La “voglia” di acquistare all’ estero è sempre più forte per i consumatori di prodotti informatici, grazie soprattutto alla diffusione delle reti telematiche, che consentono anche a piccole aziende di essere presenti in qualsiasi parte del globo, e a comodi sistemi di pagamento internazionalmente accettati. I prezzi, poi, sono spesso più bassi rispetto a quelli praticati in Italia.
Ma è effettivamente conveniente acquistare all’ estero? Non c’e’, in altri termini, il rischio di perdere, come contropartita, la possibilità di far valere la garanzia del prodotto in caso di suo malfunzionamento e di ottenerne la riparazione gratuita, come si può invece solitamente fare per i prodotti che si acquistano in “patria”? Gli strumenti informatici sono infatti come tutti sanno prodotti particolarmente delicati e le fasi dell’ assistenza e della garanzia post-vendita sono tutt’ altro che trascurabili.
In effetti, i problemi per chi acquista all’ estero possono essere diversi.
Il fatto è, innanzitutto, che non sempre quando si stipula un contratto con un’ azienda straniera la legge applicabile è quella italiana: si tratta di un fenomeno che può verificarsi anche, per la verità, quando si acquista in Italia (il contratto di utilizzo di windows95, ad esempio, è regolato dalla legge dello Stato di Washington), ma che ovviamente è più facile incontrare se si acquista all’ estero. Se si acquista, ad esempio, una scheda madre in Francia, per le modalità con cui è stato concluso il contratto, potrebbe risultare applicabile allo stesso la sola legge francese con il risultato che il consumatore italiano si troverebbe “spiazzato” nel dover invocare l’ applicazione di una legge che non conosce e nel non poter invece far conto sulle regole di tutela del “suo” codice civile italiano..
In materia, la legge di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato (il cui testo è consultabile presso http://infosistemi.com/jura/codex) richiama le disposizioni della Convenzione di Vienna sulle obbligazioni contrattuali. Questa contiene alcune disposizioni particolari per i contratti conclusi dai consumatori, quindi anche per gli acquisti di hardware e software. Tale tutela si applica, come al solito, solo agli acquisti conclusi dai consumatori, cioè da privati cittadini o da imprenditori e professionisti ma non nell’ esercizio della loro attività. In questi casi si possono avere due ipotesi: o le parti scelgono direttamente la legge da applicare al contratto, nel senso che indicano in modo esplicito che il contratto, ad esempio, deve essere regolato dalla legge francese, oppure non effettuano alcuna scelta. Nel primo caso, la Convenzione stabilisce che, pur applicandosi (seguendo l’ esempio), la legge francese, il consumatore può sempre invocare l’ applicazione delle norme fondamentali poste a sua tutela. Nel secondo caso, invece, il consumatore è più tutelato perchè è stabilita l’ applicazione della legge dello Stato nel cui territorio il consumatore risiede.
Bisogna quindi innanzitutto fare attenzione alle clausole dei moduli d’ ordine che indicano la legge applicabile al contratto e, se possibile, inserire direttamente la legge italiana in luogo della diversa legge prevista. In mancanza della possibilità di inserire una legge, si può sempre fare affidamento sull’ applicazione di quella italiana: infatti, il consumatore è tutelato perchè anche in caso di scelta di una legge straniera il giudice deve applicare le norme italiane fondamentali in materia di tutela del consumatore che, come abbiamo detto, sono per l’ Italia state introdotte con la legge comunitaria 1994.
I giudici di tutti gli Stati che hanno firmato la Convenzione di Vienna sono obbligati a seguire le sue prescrizioni: ciò comporta che se un italiano acquista a Parigi un computer e successivamente cita davanti al Tribunale della stessa città la ditta venditrice per malfunzionamento dello stesso, il giudice francese deve applicare la legge italiana (così come avverrebbe per un consumatore francese che acquistasse un prodotto informatico a Roma: il giudice italiano dovrebbe applicare il diritto francese). Lo scopo, infatti, della Convenzione è proprio quello di tutelare il consumatore facendo sì che egli, anche negli acquisti internazionali, possa sempre fare affidamento sulle regole giuridiche a lui familiari.
Con questo però si viene alle c.d. “note dolenti”: nonostante i notevoli progressi e le garanzie previste, rimane sempre un problema instaurare una causa all’ estero o in Italia contro uno straniero. Infatti, il problema è sempre quello dei costi della giustizia e, quand’ anche si riesce ad ottenere una decisione favorevole, quello dei modi in cui far sì che essa sia rispettata, non potendo certo gli ufficiali giudiziari italiani (cioè gli organi competenti a ottenere l’ esecuzione delle sentenze quando i destinatari non vi si conformano spontaneamente) esercitare i loro poteri al di fuori dello Stato che glieli ha conferiti. Per tali motivi, spesso si preferisce, nonostante prezzi e imposte maggiori, acquistare in Italia mentre la scelta dell’ estero viene per lo più utilizzata da chi se la sente di fare affidamento sulla fortuna, ritenendo che un po’ di rischio in più valga la contropartita di un minor prezzo.
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L’ acquisto per corrispondenza di computer, ma sopratutto di parti hardware e di software, è un fenomeno sempre più diffuso e destinato ad espandersi con le nuove forme di commercio elettronico. Ma quali sono le regole fondamentali applicabili in materia, sopratutto a tutela del consumatore?
Prima di tutto, vengono in considerazione le nuove disposizioni introdotte nel codice civile con la legge comunitaria 1994, che prevedono la inefficacia di qualsiasi clausola “vessatoria” introdotta dalle imprese venditrici nei contratti conclusi con i clienti. Si tratta di una tutela molto penetrante e destinata a riequilibrare tutto il settore a favore dei consumatori.
Con questa legislazione il consumatore, quindi, può sempre fare affidamento sull’ applicazione delle regole fondamentali del codice civile.
Ma è ovvio che il “cliente per corrispondenza”, che non ha la possibilità di visionare direttamente il bene da acquistare, necessita di una tutela maggiore di quella del cliente delle normali compravendite che, se non altro per il contatto diretto, è molto più difficile da “buggerare”.
Per questo motivo, alle compravendite stipulate a distanza, si applica una particolare disciplina posta dal D. Lgs. 15 gennaio 1992, n. 50 (reperibile in Codex, libro del 1992, http://infosistemi.com/jura/codex). Tale decreto prevede la possibilità del compratore di recedere liberamente dal contratto entro 7 giorni dal ricevimento della merce con il diritto, quindi, alla integrale restituzione del prezzo verso spedizione della merce. I venditori sono obbligati a informare gli acquirenti del loro diritto di recesso e, in mancanza, il termine per esercitarlo si allunga a 60 giorni dal ricevimento della merce. In questo modo viene garantita anche a chi acquista da cataloghi, o comunque senza prima aver toccato con mano il prodotto, la possibilità di visionarlo direttamente prima di rendere definitiva la vendita nonchè di rispedirlo al mittente in caso di mancato gradimento.
Va detto poi che acquistare per corrispondenza è bello soprattutto perchè il consumatore, non più vincolato al negozio sotto casa, può confrontare le diverse proposte, leggere più cataloghi, guardarsi insomma un po’ in giro prima di ordinare e tutto ciò quasi senza muoversi da casa e che non è raro, a questo punto, che si decida ad acquistare all’ estero.
In questo caso, quali sono le tutele previste dalla legge? Il consumatore italiano può invocare l’ applicazione delle regole previste dal codice civile?
In materia vale la Convenzione di Roma del 1981 sulle obbligazioni contrattuali, secondo cui il contratto, se non è stata scelta una legge diversa, è regolato dalla legge dello Stato in cui risiede abitualmente il compratore; è inoltre disposto che, anche nel caso in cui le parti abbiano scelto come legge regolatrice del contratto quella di un altro Stato, il consumatore può sempre invocare l’ applicazione delle regole inderogabili dello Stato in cui ha la propria residenza.
Ciò significa quindi, in conclusione, che il consumatore italiano, sia che acquisti all’ estero sia che lo faccia in Italia potrà sempre contare sull’ applicazione delle garanzie fondamentali previste dal diritto italiano.
E’ ora tuttavia giunto il momento di ricordare e precisare che tutte le tutele ora esaminate valgono solo ed esclusivamente per il consumatore in quanto tale e cioè colui che non è imprenditore o, se tale è, effettua l’ acquisto al di fuori della sua attività professionale: qualora invece l’ acquisto sia effettuato da un’ azienda o da un libero professionista, non si applica nessuna delle garanzie sopra vista ma solo le regole di fondo del codice civile e sempre che una clausola abusiva o vessatoria non ne abbia ridotto o eliminato la portata.
Il legislatore italiano, e quello comunitario, sono infatti partiti dal presupposto, purtroppo non sempre vero, per cui mentre il consumatore e’ un soggetto debole e va difeso, l’ imprenditore è invece “forte” e comunque in grado di difendersi da sè; in questo modo, purtroppo, sono state di fatto messe sullo stesso piano, dal punto di vista dell’ assenza di tutela, imprese assai diverse tra loro come ad esempio una grande compagnia di assicurazioni e un … ciabattino.
Il leasing, detto anche nel nostro Paese “locazione finanziaria”, è un contratto atipico, cioè non regolato dalla legge, con il quale come noto un imprenditore, che abbisogna di strumenti per il suo lavoro, indica ad una società i beni di cui necessita e quindi tale società, dopo averli acquistati, glieli concede in utilizzo dietro il pagamento di un canone periodico, con facoltà di acquistarne la proprietà alla scadenza del contratto.
Si tratta di una figura contrattuale che ha goduto di un notevole successo, dovuto soprattutto alle agevolazioni fiscali concesse dalle uniche leggi che si sono occupate della materia: l. 10 ottobre 1975, n. 517, l. 2 maggio 1976, n. 183, l. 12 agosto 1977, n. 675, d.m. 23 luglio 1980, d.m. 23 giugno 1981, l. 5 agosto 1981 n. 416. Questi provvedimenti, appunto, non hanno regolato il leasing come tale, che era e rimane un negozio “atipico”, ma si sono limitati all’ aspetto fiscale dell’ istituto, che viene invece disciplinato per lo più dalle clausole stabilite dalle parti, sempre che non siano contrarie a norme inderogabili di legge.
Una particolare variante del leasing è il c.d. sale and lease back, o semplicemente lease back, che si ha quando un imprenditore, in difficoltà finanziarie, cede i propri strumenti di lavoro ad una società la quale contestualmente glieli riconcede in uso dietro pagamento di un canone. La Corte di Cassazione ha recentemente stabilito che questo tipo di leasing è nullo quando è diretto ad aggirare il divieto, posto dalla legge, del patto commissorio, cioè di quel patto in base al quale la cosa data dal debitore in pegno al creditore, in mancanza di restituzione del debito, passa in proprietà del creditore (che ne trarrebbe ingiusto vantaggio essendo solitamente le cose date in pegno di valore molto superiore all’ ammontare del credito).
In ogni caso, ovviamente le imprese fanno ricorso al leasing anche per l’ acquisto di apparecchiature informatiche, specialmente nei casi in cui l’ investimento è notevole ed è necessario ricorrere ad una forma di aiuto finanziario, come quella costituita da tale contratto che assomiglia molto, ad uno sguardo ravvicinato, ad una specie di vendita a rate (di cui abbiamo già parlato nel n. xxx di PC Open, di xxx 1996, a pag. xxx).
Infatti, le clausole contenute nei contratti di leasing solitamente prevedono l’ esonero totale del concedente dalla garanzia per vizi della cosa (la società di leasing, in altri termini, non sarebbe responsabile per gli eventuali vizi della cosa concessa in uso all’ imprenditore); l’ addossamento all’ imprenditore del rischio per la mancata o la ritardata consegna del bene da parte del produttore o rivenditore; l’ addossamento, sempre all’ imprenditore, del rischio per il perimento della cosa (ciò significa che se, ad esempio, il computer salta per caso fortuito, come nel classico caso del fulmine, l’ imprenditore è tenuto a continuare il pagamento dei canoni come se nulla fosse successo fino alla fine del contratto); la risoluzione di diritto del contratto in caso di mancato pagamento dei canoni e l’ acquisizione, a titolo di penale, dei canoni residui con facoltà di richiedere l’ ulteriore risarcimento dei danni.
Insomma, come nella vendita a rate, l’ imprenditore che ottiene in leasing in bene ne acquista subito l’ utilizzo ma, pur non essendone proprietario, sopporta i rischi connessi alla distruzione o rottura del bene come se già ne fosse proprietario e, inoltre, perde tutto se non paga i canoni previsti. Anzi, nel leasing è addirittura molto meno tutelato che nella vendita a rate perchè almeno in quel caso il venditore è tenuto a garantire l’ assenza di vizi, risponde del ritardo nella consegna e nel caso di risoluzione del contratto può essere chiesta una riduzione della penale incassata.
Per questi motivi i giudici spesso hanno ritenuto che diverse clausole, ordinariamente contenute nei contratti di leasing, siano illegittime e quindi inefficaci; ad esempio secondo alcuni giudici sarebbe infondata l’ esclusione della garanzia per l’ assenza di vizi della cosa oggetto del contratto. La società di leasing, secondo questi giudici, sarebbe quindi sempre responsabile, nonostante l’ inserimento di una clausola in contrario, per gli eventuali vizi del bene ceduto in leasing. Altri hanno ritenuto che la clausola in base alla quale in caso di mancato pagamento dei canoni, con conseguente risoluzione del contratto, la società di leasing può trattenere le somme nel frattempo pagate sia illegittima nella parte in cui non consente all’ imprenditore di chiedere indietro tutto quello che va al di là di un equo risarcimento.
Insomma, mancando come già ripetuto, una specifica disciplina di legge sono diversi i punti del contratto di leasing non ancora ben definiti ed occorre prestare quindi la massima attenzione nell’ utilizzo di questo strumento, cercando di curare al massimo la stesura del testo contrattuale che per tali motivi rimane di fondamentale importanza.
acquistare hardware all’ estero
ACQUISTARE ALL’ ESTERO. E’ sempre più frequente l’ acquisto di apparecchiature informatiche all’ estero, grazie alla diffusione di strumenti quali le reti telematiche, che consentono anche a piccole aziende di essere presenti in qualsiasi parte del globo, e a sempre più comodi sistemi di pagamento internazionalmente accettati quali le carte di credito, usate largamente oramai anche nel nostro Paese. I prezzi, poi, sono spesso più bassi rispetto a quelli praticati in Italia. Ma la differenza di costo rende effettivamente conveniente acquistare all’ estero? Non c’e’ ad esempio, in altri termini, il rischio di perdere, come contropartita, la possibilità di far valere la garanzia di buon funzionamento del prodotto in caso di suo malfunzionamento e di ottenerne la riparazione gratuita, come si può invece solitamente fare per i prodotti che si acquistano in “patria”? Gli strumenti informatici, sia hardware che software, sono infatti notoriamente prodotti particolarmente delicati e le fasi dell’ assistenza e della garanzia post-vendita sono tutt’ altro che trascurabili.
In effetti, i problemi per chi acquista all’ estero e non è assistito dalla fortuna possono essere diversi. Il fatto è, innanzitutto, che non sempre quando si stipula un contratto con un’ azienda estera la legge applicabile è quella italiana: se si acquista, ad esempio, una scheda madre in Belgio, per le modalità con cui è stato concluso il contratto, potrebbe risultare applicabile allo stesso la sola legge belga con il risultato che il consumatore italiano si troverebbe “spiazzato” nel dover invocare l’ applicazione di una legge che non conosce e nel non poter invece far conto sulle regole di garanzia, assistenza e così via poste dal nostro codice civile su cui solitamente si fa affidamento.
In materia, la legge di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato richiama le disposizioni della Convenzione di Vienna sulle obbligazioni contrattuali. Questa contiene alcune disposizioni particolari per i contratti conclusi dai consumatori, quindi anche per gli acquisti di hardware e software. In questi casi si possono avere due ipotesi: o le parti del contratto scelgono direttamente la legge da applicare al contratto, nel senso che indicano in modo esplicito che il contratto, ad esempio, deve essere regolato dalla legge francese, oppure non effettuano alcuna scelta. Nel primo caso, la Convenzione stabilisce che, pur applicandosi (seguendo l’ esempio), la legge francese, il consumatore può sempre invocare l’ applicazione delle norme fondamentali poste a sua tutela. Nel secondo caso, invece, il consumatore è più tutelato perchè è stabilita l’ applicazione della legge dello Stato nel cui territorio il consumatore risiede.
Bisogna quindi innanzitutto fare attenzione alle clausole dei moduli d’ ordine che indicano la legge applicabile al contratto e, se possibile, inserire direttamente la legge italiana in luogo della diversa legge prevista; in mancanza della possibilità di inserire una legge, si può sempre fare affidamento sull applicazione di quella italiana. In ogni caso, il consumatore è tutelato perchè anche in caso di scelta di una legge straniera il giudice deve applicare le norme italiane fondamentali in materia di tutela del consumatore che, come abbiamo detto, sono per l’ Italia state introdotte con la legge comunitaria 1994.
I giudici di tutti gli Stati che hanno firmato la Convenzione di Vienna sono obbligati a seguire le sue prescrizioni: ciò comporta che se un italiano acquista a Parigi un computer e successivamente cita davanti al Tribunale della stessa città la ditta venditrice per malfunzionamento dello stesso, il giudice francese deve applicare la legge italiana (così come avverrebbe per un consumatore francese che acquistasse un prodotto informatico a Roma: il giudice italiano dovrebbe applicare il diritto francese). Lo scopo, infatti, della Convenzione è proprio quello di tutelare il consumatore facendo sì che egli, anche negli acquisti internazionali, possa sempre fare affidamento sulle regole giuridiche a lui familiari.
Con questo però si vengono alle c.d. “note dolenti”: nonostante i notevoli progressi e le garanzie previste, rimane sempre un problema instaurare una causa all’ estero o in Italia contro uno straniero. Infatti, il problema è sempre quello dei costi della giustizia e, quand’ anche si riesce ad ottenere una decisione favorevole, quello dei modi in cui far sì che essa sia rispettata, non potendo certo gli ufficiali giudiziari italiani (cioè gli organi competenti a ottenere l’ esecuzione delle sentenze quando i destinatari non vi si conformano spontaneamente) esercitare i loro poteri al di fuori dello Stato che glieli ha conferiti.
Per questi motivi, spesso si preferisce, nonostante prezzi e imposte maggiori, acquistare in ambito nazionale e la fornitura all’ estero viene per lo più utilizzata da chi se la sente di fare affidamento sulla fortuna, ritenendo che un po’ di rischio in più valga la contropartita di un minor prezzo.
L’ acquisto di un sistema informatico a rate, specialmente quando per la sua complessità il costo raggiunge diversi milioni, è sempre più comune sia per i privati che per le piccole aziende che devono installare una rete o informatizzare tutti gli uffici. Ma quali regole valgono in materia? Se, ad esempio, il compratore omette di pagare una rata che cosa succede? E se il computer acquistato si rompe ed è da buttare quando ancora bisogna finire di pagarlo?
Il nostro codice è molto chiaro nel dire che nella vendita a rate il compratore acquista la proprietà con il pagamento dell’ ultima rata, ma assume i rischi dal momento della consegna.
Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, quindi, la proprietà del PC o del sistema che si è acquistato rimane del venditore sino alla corresponsione dell’ ultima rata; l’ acquirente, insomma, sino a che non termina il pagamento, ne è un mero detentore.
Da ciò dovrebbe, in linea di principio, discendere che, in caso di rottura del computer, l’ acquirente non è più tenuto al pagamento delle rate residue, valendo in via generale la regola per cui i guasti di una cosa sono imputabili al proprietario della stessa. In realtà non è così, valendo in questo caso un’ eccezione alla regola generale: il rischio, nella vendita a rate, passa sin da subito all’ “acquirente” anche se non è proprietario. Questo significa, ad esempio, che colui che acquista a rate un personal computer, lo collega alla rete elettrica e se lo vede bruciare completamente per la scarica di un fulmine entrato nella rete stessa, come spesso accade, deve continuare a pagare le rate del prezzo, pur non avendo alcuna colpa nell’ accaduto (c.d. caso fortuito).
L’ acquirente a rate, quindi, si trova in una posizione particolarmente debole: non acquista la proprietà della cosa sino al termine del pagamento, con tutte le conseguenze del caso tra le quali ad esempio il fatto di non poterla utilizzare come garanzia per ottenere un mutuo; intanto però la legge lo considera come se fosse proprietario, ma solo per quanto riguarda i “guai” (guasti o totale perimento) che possono verificarsi sul bene acquistato.
Per tutelarlo almeno sotto alcuni aspetti, il codice ha stabilito che il mancato pagamento di una sola delle rate non comporta lo scioglimento del contratto, con conseguente dovere di restituire il bene comprato. Questo però, correlativamente, significa che in caso di mancato pagamento di due rate consecutive, il venditore ha il diritto di richiedere la restituzione del bene; così può avvenire, inoltre, nel caso in cui la rata non pagata sia unica ma di importo superiore all’ ottava parte del prezzo. Di fatto, quando l’ acquirente non paga, il venditore si riprende il bene e si tiene anche le rate già pagate a titolo di risarcimento del danno e di indennizzo per l’ uso della cosa che nel frattempo aveva fatto l’ acquirente. Anche processualmente il venditore è privilegiato: può far sì che la restituzione della cosa sia ordinata con un’ ingiunzione del giudice ottenibile in poche settimane; il compratore, invece, se vuol contestare l’ ammontare del danno subito dal venditore deve iniziare una causa ordinaria della durata, solitamente, di diversi anni.
Il venditore, insomma, rimanendo formale proprietario del bene sino al pagamento dell’ ultima rata è tutelato nel massimo grado: ha diritto a riprendersi il bene nella sua integrità anche quando il compratore eventualmente viene dichiarato fallito (mentre invece chi allo stesso acquirente fallito aveva venduto senza rate, e non era ancora stato saldato, potrà solo insinuarsi nel passivo fallimentare e dovrà quindi abbandonare ogni speranza di avere integralmente il prezzo e, tantomeno, il bene).
Abbastanza frequentemente, quando si acquista a rate un personal o una rete informatica, la rateizzazione avviene tramite il rilascio di più cambiali-tratte. Al venditore questo fa comodo perchè subito dopo le cambiali possono essere girate a terzi o scontate presso una banca (che gliene corrisponde l’ importo meno il tasso di interesse attivo calcolato dal giorno dell’ incasso al giorno della scadenza della cambiale), ma per il compratore c’e’ il rischio, in caso di mancato pagamento, di finire sul famigerato bollettino dei protesti e inoltre, se paga per qualsiasi motivo (anche per errore) al venditore una cambiale che era stata invece messa in circolazione, di trovarsi dover pagare la rata due volte.
In conclusione, se la vendita a rate di personal computer e apparecchiature elettroniche ha l’ indubbio pregio di consentire a chi non ha disponibilità liquide immediate di poter acquisire uno strumento informatico per il proprio lavoro, in realtà appare solitamente sconsigliabile per chi, avendo invece tali liquidità, potrebbe effettuare direttamente l’ acquisto, e la preferisce semplicemente per una presunta maggiore comodità.