licenziata dopo 30 anni con una mail. Ho fatto causa. Primo grado perso e vinto. La ditta condannata a reintegrarmi entro 3 giorni oppure a risarcire con 6 mesi di stipendio. Ovviamente non mi hanno ripresa e ho dovuto pignorarli per avere i 6 mesi. Hanno effettuato in Aprile 2018 un bonifico di circa 14.000€ con indicato: pagamento per sentenza X. Non ho ricevuto nessun dettaglio cartaceo. Ho chiesto al mio avvocato cosa fare di queste somme? se e come dichiararle? preciso che sono sempre disoccupata e senza reddito, e il licenziamento risale a 3 anni fa. Nel 2019 come mi devo comportare? faccio denuncia dei redditi? devo pagarci delle tasse? se si a quanto ammontano? come faccio il calcolo? La ditta non avrebbe dovuto inviarmi i conteggi? o versare una Ritenuta Acconto? vi prego aiutatemi… il mio avvocato diceva che i soldi erano netti non da dichiarare, ma mi sono documentata e temo non sia cosi.
Mi dispiace per la tua vicenda.
Come dico sempre, la materia fiscale e previdenziale non è quella che gli avvocati conoscono meglio, per giuste ragioni su cui non mette conto dilungarsi in questa occasione.
Su aspetti del genere, meglio sentire un commercialista o un consulente del lavoro.
In generale, credo che la somma che ti è stata liquidata non corrisponda e non possa essere considerata retribuzione, ma un risarcimento del danno che ti è stato cagionato con il licenziamento.
Se così fosse, ed è una cosa da verificare anche leggendo bene la sentenza, il regime fiscale e previdenziale sarebbe completamente diverso da quello cui sono assoggettate le somme corrispondenti a retribuzione.
Se credi, lo possiamo approfondire, tramite un’apposita consulenza, ma io ti consiglierei di investire prima i tuoi soldi nel parere di un bravo consulente del lavoro, che potrebbe magari sentirsi a riguardo con il legale che ti ha seguito per la causa di lavoro.
Innanzitutto bisogna chiarire che è ancora un progetto e non si sa con precisione quando verrà discusso.
Non si tratta di un condono, ma della possibilità di pagare una piccola somma a saldo di un debito più grande.
Si tratta di un provvedimento che consente il saldo e stralcio delle cartelle esattoriali per i piccoli contribuenti che sono in difficoltà economica. Quindi si valuterà il debito e la situazione economica del contribuente.
A seconda della situazione in cui si trovano, i contribuenti potranno pagare da un minimo del 6% a un massimo del 25% del dovuto con un’aliquota intermedia del 10%.
È importante dire subito che non riguarderà tutti. La misura esclude i ‘grandi’ contribuenti, ma sarà efficace “solo per coloro che a causa della pesante recessione economica non hanno potuto pagare in tutto o in parte le imposte fino ad un tetto massimo di 100mila euro comprensivo di sanzioni, interessi e more”.
Le ragioni della pace fiscale sono diverse, i portavoce del Governo spiegano che così chi ” si trova in situazioni di disagio economico può chiudere per sempre la posizione con il
Fisco e tornare così ad essere attivi nella società”. Il provvedimento “potrebbe portare nelle casse dello Stato 60 miliardi di extragettito in 2 anni”. Per capire la portata del provvedimento, si consideri che l’anno scorso la ‘rottamazione delle cartelle’ ha visto l’adesione di 950mila debitori da cui l’erario attende 2 miliardi di euro per il 2018-2019.
Per maggiori informazioni, si può consultare il mio sito.
Ormai lo sanno (e qualche volta se ne approfittano) tutti, sono finiti anche i tempi in cui generalmente si guardava agli avvocati come a privilegiati – cosa che peraltro non è mai stata molto vera, come spiego in questo precedente post.
La crisi è innanzitutto economica, nel senso che ci sono difficoltà concrete e spesso anche determinanti e insuperabili per una chiusura positiva dei bilanci a fine anno, ma è anche, e dunque soprattutto, di valori, di significato, di senso, di dignità e così via, per una categoria in cui erano accorse persone di buona volontà che sono rimaste spesso deluse.
Non è – devo dirtelo subito – il mio caso.
Io sono ancora molto soddisfatto da tutti i punti di vista della mia professione, credo che traspaia anche da tutto quello che quotidianamente comunico tramite il blog e i social.
Ho persino scritto un post, che ha avuto un enorme successo (segno che il tema è molto seguito), in cui elenco i motivi per cui fare l’avvocato è ancora bellissimo, che ti invito a leggere con attenzione.
Ugualmente, c’è una larga fetta di avvocati in sofferenza ed è di loro ma soprattutto a loro che mi va di parlare, dopo aver ricevuto diverse richiesto in questo senso e aver letto diversi resoconti e persino qualche sfogo sui social.
Se senti di far parte di questa categoria, leggi attentamente perché questo post è per te.
Le cause della crisi.
Qual è il punto di partenza di qualsiasi discorso riguardo ad un argomento come questo?
Bisogna, a mio giudizio, innanzitutto comprendere le cause di questa situazione, economica ed emotiva, fallimentare.
Qui, ti voglio dire, quasi nessun avvocato riesce nemmeno a identificare con precisione le origini vere dei problemi attuali e questo, sinceramente, lascia un po’ da pensare, dal momento che un avvocato è comunque anche un imprenditore, che cose come queste dovrebbe capirle bene o quantomeno intuirle.
I falsi motivi
Solitamente, gli avvocati in difficoltà se la prendono con varie cose che, alla fine, non sono così rilevanti, sono più che altro dei capri espiatori per dare una spiegazione che non si riesce o vuole dare in un altro modo.
Il primo sono i clienti che non pagano.
Questo, di solito, è il primo «motivo» che viene individuato.
Qui voglio darti una notizia.
I clienti, di qualsiasi impresa, azienda, organizzazione, onlus, forma di governo o di Stato, non pagano tendenzialmente mai volentieri e, se possono farlo senza grandi rischi di conseguenze, evitano di farlo.
È una notizia incredibile, ma ti assicuro che è vera.
Riformulando la cosa in altri termini, è evidente che il problema del cash flow è uno dei vari problemi che ogni imprenditore, avvocati compresi, deve affrontare e gestire in modo efficace.
Personalmente, ho risolto questo problema impostando i pagamenti anticipati, sia per quanto riguarda la sezione del commercio che si svolge in forma elettronica tramite il sito, sia per quanto riguarda gli incarichi che vengono conferiti tradizionalmente in studio.
Ovviamente, faccio preventivi gratuiti, prima di iniziare qualsiasi lavoro.
Le persone, incredibilmente, quando sanno cosa vanno a spendere valutano e, se decidono di darmi l’incarico, pagano anche subito volentieri.
Io dò chiarezza, ricevo denaro.
Ma chiudiamo la parentesi, perché questo non è il motivo della crisi economica della categoria.
Altro motivo frequentemente molto gettonato sono le tasse da pagare.
Ora, a parte che molti professionisti fanno tanto lavoro fuori fattura, dal momento che non hanno magazzino, non vendono beni, ma servizi impalpabili, che le fatture non si scaricano e quindi i clienti preferiscono pagare «a nero» piuttosto che farsi dare una fattura che a loro non serve a nulla, a parte questo, dicevo, c’è da dire che le tasse sono uguali per tutte le aziende e i professionisti di qualsiasi tipo.
La grande notizia, qui, è che gli avvocati non pagano un centesimo in più di tasse rispetto a qualsiasi altra azienda o professionista.
L’unica cosa che c’è di vero è che abbiamo una cassa forense che vuole una parte dei nostri guadagni a scopi pensionistici. Ma ogni categoria ha la sua cassa e, se non ce l’ha, ha comunque l’INPS, per cui ogni attività economica, anche qui, paga una parte dei ricavi – sempre solo quelli fatturati ovviamente – per scopi previdenziali.
La realtà è che queste – ed altre – sono solo scuse, non c’è altro modo per dirlo.
È vero i clienti che tendono a non pagare sono un problema, lo Stato e la cassa che vogliono dei soldi, spesso anche se non li hai guadagnati, sono sicuramente un altro problema, ma la realtà è che ci sono molti avvocati che guadagnano e fanno buoni affari.
Nel 2018, in Italia.
«Ah, ma allora sono quelli che sono figli d’arte, hanno le mani in pasta con la politica, il tricche tracche, i cuggini, questo e quello…»
Altra scusa.
Non c’entra niente.
Quelli che conosco io, e io stesso nel mio piccolo, non abbiamo avuto appigli, aiuti, preferenze, incentivi vari, ma ci siamo guadagnati da soli non tanto la nostra clientela ma l’assetto attuale che abbiamo dato ai nostri studi e che ci consente di utilizzarli come macchine ed organizzazioni per guadagnare in modo abbastanza soddisfacente.
Sei pronto, adesso, per sapere quali sono le reali cause della condizione economica deteriore di una grande fetta degli avvocati oggigiorno?
Le scie chimiche!
No vabbè, parliamo seriamente.
I veri motivi.
Le reali cause dello stato fallimentare in cui versano molti studi legali e singoli professionisti sono principalmente due:
il peccato originale, a monte dell’inizio dell’attività, di non aver «pensato l’azienda»
e quello successivo, e permanente, di non fare marketing, anzi di non capire nemmeno che il marketing, nelle limitate forme in cui è consentito agli avvocati, è assolutamente necessario.
Con il secondo punto, si comprende come una delle cause più gravi di sottosviluppo economico è il codice deontologico forense, che, da questo punto di vista, letteralmente è il martello con cui sono stati inchiodati i chiodi che hanno chiuso la bara della professione forense.
Ma di questo diremo meglio più avanti.
Vediamo adesso, in positivo, le due principali cause che abbiamo appena enunciato.
Non aver pensato l’azienda.
Se chiedi ad un avvocato perché ha scelto di studiare giurisprudenza ed è finito a fare la professione, nel 90% dei casi ti risponde che era il desiderio dei suoi genitori…
Che dolce!
Poi, subito a ruota, questo avvocato di solito si incazza perché questo tenero ed onesto desiderio dei suoi ascendenti, che tanti sacrifici hanno fatto (magari timbrare dal lunedì al venerdì all’INPS), è oggi frustato dai kattivih clienti che non pagano, dallo Stato che – cavolo santo – vuole troppe tasse, dalla cassa che è troppo esosa!!!1! e così via, come abbiamo visto poco fa.
Il problema invece è proprio che non si fonda un’azienda perché è il desiderio dei tuoi – onore a loro – genitori!
È una cosa molto banale, ma realmente molti avvocati lo sono diventati per questo ed è alla fine completamente demenziale dal punto di vista del business e del fare impresa.
Fondi un’azienda quando hai un’idea di business inizialmente interessante, di cui verifichi con cura la fattibilità sotto tutti i profili rilevanti a riguardo.
Se poi è la tua principale o unica azienda, quella con cui devi mantenerti e mantenere la famiglia, i controlli li farai tutti tre volte.
Molti avvocati non si sono chiesti ad esempio:
in che posto vivo o comunque intendo aprire il mio studio legale?
in questo posto che ho scelto ci sono buone occasioni di clientela?
in che stato versa nel mio paese e nel posto da me prescelto la vendita di servizi legali?
quali sono i collettori di clientela di cui posso pensare di arrivare a disporre?
quali sono le forme di lead generation che potrò svolgere una volta aperta la mia bottega?
Molti avvocati non sono neanche in grado di comprendere bene cosa significhino queste domande.
Se consideriamo questo, capiamo che non è per nulla stupefacente che molti avvocati si trovino, economicamente, nella merda, perché un cazzo di ciabattino sotto casa con la terza elementare ha più istinto imprenditoriale di loro.
La conclusione è che molti avvocati sono diventati avvocati e hanno aperto la partita IVA come professionisti completamente alla cazzo!
Non ho, mi dispiace, un altro modo per dirtelo.
E, pensa un po’, non si aprono imprese alla cazzo.
Si possono fare tante cose alla cazzo, ma se apri un’impresa alla cazzo, sei destinato a chiudere entro al massimo tre anni.
Salvo – e qui tornano i cari genitori – che qualcuno non ti paghi la cassa forense, le tasse, i fornitori e tutte quelle spese che tu non riesci a pagare perché non guadagni «ancora» abbastanza.
Ciò, ovviamente, solo al momento e per poterti consentire di «ingranare».
Peccato che sono 15 anni che stai ingranando…
Non fare marketing.
Nessuna organizzazione, nessuna, compresa la Chiesa cattolica, può sopravvivere se non svolge attività di lead generation.
Te lo ripeto perché è bene che, oggi, in questo momento, questo concetto ti entri nella zucca una volta e per sempre: nessuna organizzazione, impresa, società, impresa individuale, onlus del cazzo può sopravvivere se non svolge attività di lead generation.
La lead generation è l’attività di generazione di prospetti, cioè di contatti con potenziali clienti, con soggetti, appartenenti al vasto pubblico cui si rivolge la tua organizzazione, che in parte, in seguito, possono diventare clienti paganti, a seguito di conversione.
Ora, quali attività di marketing stai facendo?
Hai lasciato anche tu i tuoi biglietti da visita dal tuo barbiere o dalla tua parrucchiera?
Ti dò una piccola notizia: non serve a un cazzo. Anzi, serve al contrario a qualificarti come un professionista per ladri di galline.
Hai sentito parlare di internet, blog, social network?
Ah sì, ti sei iscritto anche tu a quel sito che gli avvocati si possono iscrivere e poi scrivono le materie di cui si occupano così poi i visitatori si possono collegare e vedere quali sono i professionisti della loro zona e poi scegliere e tramite un comodo modello di contatto on line subito scrivere all’avvocato che hanno scelto e comodamente da casa, sia i clienti che il professionista, possono chiedere e ricevere una bella consulenza, che poi è un sistema bellissimo e meraviglioso ma alla fine nessuno fa mai un cazzo o ha mai venduto una consulenza che sia uno tramite siti del genere?
Forse è il caso di riconsiderare la materia…
Il codice deontologico.
Torniamo adesso un attimo sul tema prima accennato delle regole di deontologia.
La deontologia forense, ovviamente, non è un male in sé.
È assolutamente evidente che un avvocato debba essere in primo luogo onesto, se vuole essere davvero utile agli altri.
È davvero la primissima qualità di ogni avvocato.
Solamente, si tratta di una «qualità dell’essere» che, come spesso accade, non può essere rinforzata a forza di codici e sentenze… Un po’ come fare il padre, come sanno benissimo gli avvocati, come me, che si occupano di diritto di famiglia.
Il codice deontologico attuale è il martello con cui sono stati picchiati i chiodi che hanno chiuso la bara in cui è stata rinchiusa la professione forense, rendendo molto difficile, e in alcuni casi impossibile, per qualsiasi organizzazione legale svolgere attività di generazione contatti.
La cosa meravigliosa è che lo scopo di queste disposizioni, volte a escludere pressoché completamente forme di marketing per gli avvocati, sarebbe quello di… garantire la dignità degli avvocati stessi.
Ma qui c’è un grande e tragico errore di fondo.
Il fatto, peraltro assai evidente, è che la dignità di una qualsiasi categoria la si può garantire solo dando efficacia al lavoro e al ruolo che svolge e quindi consentendole di raggiungere un certo livello di benessere anche economico.
Che dignità può avere un avvocato che a 35 anni si fa pagare la bolletta del telefono di studio e magari anche di casa dai genitori, anche al netto del rispetto delle regole deontologiche?
Vuoi scommettere che se togli quasi completamente la possibilità di lead generation ad una categoria la sua economia peggiorerà grandemente e, con essa, anche la sua dignità, il suo significato, la coscienza del suo ruolo, l’effettivo svolgimento della sua funzione sociale?
La dignità attuale della professione.
È un fenomeno che è ormai sotto gli occhi di quasi tutti.
Ma prendiamo uno scampolo di letteratura che, come sempre accade, ce lo descrive meglio di altro.
«Il fatto è che qui da noi gli avvocati sono diventati come gli assicuratori, o gli agenti immobiliari. Ce ne sono a bizzeffe, uno più affamato dell’altro. Basta fare due passi in una strada anche periferica e contare le targhette affisse ai portoni.
Un avvocato, oggi, per una nomina anche d’ufficio è disposto a piroette e carpiati della dignità fantasiosissimi. E la molla non è l’ambizione economica o il desiderio di prestigio sociale: nemmeno più questo. Qui si tratta, ma davvero, di stare sul mercato con un minimo di sensatezza (cioè, pagare le spese e portare qualche soldo a casa) o chiudere baracca.
E la vera tragedia è che questa politica della sopravvivenza accomuna ormai trasversalmente sfigati e garantiti, privilegiati e poveri cristi. Nel senso che il rampollo dell’avvocato di successo ha una fame di procacciamento pratiche mediamente pari o addirittura superiore a quella di chi è professionalmente figlio di n. n. È la nuova cultura della concorrenza, palazzinara e bulimica, che ha equiparato avidità e bisogno, ponendo sul piano di una falsa parità contendenti che partono da posizioni completamente diverse. Ricchi e poveri che lottano per le stesse cose: ecco a voi la morte del principio di uguaglianza.
Io ho visto cose che voi non avvocati non potete neanche immaginare. Ho visto professionisti anziani leccare sfacciatamente il culo a magistrati ventinovenni. Ho visto avvocati giovanissimi portare personalmente il caffè a tutti i carrozzieri del quartiere nella speranza di una pratica d’infortunistica stradale. Ho visto appostamenti all’ingresso degli obitori, con volantinaggio di biglietto da visita all’arrivo della barella.
Ho visto contabili di camorra e specialisti della punizione corporale per ritardato pagamento del pizzo, trattati con un ossequio e un’attenzione degni di un’alta carica dello Stato. Ho visto colleghi fare anticamera a cancellieri miserabili in cambio di una nomina d’ufficio, con pagamento anticipato di percentuale fissa sull’onorario.
Ho visto guardie carcerarie spendere il nome di questo o quel collega con i parenti dei detenuti in cambio di un abbonamento alle partite di calcio.
Ho visto colleghi poco più che trentenni accordarsi con cancellieri notoriamente farabutti per truccare un’asta fallimentare, pilotando l’assegnazione dei beni all’incanto. Ho visto le loro foto sul giornale qualche tempo dopo. Ho visto sinistri stradali così sputtanatamente falsi da farti venire voglia di prendere le parti dell’assicurazione (che è un po’ come se uno, una bella mattina, si convertisse all’antisemitismo militante).
Ho visto patrocinanti in Cassazione brigare per diventare amministratori di condominio. Ho visto professori universitari telefonare a indagati eccellenti offrendo il proprio patrocinio pur sapendo che era già stato nominato qualcun altro, millantando conoscenze personali con il pubblico ministero titolare dell’inchiesta e svalutando fra le righe le capacità professionali del collega.
Ho visto l’avvocato a cui il professore universitario stava cercando di fare le scarpe riferire lo scandaloso retroscena a un gruppo di giovani colleghi e neanche venti minuti dopo incontrare il professore all’ingresso del tribunale e abbracciarlo come un fratello ritrovato in un programma di Maria De Filippi.
Ho visto lo stesso avvocato convincere l’indagato eccellente che sì, effettivamente sarebbe stata una mossa saggia estendere il patrocinio anche al professore, perché un simile collegio difensivo gli avrebbe assicurato la vittoria della causa con fiato di trombe. Ho visto, all’udienza, l’indagato eccellente seduto fra l’avvocato e il professore: sembrava più preoccupato di loro che dei giudici. Ho sentito il professore, in piena arringa, prendere una cappella giuridica di una tale grossolanità che se fosse capitato a uno studente all’esame sarebbe stato messo alla porta. Ho visto l’avvocato abbozzare e vergognarsi come un complice, dribblando lo sguardo allibito dei giudici.
Ho visto il figlio dell’avvocato diventare assistente di cattedra del professore universitario che aveva cercato di fregare l’incarico a suo padre.
Ho visto tante altre cose, ma se non mi fermo va a finire che facciamo notte».
(Diego De Silva, «Non avevo capito niente»).
Questi sono i successi di decenni di deontologia forense, di regole che hanno avuto come unico effetto quello di tarpare le ali alla pressoché totalità degli avvocati, specialmente i più giovani.
Ho visto applicare la deontologia.
Avvocati di 60, 70 anni, dentro agli ordini, ai consigli distrettuali, al CNF, gente che ha avuto grandi soddisfazioni professionali, avendo iniziato la professione negli anni 60 o 70, quando c’erano ancora vaste miniere non sfruttate, che applicano sanzioni ad avvocati di 30 o 40 anni, che cercano di lavorare sulle poche briciole rimaste, perché hanno messo un annuncio o un’insegna un po’ più grande di quanto ritenuto dovuto fuori dalla porta…
Facciamo come il protagonista del libro di De Silva: lasciamo perdere.
Che cosa fare?
Innanzitutto, quello che non devi fare è sprofondare nell’atteggiamento di dare la colpa di «tutto» a cose che, pur avendo una loro efficacia causale, non la esauriscono affatto.
Il tuo atteggiamento, come ti ho già fatto capire, non deve e non può essere quello di maledire il codice deontologico, le sue ingiustizie, i clienti, le tasse, le scie kimike e il mondialismo.
Focalizzati sul fatto che, come in tutti i settori economici, ci sono avvocati che ce l’hanno fatta e stanno alla grande.
La grande notizia è: ci sono diverse cose che puoi fare, una volta che avrai smesso di lamentarti a cazzo.
Alla fine, infatti, o cambi settore, cambi lavoro, anche in base alle tue vere propensioni (come ti ho già detto, il lavoro lo devi scegliere tu e non i tuoi genitori!), oppure, se scegli di restare, in qualche modo, nel settore dei servizi legali, di continuare a fare l’avvocato, devi rassegnarti a fare tutta l’attività di lead generation che puoi, ripensare completamente la tua azienda, ragionare come un vero imprenditore.
Di cosa fare nello specifico, parleremo meglio in un altro post, ché questo ormai è anche già troppo lungo.
Ti elargisco però una piccola anticipazione: devi scrivere.
Libri, blog, social.
Scrivi su quello che conosci, mostra e dimostra il tuo know how e la passione che ti muove per le cose che ti interessano.
Oltre a un punto di vista diverso e differenziante dal solito.
Un po’ come questo blog, che è stato fondato più di vent’anni fa per dimostrare che esiste un modo diverso di trattare i problemi legali.
Questo è quello che facciamo qui alla redazione del blog degli avvocati dal volto umano e ti garantisco che funziona.
Cosa puoi fare, nell’attesa del prossimo post in cui dettaglierò i vari modi in cui un avvocato può fare marketing?
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È una delle convinzioni più diffuse. Sono 22 anni che me la sento ripetere e chissà quante altre volte ancora mi capiterà, probabilmente per sempre.
Vera o falsa?
Parliamone. Può essere utile per capire meglio la realtà che ci circonda, una circostanza, a sua volta, sempre utile per vivere meglio.
Per aversi una casta, è indispensabile che ci sia almeno un privilegio, cioè una posizione di favore di cui una certa categoria, per il solo fatto di essere tale, gode.
Si può leggere infatti nella definizione del termine della Treccani quanto segue:
casta s. f. [dallo spagn. e port. casta, propr. «(razza) casta, pura», che è dall’agg. lat. castus «casto»]. – 1. Gruppo sociale chiuso e per lo più endogamo, i cui membri sono uniti da comunanza di razza, di nascita, di religione o di mestiere; in partic., ciascuno degli strati in cui, fin dall’antichità, era divisa la società indiana. 2. Per estens., spec. con senso spreg., classe sociale, ordine di persone che si considera, per nascita o per condizione, separato dagli altri, e gode o si attribuisce speciali diritti o privilegi: la c. degli aristocratici, la c. sacerdotale, la c. militare; ritenersi appartenente a una c. privilegiata.
A questo punto, per rispondere alla nostra domanda, bisogna vedere quali sono i privilegi di cui una persona godrebbe per il solo fatto di appartenere alla categoria degli avvocati, categoria per entrare nella quale non bisogna avere diritti di nascita, ma si deve seguire un percorso di studio ed un esame di abilitazioni ai quali sono ammessi tutti, che sono aperti a tutti (non c’è nemmeno il numero chiuso).
Orbene, io non saprei dire quale potrebbe essere questo privilegio.
Va bene, magari io sono in conflitto di interessi e forse non vedo i vantaggi di cui godo. Proprio per questo, ho sempre chiesto a coloro che sostenevano, in privato o sui social, che gli avvocati fossero una casta, quale o quali sarebbero i privilegi di cui godremmo.
Nessuno è mai stato in grado di indicarmene nemmeno uno. Una volta, una simpatica amica dei social, che poi è diventata anche cliente dello studio, mi ha detto che in effetti, sì, non ce n’era nessuno, ma noi eravamo una casta lo stesso.
La realtà è che non c’è nessun privilegio.
Noi avvocati paghiamo le tasse come e nella stessa misura di qualsiasi altro imprenditore o libero professionista. Può darsi che ci sia qualcuno che fa del nero, sicuramente, ma ciò avviene in tutti i settori economici, a partire dalla Apple corporation, che tutti amate, fino all’ultimo ciabattino di provincia. Non c’è affatto una disposizione di legge che dice che l’avvocato, ad esempio, paga il 5% in meno di tasse, o che può tenersi in tasca la sua IVA. Anzi, noi paghiamo anche la nostra cassa, per un ulteriore 10% di «tassazione» sul nostro reddito, esattamente come qualsiasi altro lavoratore.
È vero che, se ci capita un problema legale, possiamo assisterci da soli, almeno nel civile. Ma questo non è affatto un privilegio, è la stessa condizione in cui si trova un meccanico quando gli si guasta l’auto, un idraulico quando deve fare la pulizia della caldaia. È un vantaggio che deriva dal fare un mestiere piuttosto che un altro. Chiunque oggigiorno può diventare avvocato se ci tiene tanto ad assistere se stesso in alcune cause… Quando poi dovrà fare la pulizia annuale della caldaia però dovrà rivolgersi ad un tecnico autorizzato, esattamente come faccio io tutti gli anni.
Non è nemmeno vero che l’assistenza legale obbligatoria sia un regalo fatto alla nostra categoria e, di conseguenza, un privilegio. Le persone sfornite di un minimo di preparazione giuridica ed esperienza sul campo giudiziario non hanno la minima idea, la benché minima e più lontana idea di come si gestisce un processo anche molto semplice, sia in diritto sia, ciò che è più grave, a livello strategico. Farebbero molti meno danni a mettersi a riparare in proprio un’automobile o una caldaia, e dico questo con la consapevolezza dei danni che si potrebbero produrre con interventi sbagliati in questi ultimi due ambiti. La realtà è che il sistema giudiziario richiede, per accostarvisi, l’assistenza di un tecnico, che è indispensabile di fatto prima che di diritto. La legge la richiede non a protezione degli avvocati, ma degli utenti del sistema giustizia e del sistema giustizia stesso. Uno può dire quello che vuole ma è così. Ne parlo più diffusamente in questo precedente post, alla cui lettura rimando.
Un’altra stronzata gigantesca, connessa a quella di cui stiamo parlando, è quella per cui «il Parlamento è pieno di avvocati, per forza che si fanno le leggi a loro favore!!1!», che contiene in realtà due inesattezze.
Innanzitutto, come abbiamo visto, non esiste una legge a favore degli avvocati: invito espressamente tutti i lettori del post a lasciare, nei commenti, l’indicazione degli estremi di una legge che costituisca un privilegio a favore di chi appartiene alla categoria degli avvocati per il solo fatto di appartenervi. Anche perché finalmente potrei magari approfittarne…
Ma soprattutto in Parlamento non c’è neanche un avvocato vero! Quelli sono politici, quella è gente che non ha mai messo piede in un tribunale un giorno in vita sua.
Gli avvocati veri sono gente che si alza tutte le mattine per andare al lavoro, vede clienti, cerca di risolvere problemi, qualche volta ci riesce, non fa vita di partito, non abbassa la testa tanto da farsi eleggere in un Parlamento di nominati come quello che abbiamo oggigiorno in Italia. Io vi dico che in Parlamento non c’è un avvocato che sia uno, contrariamente a quanto pensa la testa fresca di tanta gente. Scusate bene, ma l’avvocato Agnelli secondo voi nel corso della sua vita ha lavorato per la categoria degli avvocati, di cui faceva parte solo nominalmente, o per la FIAT? Gli avvocati veri sono altri, sono Fulvio Croce ad esempio, una figura che infatti non conosce nessuno – andatevi a leggere la sua storia su wikipedia. C’è un po’ di differenza.
Ecco il mio punto di vista sul tema.
Ora lascio alla generalità del pubblico di raccogliere la mia sfida e di dimostrare che ho torto, indicandomi le leggi o i vantaggi di cui godiamo noi avvocati…
Grazie. E non dimenticatevi di iscrivervi al blog.
sono divorziata e ho tre figli tra cui una di 21 anni non lavora e non va a scuola per motivi gravi di salute il padre ha dato sempre un sussidio che ora ha variato senza andare da un Giudice di pace e i soldi che portava direttamente a casa mia visto che mia figlia ha la residenza dove abito io con il mio attuale marito sposati in comune e ha preso nel suo stato di famiglia me e mia figlia abbiamo il diritto di scaricare gli scontrini fiscali di farmaci, visite ecc visto che il mio ex marito a parte il sussidio mia figlia è stata cresciuta da me il mio attuale marito e lui convive beato con la sua convivente
Purtroppo, questo è un problema non tanto di competenza di un avvocato: è materia fiscale / previdenziale su cui bisognerebbe interpellare un fiscalista, cioè un commercialista, un ragioniere o un sindacato.
Quello che ti posso dire è che può essere che il fiscalista abbia bisogno di vedere qual è il titolo che regola il divorzio, cioè la sentenza o accordo in house (convenzione di negoziazione assistita) che ha determinato lo scioglimento del matrimonio e il conseguente regime in ordine ai figli, anche se tale regime al momento è decaduto, avendo tua figlia ormai superato la maggiore età.
Un’altra cosa che volendo si può dire è che il mantenimento pagato per un figlio non può essere variato a piacimento, trattandosi peraltro di materia indisponibile, ma deve essere sempre corrisposto nella misura determinata dal titolo che lo regola. Attenzione però che, se è vero che il diritto è imprescrittibile, è vero che i singoli ratei cadono in prescrizione dopo 5 anni.
Ovviamente, non è competente il giudice di pace per questo genere di vertenze, che appunto riguardano materia di famiglia che è indisponibile, ma il tribunale.
Ebbene sì, in nessuna famiglia che si rispetti (ovvero I.M.H.O. tutte!), ristrette, allargate, etero, omo, fondate sul matrimonio, o semplicemente sulla triade coabitazione-amore-rispetto, può mancare LEI.
La cartella esattoriale di Equitalia.
Di certo, dunque, qui si affronta un argomento che è possibile definire, ad oggi, comune a tutti.
Questa universalità della cartella esattoriale, però, non comporta che ognuno degli atti notificati al cittadino/contribuente sia giusto, o, forse, è proprio questa pessima abitudine del concessionario per la riscossione di notificare atti a tappeto che, in molte occasioni, porta ad errori e mancanze, dovuti a incompetenza, a carenza di controlli ed a disattenzioni.
Anche i software sbagliano, e dietro al pc c’è comunque sempre un essere umano.
Potrebbe allora capitare che la cartella esattoriale che ti è stata notificata abbia dei profili di illegittimità: perchè ad esempio la pretesa posta alla base della richiesta ha subito il decorso del tempo e si è prescritta, oppure perchè essa stessa era ab origine viziata da nullità per motivi legati al merito, e così via.
Quindi, facciamo chiarezza e cerchiamo di capire -se anche il caso che Ti riugarda vede come protagonista una cartella illegittima- come procedere step by step.
Prima di ogni altra cosa, è necessario individuare qual è il cosiddetto ente impositore ovvero quella amministrazione pubblica che pretende il pagamento, in base ad una certa causale: si tratterà, ad esempio, dell’I.N.P.S. per quello che concerne i contributi previdenziali, dei vari Comuni (tecnicamente i Comandi della Polizia Municipale/Locale afferenti i medesimi) in caso di violazioni al Codice della Strada in territorio urbano ed in caso di mancato pagamento di imposte comunali come quella sugli immobili e per i rifiuti ed altri servizi comunali, delle Regioni per il cd.Bollo Auto, dell’Agenzia delle Entrate con riferimento a imposte e tasse di altra natura non pagate e così via.
Alla base dell’istanza -lo si diceva all’inizio- deve esserci un FONDATO motivo di illegittimità.
Individuato ENTE IMPOSITORE e NATURA del TRIBUTO, non vi resterà che porre FORMALE RICHIESTA, attraverso l’invio con uno strumento tracciabile -raccomandata o posta elettronica certificata- affinchè il procedimento del recupero instaurato dal concessionario per la riscossione venga fermato, per i motivi di illegittimità addotti.
Questo significa che si dà la possibilità all’amministrazione che richiede il pagamento di VALUTARE la/e motivazione/i di ingiustizia connesse alla richiesta di pagamento che è stata effettuata con la cartella.
Qualora questo spatium deliberandi non venga fruttuosamente utilizzato dall’Amministrazione, id est se quest’ultima non riscontra in alcun modo quanto portato in istanza, si ha diritto all’ANNULLAMENTO DEL DEBITO TRIBUTARIO, ciò per silezio/assenzo a seguito della mancata risposta dell’amministrazione all’istanza del contribuente.
Quanto affermato si basa su una normativa applicata già in svariate occasioni, anche per cartelle che richiedevano importi molte migliaia di euro, nelle aule di giustizia.
In particolare, l’art.1 della L. 228/12 al comma 537 statuisce che i “concessionari per la riscossione SONO TENUTI A SOSPENDERE IMMEDIATAMENTE ogni ulteriore iniziativa finalizzata alla riscossione delle somme iscritte a ruolo o affidate, su presentazione di una dichiarazione da parte del debitore”.
Questo comporta che, una volta depositata una fondata richiesta di sospensione da parte del contribuente al concessionario, quest’ultimo DEVE avvisare l’ente competente, il quale a sua volta è RIVESTITO DELL’OBBLIGO di rispondere al contribuente (lo stabilisce il comma 539).
Al comma 540, ed è ciò che più qui importa, è previsto che “trascorso inutilmente il termine di duecentoventi giorni dalla data di presentazione della dichiarazione del debitore allo stesso concessionario della riscossione, le partite (…) SONO ANNULLATE DI DIRITTO”. In tal senso, già sent. C.T.P. Milano n.° 667/40/15 del 23/06/2015, sent. C.T.P. Lecce n.1955/05/15 del 4/06/2015.
Ho un debito di circa 6000 euro accumulato per bolli auto non pagati di tre autovetture intestate a me ma di fatto appartenenti a quello che adesso è il mio ex marito. Io sono disoccupata, ho 4 bambini minori per i quali mi passa in tutto 700 euro al mese, convivo con un compagno e riesco in qualche modo a sopravvivere. Ho rateizzato questo debito ma non riesco a pagarlo perché io ovviamente sono in difficoltà e il mio ex marito, che riconosce moralmente il debito come suo, non riesce comunque a darmi i soldi per le rate. Le chiedo se esiste una via d’uscita del tipo che lui possa accollarsi in qualche modo queste cartelle anche di fronte a equitalia diventando responsabile del debito al posto mio.
Potresti accollare il debito al tuo ex marito, ma rimarresti obbligata anche tu.
L’art. 8, comma 2, dello Statuto del Contribuente contiene una disposizione con la quale viene dichiarato ammissibile l’accollo del debito d’imposta altrui, con la precisazione che questo non potrà mai determinare la liberazione del contribuente originario.
In altri termini, dopo la stipulazione del contratto di accollo, tu continuerai a rispondere unitamente al tuo ex marito, configurandosi una responsabilità cumulativa, ed Equitalia potrà rivalersi indifferentemente sul patrimonio di uno di voi.
L’accollo, tuttavia, ti garantirebbe la sicura possibilità di rivalerti, dopo l’adempimento dell’obbligazione tributaria, sul tuo ex marito.
Posto che non sembrano esserci ostacoli circa l’applicazione della norma alle tasse, potresti redigere una dichiarazione sottoscritta da entrambi, con la quale si attesti l’avvenuto accollo della tassa automobilistica.
La casa dove attualmente risiede mia madre e dove siamo stati dal 1963 con la mia famiglia era di una zia di mio padre la quale la lasciò in eredità a mio padre. Mio padre però era premorto a questa zia (nel 1972). Per la definizione della rata IMU mi è stato detto che il pagamento era dovuto da me e le mie due sorelle in quanto mia madre non avrebbe nessun diritto sulla casa. Questo ha comportato pertanto che abbiamo pagato 1/3 ciascuno calcolando la tassa come seconda casa perchè nessuno dei fratelli ha la residenza lì, pur non avendo nessuno di noi altre case o percentuali di proprietà. E’ esatto quanto è stato fatto?
La materia fiscale è una di quelle dove noi avvocati siamo poco preparati e io non faccio eccezione. Inoltre il caso non è descritto con sufficiente precisione, ad esempio quando dici “lasciato in eredità” non si capisce se tramite testamento ovvero per successione legittima. Provo a fare qualche considerazione di tipo generale che magari ti può essere utile.
Le imposte sui redditi e l’IMU, così come a suo tempo l’ICI, gravano di solito sul titolare di un diritto di natura reale sull’immobile, dove per diritto reale si intende proprietà, usufrutto, uso, abitazione, ecc.. Questo significa che se, ad esempio, sull’immobile c’è solo un diritto di proprietà, l’imposta la paga il proprietario. Se, invece, sulla stessa c’è, sempre ad esempio, sia un diritto di (nuda) proprietà che un usufrutto, l’imposta la paga il titolare del diritto di usufrutto. Diciamo che l’imposta colpisce il titolare del diritto reale che conferisce al suo titolare il diritto di usarla in concreto.
Ora, se questa casa è stata come dici la casa familiare tua madre la dovrebbe abitare in forza del diritto di abitazione riconosciuto al coniuge superstite dalla legislazione vigente. Dovresti verificare questo aspetto e poi vedere, in caso affermativo, che cosa succede ai fini IMU in caso appunto sussista questo diritto (come di anticipavo, sul punto non sono preparato, anche perchè questo aspetto può essere benissimo regolato diversamente da quanto avveniva con l’ICI). Direi che questo sia un chiarimento che tu possa chiedere anche all’ufficio tributi del tuo comune, in mancanza non rimane che rivolgersi ad un commercialista. Verificare il titolo in base al quale tua madre abita la casa, tuttavia, potrebbe non essere così semplice e va fatto con attenzione.
Una società morosa ha usufruito di un negozio per 18 mesi.Devo comunque pagare le tasse per i canoni non percepiti fino a sentenza avvenuta dopo 10 mesi? Mi è stato riconsegnato il negozio dopo altri 8 mesi. La società era una s.r.l. ed il pignoramento è stato praticamente nullo. I canoni di affitto erano la mia unica entrata ed ho dei gravi problemi economici. Non ho la possibilità di pagare anche le tasse sui canoni non percepiti!
Purtroppo sul punto un avvocato non è il professionista più indicato da consultare, mentre dovresti invece interpellare un commercialista. Come dico sempre, in materia fiscale, salvo rare eccezioni, noi avvocati non siamo molto ferrati. Anche perchè il fisco è una materia in continua evoluzione, per cui è necessario seguirla con aggiornamento costante, altrimenti si rischia di non poter fornire le risposte giuste.
Dal punto di vista civilistico, direi che all’Agenzia delle Entrate potrebbe sembrare strano che tu ti sia attivato solo dopo un anno e mezzo di persistenza della morosità: nella pratica, il padrone di casa si attiva dopo 4, massimo 6 mesi, dal momento che una situazione di insolvenza che dura di più indica che i pagamenti non verranno probabilmente mai più ripresi. Per questi stessi motivi, la nostra legislazione fiscale spesso contiene delle presunzioni di «ricavo» sulla base della situazione contrattuale.
I miei genitori si sono separati nel 1998 e hanno divorziato nel 2003. La casa coniugale, metà di mio padre e metà di mia madre, è stata assegnata a mio padre (non è stata pero’ fatta la trascrizione dell’assegnazione al catasto) . Nel 2004 i miei genitori hanno fatto, a me e a mio fratello (all’epoca eravamo entrambi minorenni) la donazione del loro rispettivo 50%. Mio padre però sul suo 50% ha tenuto l’usufrutto e vi risiede, mentre noi abbiamo residenza da un’altra parte. Dall’ufficio del catasto risulta alla voce “diritti e oneri reali” che sia io che mio fratello abbiamo la nuda proprietà, ognuno per 1/2 e proprietà per 1/4. Ho letto che l’Imu in caso di divorzio viene pagato dall’assegnatario della casa, ma cio è valido anche nel nostro caso dove sono state fatte successivamente le donazioni?
Premetto che quella fiscale non è la mia materia, per cui l’avvertimento, che facciamo sempre, di verificare ogni cosa con un professionista del settore, e cioè in questo caso un fiscalista, in questa ipotesi vale anche a maggior ragione.
Dunque, innanzitutto il divorzio non c’entra più niente, essendo un fatto oramai esaurito ai fini del discorso impositivo odierno. Quella che rileva è la situazione proprietaria attuale. Di solito, le imposte sulla casa (IRPEF, vecchia ICI, ecc.) sono collegate dalla legge a chi è titolare di un diritto di proprietà o di un altro diritto reale sulla casa stessa, nel senso che se c’è una piena proprietà, senza diritti reali a favore di terzi, chi paga è il proprietario, mentre se ci sono diritti reali, come ad esempio l’usufrutto, chi paga è il titolare di questi diritti.
Quindi nel vostro caso probabilmente le cose stanno così: tu e tuo fratello dovete pagare l’IMU ciascuno per il 25% del totale, mentre vostro padre per il restante 50%. Tenete presente che lo Stato, in caso ci siano più coobbligati, non rispetta le ripartizioni tra di loro ma può chiedere l’intera imposta indifferentemente a ognuno di loro. Così ognuno di voi, in caso di mancato pagamento, potrebbe essere chiamato a pagare tutta l’IMU e sarebbe poi affar suo andare a recuperare le parti di competenza dagli altri «co-obbligati».
Al di là dell’aspetto giuridico, a mio giudizio va considerata anche la situazione attuale della casa e cioè da chi è abitata o comunque goduta. Se ci abita ancora vostro padre, ad esempio, è giusto che l’IMU la paghi lui, in tutto o in parte; se invece ci abiti tu o tuo fratello, nonostante l’usufrutto di tuo padre, che gli darebbe diritto di abitarci, forse non è giusto fargli pagare l’IMU perchè lui potrebbe chiedervi di pagare mensilmente la metà di quello che sarebbe un canone mensile di locazione.