 582 e 584). Ebbene, con la nozione di causalità si intende ‘’l’insieme delle condizioni pratico-fattuali antecedenti, sotto il profilo spazio-temporale, ad un determinato evento naturalistico ed allo stesso ricollegate in base ad una ‘’uniformità regolare’’ (…). Il nesso di causalità si inquadra nell’ambito dell’elemento oggettivo, costituendo il fondamentale collegamento tra la condotta e l’evento ed integrando ‘’l’imputazione oggettiva del fatto al soggetto agente’’. ‘’Occorre, cioè, che l’evento concreto si possa riconnettere alla condotta di un determinato soggetto, in modo che possa essergli attribuita la responsabilità di averlo procurato!’’. In tal senso: ‘’nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipenda l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione (…)’’, ex art. 40 c.p.. In combinato disposto, l’art. 41.2 c.p. afferma che: ‘’Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento (…)’’. Più specificatamente, l’istituto del concorso di cause, disciplinato dall’articolo appena menzionato, stabilisce ‘’una presunzione di pari valenza nel concorso di una pluralità di cause che appaiono idonee a produrre l’evento; tale presunzione viene vinta solo dalla dimostrazione che ‘’una di esse sia stata da sola idonea a far realizzare l’evento, si da far degradare le altre cause a mere occasioni dell’evento, senza alcuna propria autonoma efficienza’’. Quest’ultima è una norma di fondamentale importanza all’interno dell’assetto normativo che il codice ha inteso attribuire al tema della causalità e lo scopo della disposizione, secondo l’orientamento prevalente, è quello di temperare il rigore derivante dalla meccanica applicazione del principio generale contenuto nel primo comma dell’art. 41 c.p.. Pertanto, perché possa parlarsi di causa sopravvenuta idonea ad escludere il rapporto di causalità, o la sua interruzione come altrimenti si dice, ‘’si deve trattare di un percorso causale ricollegato all’azione o omissione dell’agente ma completamente atipico, di carattere assolutamente anomalo ed eccezionale, di un evento che non si verifichi se non in casi del tutto imprevedibili a seguito della causa presupposta’’. Quando si parla di infortunio sul lavoro e quindi di relativa condotta del lavoratore: si può dimostrare l’abnormità del comportamento del lavoratore infortunato e, quindi, si può provare che proprio l’abnormità abbia dato causa all’evento; questa caratteristica della condotta del lavoratore infortunato è idonea ad interrompere il nesso di causalità quale causa da sola sopravvenuta, da sola sufficiente a determinare l’evento in base al già ricordato art. 41.2 c.p.. Volgendo l’attenzione, parallelamente, alla condotta del datore di lavoro: è essenziale richiamare l’art. 2087 c.c., rubricato ‘’tutela delle condizioni di lavoro’’: ‘’il quale possiede una funzione sussidiaria ed integrativa delle misure protettive da adottare a garanzia del lavoratore, tale disposizione abbraccia ogni tipo di misura utile a tutelare il diritto soggettivo dei lavoratori ad operare in un ambiente esente da rischi’’ (v. Corte Costituzionale, sent, nr. 399 del 1996). Quest’ultima norma, di carattere generale, evidenzia che i datori di lavoro sono tenuti a ‘’proteggere’’ i lavoratori anche nei confronti di atti ‘’imprudenti’’ che i medesimi possono compiere nello svolgimento delle loro mansioni. Sul datore di lavoro, dunque, ‘’gravano sia il generale obbligo di neminem laedere, ex art. 2043 c.c. (responsabilità extracontrattuale), sia il più specifico obbligo di protezione dell’integrità psico-fisica del lavoratore, ex art. 2087 c.c. ad integrazione ex legge delle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro (responsabilità contrattuale)’’. L’art. 2087 c.c. ‘’ha il compito di supplire alle lacune di una normativa che non può prevedere ogni fattore di rischio ed ha, perciò, una funzione sussidiaria di adeguamento al caso concreto’’. Il Giudice delle Leggi ha, inoltre, affermato che non  sono soltanto le norme costituzionali (artt. 32 e 41.2 Cost.) ad imporre ai datori di lavoro la massima attenzione per la protezione della salute e dell’integrità fisica dei lavoratori, in quanto numerose altre disposizioni, assumono in proposito valenza decisiva (…). E’ necessario che: ‘’chi si avvalga di una prestazione lavorativa, eseguita in stato di subordinazione, anteponga al proprio legittimo profitto la sicurezza di chi tale prestazione esegua, adottando ogni cautela che lo specifico contesto lavorativo richieda (Cass., nr. 17314 del 2004).

Recentemente, la Corte di Cassazione (Cass. Civile, sentenza nr. 6337 del 2012) si è espressa sull’ennesimo infortunio sul lavoro affermando (nel caso di specie) che: ‘’l’attività che ha determinato l’infortunio mortale, cioè il tentativo di operare un collegamento diretto tra la betoniera ed il cavo di alimentazione, non rientra nelle mansioni del lavoratore, con qualifica di manovale generico’’. (Si delinea, così, una condotta del lavoratore che ‘’per certi versi’’ può apparire abnorme, arbitraria ed imprevedibile). A dire della Corte, però!, nel caso di specie, ‘’il datore di lavoro ha omesso la predisposizione di un interruttore differenziale, pure in mancanza di una specifica disposizione antinfortunistica in tal senso’’. Secondo la Corte, il ricorrente, datore di lavoro, ‘’avrebbe concorso al 50 per cento alla verificazione dell’infortunio mortale, in quanto lo stesso non ha adottato alcuna misura di prevenzione né specifica, né generica’’.

Insomma, il fenomeno infortunistico, oltre a produrre costi sociali, rileva principalmente per la sua dimensione umana. Il datore di lavoro è, e rimane, comunque, il titolare della posizione di garanzia poiché ha l’obbligo di effettuare, in primis, la valutazione dei rischi e di elaborare successivamente a tale analisi le misure di prevenzione e protezione ad hoc. Ma ci si domanda: oggi, esiste in concreto un’adeguata e continua formazione sulla sicurezza? Esiste un costante controllo, super partes, su di essa? Solo incrementando un’adeguata e costante preparazione dei datori di lavoro si possono formare-istruire gli stessi lavoratori e, quindi, ridurre i rischi di infortuni. Dovrebbero essere costituiti dei Modelli di Organizzazione e di Gestione (MOG) ‘’esemplari, idonei e specifici’’ (contenenti una serie di precise azioni, regole, norme, direttive) e il datore di lavoro dovrebbe essere il reale artefice-educatore dei medesimi modelli.

…La vita e la salute, dei lavoratori, sono beni inestimabili!

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la responsabilità del datore per gli infortuni del dipendente sussiste salvo il comportamento eccezionale del lavoratore – considerazioni a margine di Cass. pen. 9173/2012

In materia di infortuni sul lavoro e responsabilità del datore per il delitto di lesioni colpose, la Cassazione con una sentenza della IV sezione penale pubblicata lo scorso 8 marzo ha evidenziato un importante principio di diritto e considerazioni che meritano di essere sottoposte all’attenzione dei lettori del blog, in particolare gli imprenditori.

L’evento colposo da cui trae origine la decisione dei giudici di piazza Cavour riguarda l’infortunio di lavoro occorso ad una operaia che aveva provveduto alla rimozione di rolle sui tamburi di una filatoio ad anelli mentre era in moto riportando l’asportazione di due falangi della mano.

Dall’istruttoria sul posto di lavoro era risultato che la macchina non era dotata di mezzi di protezione e gli organi in movimento erano esposti ed accessibili senza alcun accorgimento tecnico idoneo a prevenire il pericolo di incidenti per i lavoratori.

L’infortunio, si legge nella decisione dei giudici di legittimità, non può attribuirsi ad un comportamento negligente della lavoratrice perché non solo l’operazione era consentita con la macchina in movimento ma, e questo è il punto decisivo della sentenza in commento “in materia di infortuni sul lavoro, la condotta incauta del lavoratore infortunato non assurge a causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l’evento quando sia comunque riconducibile all’area di rischio propria della lavorazione svolta: il datore di lavoro è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del lavoratore e le sue conseguenze presentino i caratteri dell’eccezionalità, abnormità e dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive di organizzazione ricevute.”

Nel caso in questione l’operaia svolgeva la sua ordinaria attività presso la macchina che era priva di adeguati dispositivi di protezione, l’imprudenza di costei, presa nella da un eccesso di sicurezza ma in adempimento di prassi aziendali, che aveva avvicinato la mano alla filatrice secondo i giudici non costituisce comportamento abnorme idoneo ad interrompere il nesso causale tra la condotta omissiva ascrivibile al datore di lavoro e l’evento.

Le cautele omesse erano preordinate ad evitare il rischio specifico che poi si è concretamente materializzato nell’infortunio sul lavoro.

Ricordo che l’art. 141 del D.P.R. 547 del 1955, in materia di macchine per filare, statuisce che “il montaggio sui tamburi delle macchine indicate nell’articolo precedente delle funicelle di comando dei fusi deve essere fatto a macchina ferma. E’ tuttavia consentito il montaggio a macchina in moto, ferma restando l’osservanza delle disposizioni di cui al predetto articolo (art. 140 n.d.r.) a condizione che all’operazione sia adibito personale esperto fornito di appositi attrezzi, quali anello e asticciola con gancio.”

In conclusione è nostro dovere suggerire ai datori di lavoro la massima attenzione alle problematiche della sicurezza sul posto di lavoro consigliando di affidarsi a professionisti del settore che possano garantire la stretta osservanza della legislazione vigente, il del T.U. in materia di salute e sicurezza sul lavoro, il D. Lgs. 81/2008 come emendato dal successivo D. Lgs. 106/2009.

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l’ammalato di SLA può far testamento tramite il suo amministratore di sostegno?

In data 17 gennaio 2012, in favore di un uomo affetto da SLA (sclerosi laterale amiotrofica) è stata istituita una amministrazione di sostegno, con designazione della sorella, quale soggetto deputato ad aiutarlo nelle quotidiane attività gestionali ed amministrative, considerato il grave impedimento fisico dell’uomo dovuto alla malattia. Effettuati i necessari accertamenti medici, il paziente è risultato perfettamente vigile, cosciente e ben orientato con pieno sensorio integro, nonostante la malattia non gli permetta di esprimersi autonomamente. Il totalizzante limite fisico è stato superato dall’uomo con uno strumento tecnico, chiamato ‘’comunicatore oculare’’, il quale nel febbraio del 2011 ha concesso al beneficiario (presso la sua abitazione) di ‘’essere sentito’’ dal giudice. Il risultato: l’uomo è perfettamente capace di intendere e volere e, grazie! al supporto delle nuove tecnologie, può anche esprimere la sua volontà e comunicarla. Vi è, tuttavia, che il beneficiario non può ‘’materialmente’’ firmare le sue volontà. L’amministratrice di sostegno, nel caso di specie, ha così presentato al giudice le volontà testamentarie di detto soggetto, non sottoscritte, chiedendo di autorizzare la sua sostituzione, con rappresentanza, al beneficiario per presentare ella stessa, come amministratrice, il testamento.

Ebbene, gli artt. 2 e 3 della Carta Costituzionale non distinguono l’accesso ai diritti costituzionali in base alla capacità o meno di muoversi, di scrivere: da qui l’esigenza di apprestare esaustivi meccanismi giuridici di ‘’sostituzione’’ in favore del disabile-beneficiario. Il tutto trova concretezza attraverso l’istituto giuridico della rappresentanza sostitutiva, ove il rappresentante-amministratore di sostegno è tenuto a raccogliere le volontà del titolare del diritto e a renderle efficaci all’interno dell’ordinamento. In tal senso, l’art. 409.1 c.c. recita espressamente che ‘’il beneficiario conserva la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno’’. L’amministratore di sostegno può, dunque, tecnicamente raccogliere le volontà testamentarie del beneficiario-disabile, espresse mediante il comunicatore oculare, riportarle in forma scritta su un atto formale, sottoscritto in nome e per conto del beneficiario, con i poteri di rappresentanza sostitutiva diretta. E’ bene precisare, in accostamento, che l’art. 591.1, nr. 2 c.c., rubricato ‘’casi d’incapacità’’, esclude la capacità di testare per gli interdetti ma non per i beneficiari, capaci pienamente di intendere e volere! Ed ancora, la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, New York 2006, ratificata dall’Italia con Legge nr. 18/2009, riconosce ‘’l’importanza per le persone con disabilità della loro autonomia ed indipendenza individuale, compresa la libertà di compiere le proprie scelte’’. La Convenzione sostiene che ‘’comunicare è un diritto della persona con disabilità’’: e proprio con puntuale riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., sopramenzionati, il paziente ‘’gode del diritto a comunicare le sue intenzioni, la sua volontà e possiede, anche diritto a che le stesse siano rese effettive’’.

Seguendo anche quest’ultimo orientamento internazionale, il giudice tutelare del Tribunale di Varese, con decreto nr. 333 del 12 marzo del 2012, afferma che il soggetto affetto da SLA ha diritto a dettare il proprio testamento attraverso lo strumento denominato comunicatore oculare e con l’ausilio del proprio amministratore di sostegno. L’amministratore di sostegno, pertanto, ‘’darà voce’’ al beneficiario per preparare un valido testamento olografo.

Insomma, con serenità, si può affermare che anche i giudici hanno avvertito ‘’la prigione fisica’’ della SLA, prigione ove gli occhi fisicamente illesi costituiscono la luce, la speranza, ma soprattutto divengono un’importante apertura al mondo…

Il dentista mi ha fatto uscire l’ernia!

buon giorno :nel 2006 un medico dentista effettuava degli interventi nella mia bocca , apparentemente sembrava tutto ok ma , a distanza di 1 anno e mezzo x la precisione nel 2008 ho iniziata ad accusare forti dolori alla colona vertebrale fatta la risonanza hanno constatato che avevo  1 ernia  espulsa al 4c passo mesi d’inferno con dolori terribili e spesi mediche private cospicue,non avendo avuto traumi di nessun genere :il mio medico fatte le vari domande di rito mi chiede se avevo fatto interventi hai denti ,dissi di si 18 mesi 1a allora mi fa visitare da un medico dentista che con un tecnico constatano che la mia masticazione in seguito al lavoro mal fatto nella mia bocca si è abbassata di 5 mm mi reco dal dentista che aveva effettuato il lavoro e mi assicura che mi rimborserà se avrò la cortesia di attendere trovandosi momentaneamente in difficoltà..ma ancora non è accaduto  credo a questo punto che mi sta facendo solo perdere del tempo x arrivare alla possibilità che la cosa passi in prescrizione x ciò ho deciso di andare da 1 avvocato ;domando : posso chiedere i danni al mio dentista ?se si,di che natura ? come si quantifica il danno di 1 ernia espulsa..grazie se avrete la cortesia di rispondermi

Sicuramente ha tutto il diritto di chiedere i danni al Suo dentista. Ovviamente è impossibile quantificare l’ammontare del danno dal punto di vista economico. Si tratta infatti di una valutazione:

a) soggettiva (nel senso che uno stesso pregiudizio, dal punto di vista fisico, puo’ essere diverso da persona a persona);

b) che solo un medico (in particolare un perito, di parte se scelto da Lei, d’ufficio se concesso dal giudice laddove si rendesse necessario per un contrasto con il parere di un medico scelto da controparte) può quantificare;

c) polivalente (nel senso  che il danno può essere biologico, ma anche ad esempio prettamente economico: il cosiddetto “danno emergente” vale a dire tutte le spese mediche sostenute per le cure; poi abbiamo il “lucro cessante” da intendersi come mancata possibilità di guadagno se a causa della sofferenza non è potuta andare al lavoro).

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Mi investono con l’auto e mi tocca pure pagare!

mio figlio nel 2001 ha subito un’incidente stradale lui era in bici ed è stato travolto da un auto,è stato ricoverato in rianimazione x 7gg,con un enfisema polmonare,5 costole fratturate e cicatrici varie.Nel 2001 incarico un avvocato, per seguire la pratica di rasarcimento,al quale ho detta da subito che il ragazzo era da solo e quindi non vi sono testimoni oculari.Ad ottobre 2009 ho ricevuto una raccomandata dallo studio legale dell’assicurazione dell’auto con la quale mi ha portato a conoscenza che la sentenza di condanna nei miei confronti era stata emessa a gennaio 2006 e deposita a marzo 2006. Posso fare ancora qualcosa? Ci sono responsabiltà da parte del mio avvocato? E’giusto che l’abbia saputo dalla controparte? Il risarcimento ha cui sono stato condannato (420€)+ iva lo devo pagare? Non vi sembra ingiusto che oltre la beffa debba subire anche un danno?

Purtroppo se la causa non è bene istruita, se non ci sono prove nè testimoni puo’ succedere di soccombere ingiustamente.

E’ sicuramente curioso (quantomeno) che una bicicletta danneggi un’automobile, ma in assenza di prove puo’ succedere.

Per quanto riguarda le eventuali responsabilità del Suo avvocato è difficile per me dire se si è comportato professionalmente o meno nell’istruire la causa. Mi risulta tuttavia alquanto strano che in 3 anni non abbia trovato il tempo per informarLa dell’esito della causa. Sicuramente se è andata così l’avvocato è responsabile nei Suoi confronti e può essere segnalato all’ordine di appartenenza.

Per quanto riguarda l’appello, purtroppo, i termini sono scaduti e la somma è da pagare per evitare un’esecuzione nei Suoi confronti.

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quando si lavora in ambienti insalubri

Ho la netta impressione di essere stato preso di mira in un’ottica di ristrutturazione aziendale. Lavoro da 16 anni per un gruppo alberghiero, sono un quadro aziendale, ad agosto, non mi è stato corrisposto un aumento retributivo concordato e sottoscritto in marzo, mangio la foglia e mi aspetto dell’altro!!! Storia recente, vengo contattato direttamente dalla proprietà, che mi fa il discorso atteso e non sperato, che non rientro nel nuovo assetto societario futuro…. La prima sensazione che provo è tanta rabbia, poi, man mano che trascorre il tempo, sono assalito dalla voglia di difendermi e, se possibile, trarre il massimo profitto da questa vicenda. Porgo una domanda, potrò far valere quale mio diritto a risarcimento, il fatto che ho lavorato per anni undici in un locale che di salubre non aveva nulla, privo di areazione e luce naturale in quanto si tratta di uno scantinato a ridosso di un garage???

Certo, hai tutto il diritto di difenderti e far valere i tuoi diritti. Tuttavia realisticamente è difficile che ci riuscirai da solo, quindi ti consiglio di rivolgerti o ad un’associazione sindacale o ad un legale che ti possa seguire in questa vicenda, soprattutto se l’insalubrità dei luoghi in cui hai lavorato può aver avuto delle conseguenze sulla tua salute.

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quando il cane del vicino azzanna quello dell’ospite

Mio suocero ha dei vicini che, pur non avendo recintato il loro  terreno, tenevano comunque liberi tre cani di grossa taglia. I cani  sono soliti abbaiare ed avvicinarsi a coloro che scendono di macchina  per suonare il campanello a casa di mio suocero. Qualche giorno fa è successo “il fattaccio”: una signora è venuta a trovare i miei suoceri, a piedi, con il suo cagnolino al guinzaglio. Tornando a casa, uscendo dal cancello attraverso il quale si accede a casa dei miei suoceri, fatti pochi metri, si è vista correre incontro i cani (“liberi”) dei vicini che hanno iniziato ad “azzannare” il cagnolino che lei teneva al guinzaglio. L’evento è avvenuto su una strada di proprietà altrui dove sia il vicino proprietario dei cani “aggressori”, sia il mio suocero hanno diritto di passo (insiste una servitù di passaggio). La signora, che ha una certa età ed ha subìto un grosso spavento, ha dovuto sostenere circa 350 Euro di spese veterinarie per curare il suo cane ed inoltre non ha ricevuto il benché minimo interessamento da parte dei proprietari dei cani “aggressori”. Il medico le ha redatto un certificato (3 gg. di prognosi) per lo spavento subìto in seguito all’evento. La signora e suo figlio, presentatisi dai Carabinieri per sporgere denuncia, si sono sentiti rispondere che “…la legge è cambiata. Quando i cani si azzuffano non è possibile far nulla”. So che hanno sentito anche la ASL segnalando che i cani erano di fatto liberi e da
 anni non sono mai stati chiusi in un recinto. Risposta: “non si può  fare niente. Deve avviare una causa”.  A me francamente la situazione mi sembra a dir poco assurda.  Cosa consiglieresti di fare?  Tieni presente che i proprietari dei tre cani adesso li hanno chiusi in terrazza (da quando sono fidanziato con la mia ragazza – 11 ANNI! – posso confermarti anch’io che li hanno sempre tenuti liberi,  all’aperto, anche di notte).

Purtroppo, come ti hanno già detto i carabinieri il fatto non può essere ricondotto ad una questione penale ma bensì civile. Diverso sarebbe stato se la signora avesse avuto il proprio cagnolino non al guinzaglio ma in braccio e quindi avesse subito anch’essa di persona un’agressione da parte dei cani del Vicino. In tal caso infatti l’agressione non sarebbe stata solo al cane della signora ma anche alla stessa. Quindi, in conclusione, la signora potrà rivalersi limitatamente alla sede civile chiedendo il risarcimento dei danni subiti in primis per lo spavento preso e successivamente per il costo delle spese mediche sostenute per curare il proprio cane.

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Infortunio in itinere non valutato equamente dall’INAIL

Sono una guardia particolare giurata in infortunio in itinere regolarmente riconosciuto dall inail dal 24/01/09 dopo aver effettuato varie visite sia fisiatriche che ortopediche ,sia in centri privati che in strutture pubbliche(ASL). Dopo una risonanza magnetica che ha evidenziato una tendinopatia del sovraspinato, il fisiatra dell Asl mi ha prescritto dei cicli di FKT,con un eventuale ricorso all intervento chirurgico.  Il medico dell inail(ortopedico)dopo aver avallato il piano del fisiatra ,ha stabilito che dopo 3 cicli di FKT;io medesimo ho ottenuto migliorie ,pertanto non guarito dalla diagnosi riscontratami.  Lo stesso medico inail il 5/06/09 mi confermerà la chiusura della pratica infortunistica senza essere guarito.  La mia domanda è la seguente:  puo’ chiudermi la pratica dopo solo 3 cicli di terapia? Senza che io medesimo abbia riscontrato un beneficio relativo delle terapie stesse? Visto che il giorno 5/06/09 dovro’ effettuare visite di controllo come mi devo comporatare se lo stesso mi vorrà chiudere la pratica?
Vi prego di rispondermi cortesemente prima di tale data per sapere quale comportamento adottare. In attesa di un vostro gradito riscontro,vogliate gradire cordiali saluti.

Innanzitutto mi scuso per il ritardo, ma purtroppo le domande che ci fate sono tante e non sempre è possibile rispondere subito, soprattutto quando, come noi, si risponde a chiunque ne faccia richiesta.

La chiusura dell’infortunio avviene quando è possibile valutarne l’entità fisica ed economica e l’infortunato viene liquidato. A stabilire tale entità non può essere che un medico e non certo l’INAIL stessa che deve necessariamente seguire le indicazioni di chi L’ha visitata.

Se il medico ha verificato che Lei ha subito una tendinopatia del sovraspinato e che guarirà presumibilmente con tre sedute questo non significa che l’INAIL abbia il diritto di chiudere la pratica laddove Lei non sia effettivamente guarito.

Di solito, però, esistono tabelle di riferimento che predeterminano il “valore” di ciasuna tipologia di infortunio e potrebbe essere successo che l’INAIL le abbia semplicemente applicate alla lettera facendo corrispondere al Suo infortunio il valore in esse scritto.

E’ evidente, però, che se la visita di controllo dovesse avere rilevato il persistere della patologia o addirittura un suo aggravamento, Lei avrà diritto a chiedere quanto Le spetta, potendo anche fare causa all’istituzione.

le immissioni del vicino su fondo altrui

sono confinante con un terreno dove da circa un anno il propietario tiene in custodia un cane di grossa taglia. Il cane non ricevendo le opportune attenzioni ha scelto come porzione di giardino dove eseguire i propri bisogni,quello adiacente al muretto di confine con il mio immobile che rappresenta inoltre l’entrata principale della casa,dove è presente anche la finestra della mia cucina. Tutto ciò si traduce spesso in uno sgradevole cattivo odore di m…… Nonostante le ripetute richieste da parte mia con il proprietario di mantenere pulita quella zona non ho ottenuto nessun risultato. A chi mi posso rivolgere per avere una risoluzione del mio disagio?

Il suo problema può farsi rientrare nella disciplina di cui all’art. 844 codice civile che recita: il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo, calore, rumori, scuotimenti e simili propagazioni provenienti dal fondo del vicino se queste non superano la normale tollerabilità.La disposizione dell’art. 844 cod. civ. e’ applicabile anche negli edifici in condominio nell’ipotesi in cui un condomino, nel godimento della propria unita’ immobiliare o della parti comuni, dia luogo ad immissioni moleste o dannose nella proprieta’ di altri condomini.

 Inoltre visto che tale situazione si perpetra vicino alla tua cucina, ci potrebbero essere anche dei risvolti dal punto di vista igienico. Per cui potresti provare a parlarne con l’ufficiale sanitario del tuo comune di residenza.

In ogni caso visto che tu non puoi spostare la tua cucina, mentre al contrario il tuo vicino può tenere il cane più distante dal tuo fondo, o al limite  tenerlo pulito,  puoi ricorrere al giudice di pace anche in via d’urgenza per richiedere che, previo accertamento dell’entità degli odori nauseabondi e della nocività alla salute venga ordinato al vicino di assumere i provvedimenti più idonei per eliminare, o se non altro fortemente attenuare, l’immissione degli odori.