comprare hardware all’estero

Vedo spesso, navigando su internet, prodotti che mi piacerebbe acquistare per la mia azienda offerti da siti esteri, anche non comunitari. Se acquisto, sono tutelato? Come andrebbe poi gestita fiscalmente la cosa?


Acquistare all’estero può essere molto conveniente, ma bisogna distinguere da paese e paese. Oggigiorno, in particolare, la distinzione fondamentale è tra Unione Europea da un lato e il resto del mondo dall’altro. Acquistare all’interno dell’Unione presenta, in particolare, oltre oramai alla valuta comune, che è sempre un fondamentale punto di riferimento, alcuni vantaggi.
Innanzitutto si gode di un sistema di garanzia per i consumatori e più in generale di una legislazione uniforme, dal momento che le direttive comunitarie in materia sono state implementate in ogni singolo Stato.
Quindi si può fare affidamento su disposizioni probabilmente simili a quelle italiane. Questo, per le aziende, è un aspetto per la verità piuttosto limitato, perché la legislazione comunitaria è per la quasi totalità diretta a
tutelare il consumatore. Però il fatto di avere una legislazione uniforme costituisce sempre un buon punto di riferimento. Un ulteriore vantaggio dell’acquisto intracomunitario è che non sono previsti dazi doganali. Nel caso di acquisti da parte di titolari di partita IVA non bisogna nemmeno versare l’IVA al momento dell’acquisto. Si riceve una fattura di vendita, che riporta il numero di identificativo IVA – detta VAT (acronimo di value added tax) a livello comunitario, che può essere regolarmente inserita in contabilità. C’è però un adempimento in più da porre in essere e cioè compilare un modello INTRASTAT per l’importazione. Per questo motivo, la cosa migliore da fare, prima di acquistare beni per conto dell’azienda dall’estero, e cioè da un paese dell’Unione, è sempre preferibile parlare prima con il proprio commercialista di fiducia, per informarlo della cosa, in modo che si prepari a dover compilare l’INTRASTAT ed eventualmente per sentire circa i pro ed i contro dell’operazione, anche dal punto di vista gestionale – contabile. L’INTRASTAT è necessario per poter inserire l’hardware tra i cespiti e potere mettere in deduzione la relativa spesa.
Per quanto riguarda, invece, gli acquisti extra Unione i problemi possono essere diversi: in primo luogo, ci sono dei dazi doganali da pagare, spesso non trascurabili. Purtroppo Europa e Stati Uniti si fanno la “guerra commerciale” e l’Europa non lesina l’istituzione di tasse di entrata per proteggere la propria economia. Di fatto, poi, possono esserci standards diversi anche su aspetti molto semplici quali l’alimentazione elettrica degli apparati. Negli Stati Uniti, mantenendo il nostro esempio, gli apparecchi elettrici sono alimentati in maniera diversa che in Europa. Da ultimo, in caso di problemi può essere difficile sapere qual’è la legislazione di riferimento e soprattutto diventare molto difficile da gestire una vertenza, dal punto di vista logistico.
Alla luce di quanto sopra, appare opportuno per l’azienda che intende acquistare prodotti informatici dall’estero informarsi, presso il proprio commercialista di fiducia, circa gli adempimenti fiscali a suo carico, e valutare inoltre assieme a quest’ultimo la convenienza o meno dell’acquisto.

canone rai e scheda tv: è da pagare?

In altri termini, anche chi non ha un televisore ma solo un computer con una scheda, interna o esterna, per la ricezione tv deve pagare il canone? La risposta è, allo stato attuale, positiva. Non è sufficiente rinunciare alla propria televisione per potersi sentire legittimati a non pagare il cosiddetto “canone di abbonamento”. L’antico regio decreto n. 246 del 21 febbraio 1938 (e successive integrazioni e modifiche) precisa infatti che: “Il canone di abbonamento è un tributo dovuto per la semplice detenzione di un apparecchio atto od adattabile alla ricezione delle trasmissioni radiotelevisive.” (principio riconfermato recentemente dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 284 del 2002). Un qualunque apparecchio potenzialmente in grado di ricevere un segnale televisivo (tale può essere una scheda video “all-in-one” ma anche un semplice videoregistratore o un monitor per pc inizialmente privo di sintonizzatore) ricade nell’obbligo di corrispondere la quota annuale al Servizio Radiotelevisivo Pubblico.

La materia, con tutti i legittimi dubbi che l’utente si porta dietro, è certamente complessa e soggetta a continue e rapide evoluzioni, essendo stata regolata nel tempo da diverse disposizioni non sempre coerenti tra loro, che hanno poi dovuto fare i conti con l’adeguamento alle normative comunitarie e l’evoluzione (sia tecnologica che sociale) dei mezzi di comunicazione. Ha sicuramente contribuito a generare maggiore confusione la definizione di questo tributo quale “canone di abbonamento”. Questo termine può indurre a pensare, erroneamente, ad un servizio che può essere disdetto nel momento in cui l’utente decida di non volerne più usufruire. Le stesse campagne promozionali Rai fanno spesso riferimento ai vantaggi o ai premi di cui possono usufruire gli “abbonati” (come se sottoscrivere l’abbonamento fosse una scelta vantaggiosa e non un obbligo). In realtà il termine “canone d’abbonamento” è usato impropriamente per per definire ciò che originariamente era una vera e propria tassa, cioè un tributo legato ad una determinata prestazione di un servizio erogato da un ente pubblico e che, in seguito, con la crescita esponenziale delle tv private e la progressiva riduzione della natura pubblica della Rai, ha assunto la forma di imposta, cioè di tributo slegato ad un’effettiva fruizione dei programmi “pubblici”.

In un’interessante sentenza del Tribunale di Milano si legge che, in passato, il pagamento del canone di abbonamento radiotelevisivo poteva apparire giustificabile quando la Rai era l’unica emittente autorizzata a diffondere via etere i programmi radio-tv. Il panorama radiotelevisivo più recente risulta invece caratterizzato da una pluralità di emittenti nazionali e locali in cui una situazione di esclusiva creerebbe “una disparità evidentissima di trattamento tra chi riceve le trasmissioni televisive attraverso la normale televisione e chi le ricevesse, invece, (addirittura migliori) attraverso la scheda adattata al computer, ovvero chi non le ricevesse affatto”. Senza dimenticare – precisa ancora il giudice – “l’uso gratuito dell’etere che avviene con le trasmissioni via internet”, nonché il fatto che ormai “i programmi mandati in onda dalla Rai non differiscono dai programmi mandati in onda da altre reti private a diffusione nazionale”. Posizione sicuramente condivisibile visto l’aumento continuo della percentuale di spot contenuti nei programmi Rai, che ha reso piu’ difficile una distinzione tra quello che dovrebbe essere un servizio di natura esclusivamente pubblica (sul modello dell’inglese BBC) ed un network commerciale privato. E’ curioso notare come il giudice rilevi la principale differenza tra tv pubbliche e private “solo per il “logo” che compare ad un angolo del teleschermo”. Di conseguenza “riesce difficile trovare una giustificazione razionale all’esistenza di una tassa che l’utente deve corrispondere alla sola “emittente pubblica” sul solo presupposto della detenzione di un apparecchio potenzialmente atto a ricevere un servizio “pubblico” dal contenuto uguale a quello offerto dal “servizio privato” e indipendentemente dal fatto che usufruisca sia dell’uno che dell’altro.

Il recente codice delle comunicazioni radiotelevisive ha cercato di ribadire la natura “pubblica” della Rai stabilendo che “Il contributo pubblico percepito dalla società concessionaria del servizio pubblico generale radiotelevisivo, risultante dal canone di abbonamento alla radiotelevisione, è utilizzabile esclusivamente ai fini dell’adempimento dei compiti di servizio pubblico generale affidati alla stessa” ribadendo che un numero adeguato di ore di trasmissioni televisive e radiofoniche dovrebbe essere dedicato “all’educazione, all’informazione, alla formazione, alla promozione culturale, con particolare riguardo alla valorizzazione delle opere teatrali, cinematografiche, televisive, anche in lingua originale, e musicali riconosciute di alto livello artistico o maggiormente innovative” e che tale programmazione dovrebbe essere presentata anche nelle fasce di maggiore ascolto. Norme che difficilmente potranno trovare applicazione fino a quando una “missione” di servizio pubblico così ben delineata si scontrerà con logiche puramente commerciali basate sulla schiavitu’ dei dati d’ascolto.

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iva sul commercio elettronico

La Camera, nella seduta del 17 ottobre scorso, ha approvato il disegno di legge comunitaria 2002, che si trova attualmente al Senato in attesa del via libera definitivo. Il disegno di legge comunitaria recepisce una serie di direttive in materia di tutela dei consumatori e altre, tra cui anche il trattamento IVA applicabile ai
servizi prestati tramite mezzi elettronici di cui alla direttiva dell’Unione Europea 2002/38/CE. Ma quand’è che le nuove disposizioni in materia di commercio elettronico entreranno in vigore?
Non è facile prevederlo con precisione… La direttiva dovrebbe entrare in vigore, secondo le previsioni di Bruxelles, nel luglio 2003. Bisogna però ricordare che la legge comunitaria è il principale strumento per la trasposizione delle direttive europee nell’ordinamento italiano. Introdotta nel nostro Paese nel 1989 con la Legge 9 marzo 1989, n.86, la famosa legge “La Pergola” dal nome del suo originario proponente, essa regola le modalità e i tempi per la trasposizione delle direttive comunitarie, determinando con quali provvedimenti (decreti legislativi, decreti ministeriali o regolamenti) deve essere attuata ciascuna direttiva, al di fuori delle ipotesi di recepimento diretto. Solitamente, la legge comunitaria contiene una serie di deleghe al Governo, il quale poi ulteriormente dovrà fare i singoli provvedimenti. Attualmente, la comunitaria si trova appunto all’esame del Senato e, se verrà approvata nel testo attuale, il Governo, dal giorno della sua entrata in vigore, potrà emanare un Decreto Legislativo, praticamente una legge di origine governativa, sulla base delle sue disposizioni e della delega ricevuta il quale riformerà il regime dell’IVA del commercio elettronico dando attuazione alla direttiva 2002/38/UE.
La legge comunitaria, in ogni caso, non aggiunge molto a quanto già previsto dalla direttiva dell’Unione, limitandosi a stabilire, all’art. 1, che il “Governo è delegato ad adottare, entro il termine di un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, i decreti legislativi recanti le norme occorrenti per dare attuazione alle direttive comprese negli elenchi di cui agli allegati A e B” dove, ovviamente, nell’allegato A è riportata la direttiva IVA in questione.
Per capire quali saranno, dunque, le principali novità si può dare un’occhiata a quanto stabilito dalla direttiva stessa. Intanto bisogna dire che le nuove regole non sono state previste tanto a tutela del consumatore quanto del Fisco che, nei vari Stati, guarda da sempre al commercio elettronico come un preoccupante spiraglio per evasioni ed elusioni. Esse comunque dovrebbero servire anche a garantire condizioni di parità per tutti gli imprenditori che intendono offrire beni o servizi a consumatori che risiedono nel territorio dell’Unione Europea.
La direttiva, in ogni caso, riguarderà sia le transazioni tra gli operatori commerciali (le cosiddette business tu business, B2B) sia quelle con i consumatori (cosiddette business to consumer, B2C). Le operazioni interessate saranno le seguenti:
1) progettazione, realizzazione e amnutenzione di siti web:
2) contratti di web hosting;
3) fornitura di programmi e loro aggiornamento;
4) cessione di immagini, di musica, di film e di giochi;
5) programmi politici, culturali, sportivi, scientifici e di divertimento;
6) formazione a distanza;
7) accesso a banche dati.
Sono esclusi, invece, i servizi relativi a radio e televisione.
La “rivoluzione” della direttiva è, comunque, sostanzialmente che la prestazione viene tassata presso il committente, cioè presso l’acquirente, sia egli consumatore finale o altro imprenditore. Quindi si applica il regime IVA previsto nel Paese in cui risiede il consumatore finale, con la precisazione che se questi risiede in uno Stato non facente parte dell’Unione l’operazione non è imponibile e non si applica quindi l’IVA. Questo meccanismo garantisce alle imprese condizioni paritarie nel momento in cui vendono all’interno dell’Unione e condizioni addirittura di vantaggio nel momento in cui operano all’esterno. Il tutto però anche a discapito del consumatore. Infatti, ad esempio, il consumatore italiano che oggi può rivolgersi alle imprese di quegli Stati in cui non è prevista l’IVA ovvero è prevista con una aliquota ridotta, trovando magari gli stessi beni a costo inferiore, non potrà più farlo quando verrà attuata la nuova direttiva, perché a qualsiasi operazione che si terrà in Italia sarà applicato il regime italiano, indipendentemente dalla nazionalità del produttore. Il produttore, poi, quando andrà a vendere ad un consumatore, ad esempio, statunitense non sarà soggetto ad IVA con la conseguenza che il bene costerà meno e sarà più allettante per il consumatore residente in un Paese che non è membro dell’Unione. Si tratta di innovazioni da seguire, dunque, con attenzione perché destinate ad incidere notevolmente sullo sviluppo e sull’incremento dell’e-commerce. La direttiva dovrebbe inoltre avere una efficacia nel tempo limitata, di tre anni, ma non è difficile che da transitoria, quale è adesso, diventi di fatto definitiva.

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cambia a livello comunitario il regime iva per il commercio elettronico

All’ultima riunione dell’Ecofin, l’organo che riunisce tutti i ministri “economici” degli Stati membri dell’Unione Europea, è stato varato il progetto di nuova direttiva in materia di regime IVA per il commercio elettronico. Si tratta di un tema tradizionalmente delicato. Infatti, la gestione dell’IVA, Imposta sul Valore Aggiunto, è sempre stata problematica per quanto riguarda le transazioni internazionali, tant’è vero che la disciplina europea attuale è sempre stata qualificata come “transitoria” ma nonostante questo va avanti da una decina d’anni. Nel caso del commercio elettronico, le tradizionali difficoltà sono inoltre destinate ad aumentare: infatti in molti casi manca la consegna materiale del bene compravenduto, come ad esempio nell’ipotesi in cui si acquista un software scaricandolo, tramite una procedura di download, dal sito del produttore. Questo, ovviamente, rende molto difficile il controllo da parte delle Amministrazioni fiscali dei vari Stati. Proprio queste ultime, che guardano da tempo al commercio elettronico come un preoccupante spiraglio per evasioni ed elusioni, sono state le maggiori promotrici di un intervento legislativo europeo. La nuova direttiva, in teoria, dovrebbe costituire l’attuazione dei principi posti in materia di e-commerce dall’OCSE nel vertice di Ottawa del 1998, che dovrebbero consistere nella neutralità, efficienza, flessibilità, certezza e semplicità della tassazione. In realtà dovrebbe servire anche a garantire condizioni di parità per tutti gli imprenditori che intendono offrire beni o servizi a consumatori che risiedono nel territorio dell’Unione Europea.
La direttiva, in ogni caso, riguarderà sia le transazioni tra gli operatori commerciali (le cosiddette business tu business, B2B) sia quelle con i consumatori (cosiddette business to consumer, B2C). Le operazioni interessate saranno le seguenti:
1) progettazione, realizzazione e amnutenzione di siti web:
2) contratti di web hosting;
3) fornitura di programmi e loro aggiornamento;
4) cessione di immagini, di musica, di film e di giochi;
5) programmi politici, culturali, sportivi, scientifici e di divertimento;
6) formazione a distanza;
7) accesso a banche dati.
Sono esclusi, invece, i servizi relativi a radio e televisione.
La principale novità è, comunque, che la prestazione viene tassata presso il committente, cioè presso l’acquirente, sia egli consumatore finale o altro imprenditore. Quindi si applica il regime IVA previsto nel Paese in cui risiede il consumatore finale, con la precisazione che se questi risiede in uno Stato non facente parte dell’Unione l’operazione non è imponibile. Questo meccanismo garantisce alle imprese condizioni paritarie nel momento in cui vendono all’interno dell’Unione e condizioni addirittura di vantaggio nel momento in cui operano all’esterno. Il tutto anche a discapito del consumatore. Infatti, ad esempio, il consumatore italiano che oggi può rivolgersi alle imprese di quegli Stati in cui non è prevista l’IVA ovvero è prevista con una aliquota ridotta, trovando magari gli stessi beni a costo inferiore, non potrà più farlo quando verrà attuata la nuova direttiva, perché a qualsiasi operazione che si terrà in Italia sarà applicato il regime italiano, indipendentemente dalla nazionalità del produttore. Il produttore, poi, quando andrà a vendere ad un consumatore, ad esempio, statunitense non sarà soggetto ad IVA con la conseguenza che il bene costerà meno e sarà più allettante per il consumatore residente in un Paese che non è membro dell’Unione.
Per attuare questo meccanismo, tutti gli operatori economici dovranno “identificarsi” e cioè in qualche modo avere una base all’interno di uno degli Stati membri dell’Unione. Così, ad esempio, un operatore statunitense per poter vendere in Italia, e in tutti gli altri Stati membri, potrà stabilirsi in Germania. In questo modo, in caso di transazioni tra operatori economici (B2B) fiscalmente identificati in Stati diversi, l’operazione sarà imponibile presso il committente il quale dovrà autoliquidarsi l’imposta con una procedura detta reverse charge; in caso, invee, di operazione verso il consumatore finale (B2C), l’operazione risulterà sempre imponibile presso il committente, ma verrà fatturata direttamente con imposta da parte del fornitore, che dovrà identificarsi anche nello Stato del consumatore finale.
La direttiva dovrebbe entrare in vigore nel luglio 2003. Essa ha espressamente una efficacia limitata nel tempo, di tre anni, sino agiugno 2006. E’ previsto che la sua efficacia possa essere estesa anche oltre, finendo magari per essere una disciplina transitoria che, come quella attuale, dura per molto più tempo del previsto, ma per tale estensione è necessaria una approvazione all’unanimità. E’ evidente che provvedimenti di questo tipo si basano su equilibri politici, anche internazionali e intercontinentali molto delicati, e saranno molto importanti le reazioni al nuovo regime che verranno dagli Stati Uniti e dalle altre grandi aree economiche del mondo, specialmente in considerazione del fatto che il nuovo sistema prevede sostanzialmente una esenzione per le imprese dell’Unione che forniscono beni o servizi a Paesi che non sono membri della Comunità.